ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 198/2023

1 Agosto 2023

Rama Dasi Mariani, Giuseppe De Arcangelis,

Incentivare lo sviluppo frena le migrazioni? I motivi per dubitarne (e per pensare l’opposto)

Giuseppe De Arcangelis e Rama Dasi Mariani esaminano la relazione tra sviluppo e migrazioni internazionali, prendendo spunto dai recenti svolgimenti di politica europea ed internazionale e dal World Development Report appena pubblicato dalla Banca Mondiale. Dopo aver spiegato che dalla letteratura economica non emerge una relazione lineare ed univoca tra livello di sviluppo e ampiezza dei flussi migratori, De Arcangelis e Mariani riflettono sulle determinanti sociopolitiche delle migrazioni e suggeriscono di affrontare la questione con un approccio più integrato.

Di recente il tema delle migrazioni internazionali, e in particolare la sua connessione con lo sviluppo dei paesi di origine, è tornato ad occupare in modo dirompente il dibattito nazionale ed europeo, nonché internazionale. Il World Development Report, il più importante documento annuale della principale istituzione internazionale che si occupa di sviluppo, ovvero la Banca Mondiale, è interamente dedicato al tema delle migrazioni. A livello europeo si è parlato di migrazioni a margine del Consiglio Europeo del 29 e 30 giugno 2023 e il 23 luglio 2023 si è tenuta a Roma la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazione, con la partecipazione di molti paesi della sponda Sud e della sponda Nord del Mediterraneo, di paesi africani e del Medio Oriente, ma con l’assenza di Francia e Spagna.

Brevemente si ricorda che a livello europeo l’ultima volta che si è parlato apertamente di migrazioni internazionali è stata nell’autunno del 2020, a seguito del grave incendio che aveva devastato il centro di accoglienza sull’Isola di Lesbos in Grecia. Da allora il dibattito era fermo. All’epoca, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen aveva presentato la proposta di un Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, il cui contenuto era stato descritto in quest’articolo del Menabò.

Dall’autunno del 2020 all’estate del 2023 la situazione è rimasta in stallo per il nodo, non ancora risolto, che riguarda il meccanismo di ricollocamento forzato e, dunque, il superamento del principio del “primo ingresso illegale” sancito dal Regolamento di Dublino. In base a questo, il paese d’approdo dei migranti che fanno per la prima volta ingresso nell’Unione Europea deve farsi interamente carico della loro richiesta di asilo. Anche durante l’ultimo Consiglio Europeo di giugno 2023, infatti, non sono stati fatti passi avanti per il mancato accordo con Ungheria e Polonia. Questi paesi continuano ad essere contrari ad un meccanismo che permetta a chi non vuole accogliere i flussi di ricollocamento di contribuire in maniera diversa, e in particolare con fondi o mezzi, alla gestione delle procedure di richieste d’asilo.

Venendo alla questione di questi giorni, dalla Conferenza Internazionale di Roma del 23 luglio 2023 è emerso chiaramente un altro punto: si deve favorire lo sviluppo economico dei paesi africani e della sponda Sud del Mediterraneo per ridurre i flussi verso la sponda Nord, dunque verso l’Italia e, in generale, l’Europa. Per quanto apprezzabile possa apparire la proposta di cooperazione per un obiettivo di sviluppo, il suo legame con l’ampiezza dei flussi migratori risulta fallace per due motivi che proveremo a spiegare in questo articolo.

La teoria economica sul legame tra livello del reddito e propensione alla migrazione non è semplice da riassumere in poche frasi di valenza conclusiva. Come spiegava George J. Borjas nell’articolo del 1987 dal titolo “Self-Selection and the Earnings of Migrants”, la decisione di migrare dipende dalla differenza tra il reddito medio del paese di destinazione e il reddito medio del paese di origine, al netto dei costi della migrazione. Perciò con lo sviluppo economico, aumentando il reddito medio dei paesi d’origine, si riducono gli incentivi alla migrazione e, dunque, “a parità di altre condizioni”, anche i flussi verso l’Europa. Il problema, però, è che le politiche di sviluppo sono in grado di influenzare anche i costi della migrazione, spesso riducendoli. Pertanto, il loro effetto sull’ampiezza dei flussi risulta ambiguo. Tra le iniziative e i progetti di cui si è discusso durante la Conferenza di Roma ci sono, infatti, politiche nel settore delle infrastrutture e dell’istruzione, le quali hanno un effetto negativo diretto sui costi della migrazione.

Inoltre, è utile citare anche un altro contributo della letteratura economica sul tema. Micheal A. Clemens e Mariapia Mendola in un articolo più recente (“Migration from Developing Countries: Selection, Income Elasticity, and Simpson’s Paradox”, IZA DP n. 13612, 2020) stimano a livello individuale l’elasticità della migrazione al reddito, ossia come la scelta di migrare del singolo sia sensibile al valore del proprio reddito in modo non lineare. Il risultato che emerge dallo studio è che la migrazione viene considerata dalle famiglie dei paesi in via di sviluppo come un “bene normale”, ossia un bene la cui domanda aumenta all’aumentare del reddito soprattutto quando il reddito di partenza è basso. Intuitivamente, quando il reddito è basso al suo aumentare alcuni ostacoli a intraprendere il progetto migratorio si riducono (ad esempio, i vincoli di liquidità) e si parte per i guadagni netti attesi molto elevati, proprio rispetto al reddito di partenza. I due economisti stimano che, affinché la migrazione sia considerata dalle famiglie come un “bene inferiore”, ossia un bene caratterizzato da un’elasticità al reddito negativa, e quindi tale che il miglioramento economico scoraggi le partenze, il PIL pro capite del paese debba essere superiore a 10.000 dollari.

Nel 2021 il PIL pro capite era pari circa a 3.500 dollari in Algeria, Egitto, Marocco e Tunisia mentre in Libia si avvicinava ai 6.500 dollari. Per i paesi dell’Africa Sub-Sahariana i valori sono ancora più bassi. Pertanto, stando alle stime dei due economisti, le iniziative proposte, anziché generare l’esito sperato di ridurre le richieste d’ingresso in Europa, potrebbero avere l’effetto di aumentarle.

Lo studio di Clemens e Mendola mette in risalto un’incongruenza con le ipotesi del modello di Borjas classificabile come un classico Paradosso di Simpson. In base a quest’ultimo, una relazione valida nell’aggregato può non risultare più tale quando la si applica ai vari gruppi della popolazione oppure, come in questo caso, a diversi paesi.

Inoltre, la scelta di migrare non è determinata solamente da ragioni economiche e il contenimento dei flussi vede un limite nelle cc.dd. migrazioni forzate, le quali dipendono principalmente da ragioni sociopolitiche e per le quali la legislazione internazionale prevede un obbligo di accoglienza da parte dei paesi di destinazione.

A tal proposito, il recente World Development Report, della Banca Mondiale, “Migrants, Refugees and Societies” (Migranti, Rifugiati e Società) integra l’approccio puramente economico, basato sull’incontro virtuoso tra la domanda di qualifiche delle imprese e l’offerta delle stesse da parte dei migranti (good matching) nel mercato del lavoro di destinazione, con l’approccio del diritto internazionale che contempla i movimenti migratori determinati da cogenti motivazioni extra-economiche, come è ad esempio il caso di chi fugge da una guerra o da una calamità naturale, oppure ancora è perseguitato per motivi di religione, etnia o per le sue opinioni politiche.

Il rapporto sottolinea come l’implementazione di politiche migratorie basate su una netta distinzione tra migranti economici e migranti “per necessità”, distinzione assai labile, rischi di portare a gravi iniquità di trattamento. Così è successo che qualcuno ha potuto ottenere un permesso umanitario per fuggire da una situazione di guerra – ed è il caso dei rifugiati dell’Ucraina dal febbraio 2022 – mentre altri sono stati condannati a restare in paesi dove i diritti umani non sono pienamente tutelati – come è successo alle donne afghane o ai perseguitati per diritti civili in paesi a regime autoritario. Per l’Europa, portatrice da sempre di valori universali, può trattarsi di una questione ontologica. Come ha scritto anche Nadia Urbinati su Domani del 22 luglio, siglare accordi con i vicini, senza porsi il problema che in questo modo si stanno condannando alcune persone a rimanere in paesi dove non godono pienamente dei diritti sociali, politici e civili , indubbiamente tradisce il principio di universalità dei diritti umani che ispirò la fondazione dell’Unione Europea.

Ma l’obiettivo dell’ultimo World Development Report è anche di suggerire le migliori politiche da adottare sia nei paesi di destinazione, sia in quelli di origine e di transito per conferire al fenomeno migratorio un vantaggio netto per tutti. Nei paesi di destinazione si raccomandano misure che migliorino non soltanto l’incontro virtuoso tra domanda e offerta sul mercato del lavoro, ma anche l’offerta di servizi pubblici per evitarne un congestionamento di domanda e rendere, così, la migrazione un fenomeno più accettabile per tutte le fasce della popolazione. Nei paesi di transito i maggiori costi economici e sociali dovrebbero essere oggetto di trattativa internazionale per una loro più equa suddivisione. Questo vale per i paesi di transito sia della sponda Sud sia della sponda Nord del Mediterraneo, sebbene per questi ultimi la questione sia ancora irrisolta, come si è già detto.

Il rapporto sottolinea inoltre come le misure da adottare nei paesi di origine coincidano in parte con quanto discusso nella Conferenza di Roma, in particolare migliorare i sistemi di istruzione, ma con l’intento di rendere la stessa migrazione parte della politica di sviluppo. Non bisogna dimenticare, infatti, che le rimesse dei migranti rappresentano la principale fonte di finanziamento dei paesi a basso e medio reddito, superando gli investimenti privati (sia gli investimenti diretti, sia quelli di portafoglio) e soprattutto sono quasi cinque volte il valore degli aiuti allo sviluppo! Come Lant Prichett ha ricordato in un recente articolo su Foreign Affairs, la più efficace politica per lo sviluppo sarebbe quella di aprire le porte alla migrazione, considerato che è in grado di generare attraverso le rimesse flussi finanziari di entità inimmaginabile per i trasferimenti da parte dei paesi donatori.

Come per il cambiamento climatico, il fenomeno delle migrazioni internazionali dal Sud verso il Nord è una questione di quando si realizzeranno. Se gli indici della globalizzazione, come le esportazioni mondiali in percentuali del PIL o gli investimenti diretti rispetto al PIL, hanno mostrato una stagnazione o addirittura un’inversione di tendenza a partire dalla crisi del 2008, le rimesse internazionali come quota del PIL mondiale sono raddoppiate a indicare come negli ultimi 15 anni le migrazioni internazionali non si siano arrestate né per le crisi finanziarie, né per la pandemia.

La demografia è inesorabile: mentre in Italia nel 2050 avremo una persona in età lavorativa per ogni persona sotto i 15 e sopra i 65 anni, in Nigeria per ogni 10 persone in età lavorativa solamente 6 saranno sotto i 15 e sopra i 65 anni. Alcuni paesi, anche all’interno dell’Europa, si stanno preparando a questo futuro scenario. Ad esempio, il ministro del lavoro tedesco Hubert Heil il 2 maggio 2023 ha dichiarato che la Germania creerà “uno dei più moderni regimi di immigrazione”. Piuttosto che chiedersi come frenare la migrazione con lo sviluppo, forse sarebbe il caso di ampliare il dibattito aprendolo anche ad altre questioni.   

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