ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 196/2023

30 Giugno 2023

Daniele Canè, Umberto Galmarini, Leonzio Rizzo,

Il concordato preventivo: un “patto col diavolo”?*

Daniele Canè, Umberto Galmarini e Leonzio Rizzo intervengono sulla proposta del governo, contenuta nella recente delega fiscale, di concordato biennale preventivo e sostengono che l'unica strada che renderebbe conveniente il concordato per lo stato e per i cittadini è quella di una sorta di “patto con gli evasori”, concedendo loro di continuare ad evadere, ma un po’ meno rispetto a prima. Un’alternativa, compatibile con una realistica riduzione della pressione fiscale, è potenziare i controlli, utilizzando le banche dati disponibili e la relativa tecnologia digitale.

Il disegno di legge delega fiscale, licenziato dal governo a marzo e attualmente all’esame delle Camere, prevede, per lavoratori autonomi, imprese individuali e società di persone di minori dimensioni, l’istituto del concordato preventivo, che, oltre a facilitare gli adempimenti fiscali e assicurare certezza al rapporto tributario, avrebbe soprattutto l’obiettivo di recuperare almeno parte dell’evasione esistente.

L’istituto ha avuto poca fortuna finora in Italia. Tralasciando quello soppresso dalla riforma tributaria degli anni Settanta, che si inseriva in un contesto normativo molto diverso dal nostro, l’unico effettivamente applicato, e per poco tempo, è stato quello previsto dall’articolo 33, d.l. 269/2003. Si trattava di una disciplina comunque diversa da questa, sia perché non presupponeva una proposta dell’amministrazione, sia perché si predeterminava non la base imponibile, ma i ricavi: richiedeva, in particolare, al contribubente di adeguarsi in dichiarazione ai ricavi mimimi risultanti dagli studi di settore. Era stata concepita per anticipare il concordato preventivo triennale, istituito poco prima dalla l. 289/2002 e integrato dalla delega fiscale del 2003, e si è quindi applicata per il solo biennio 2003-2004; ma non aveva comunque ricevuto molte adesioni – 250 mila su oltre 3 milioni di interessati – anche perché riduceva sì i poteri di accertamento del fisco, ma impegnava i contribuenti a far emergere ricavi in precedenza non dichiarati e che restavano comunque imponibili (anche se ad aliquota agevolata). I concordati successivi, più simili a questo sia nel modo di perfezionamento che negli effetti, non hanno mai trovato applicazione: la pianificazione fiscale concordata, istituita dalla legge finanziaria per il 2005, è stata abrogata prima di entrare a regime, così come la programmazione fiscale, introdotta dalla finanziaria per il 2006 ed eliminata poco dopo dal d.l. 223/2006. È comunque interessante notare che in entrambe la proposta dell’Ufficio, concernente la base imponibile, si basava su studi di settore e parametri. Restava, inoltre, l’obbligo di adeguare i ricavi dichiarati alle risultanze degli studi di settore.

Il concordato nasce, fondamentalmente, per affrontare la cronica difficoltà di rilevare i ricavi e i redditi di attività economiche poco strutturate. Questo problema ha portato, negli anni, a discipline che, per recuperare l’evasione, hanno di fatto allontanato l’imposizione dal reddito determinato in base alle scritture contabili (come invece previsto dalla riforma tributaria degli anni Settanta). Dopo l’esperienza poco proficua della minimum tax, negli anni Novanta, con gli studi di settore, si era consentito agli Uffici di stimare presuntivamente i ricavi, per recuperare almeno parte di quanto non veniva dichiarato. Dal 2017 la strategia è cambiata, a seguito, fra l’altro, di alcuni studi dell’Ocse, che raccomandavano un rapporto più collaborativo fra fisco e contribuenti (ma le prime indicazioni si trovano già nella delega fiscale 23/2014). Sono stati così introdotti gli indici sintetici di affidabilità (ISA), allo scopo di incentivare l’adempimento (non più come strumento di accertamento): chi era in linea con gli ISA del proprio settore era considerato affidabile e beneficiava di una riduzione dei poteri di accertamento; gli altri potevano invece finire nelle liste di controllo. Il problema è che studi di settore e ISA individuano valori medi, frutto di stime al ribasso rispetto ai redditi effettivi. Di fatto, una rinuncia – dovuta ad una precisa volontà politica? – a rilevare i redditi effettivi di questi contribuenti – la cui evasione stimata in sede Irpef, in base alle relazioni ministeriali sull’evasione fiscale e contributiva, non è mai scesa sotto il 65 per cento (rapporto percentuale fra imposta evasa e gettito teorico atteso). 

Il concordato preventivo, inserito nel d.d.l. delega fiscale, è l’ultimo passaggio di una strategia che non ha comunque ridotto l’evasione dell’Irpef di autonomi e piccoli imprenditori. Il testo del disegno di legge prevede che l’Agenzia delle Entrate presenti ai contribuenti una proposta, che ha per oggetto la definizione della base imponibile Irpef e Irap valida per i due anni successivi. Chi aderisce resta potenzialmente controllabile – anche se è ragionevole aspettarsi che i controlli saranno indirizzati ai contribuenti non concordatari, sia per ragioni di efficienza dell’amministrazione, sia per rendere conveniente l’adesione. In base al testo attuale della delega, la predeterminazione dell’imponibile è di fatto rimessa alle parti. La delega non dice, poi, se la proposta di concordato sarà indirizzata a tutti i potenziali interessati o solo ad alcuni: è in effetti previsto che, nel formularla, gli Uffici si avvalgano di banche dati, di cui si prevede l’interoperabilità, e di nuove tecnologie, ma, a parte che le banche dati riportano il dichiarato, e non l’evaso, non sono stabiliti limiti minimi al reddito concordabile (com’era invece in precedenti concordati); si prevede, inoltre, il contraddittorio con il contribuente, ma con modalità semplificate e verosimilmente limitate – anche per non oberare gli Uffici. Questo è un punto importante: considerato, fra l’altro, che la platea degli interessati è ampia – attorno ai due milioni di contribuenti – e che è difficile, se non impossibile, che gli Uffici, ad oggi, possano gestire proposte di concordato specifiche – e per di più in contraddittorio – con ogni singolo contribuente, la prassi rischia di produrre proposte “standardizzate” per classi di contribuenti, fondate per lo più su quanto dichiarato in passato e con buona pace dei redditi effettivi (ed effetti analoghi ad un condono ex post).

Per quali contribuenti può risultare conveniente una proposta di concordato? Il concordato permetterà di recuperare gettito? Osserviamo, in primo luogo, che il concordato si pone in competizione col regime forfettario, riservato ai soli titolari di redditi da lavoro autonomo e d’impresa sotto un dato livello di fatturato (85 mila euro). La differenza di rilievo, rispetto al regime ordinario, sta nel fatto che il reddito imponibile (ricavi al netto dei costi forfettizzati e dei contributi previdenziali) è soggetto ad una flat taxcon aliquota del 15 per cento. Se accettasse la proposta di concordato, il contribuente dovrebbe abbandonare questo regime, per accedere a un’imposizione sul reddito concordato secondo il regime ordinario Irpef che, a parità di reddito imponibile, risulta molto più gravoso. Il concordato potrebbe competere col regime forfettario solo con proposte molto inferiori ai redditi forfettizzati, o comunque ben lontane dai redditi effettivi. Gli Uffici dovrebbero, perciò, indirizzare le proposte di concordato soprattutto a contribuenti non forfettari, e – logica vuole – ai potenziali evasori, cui si dovrebbe proporre un imponibile superiore a quello usualmente dichiarato, ma inferiore a quello effettivo (per ridurre il rischio che la proposta sia rifiutata). D’altro canto, una proposta di concordato ad un non evasore difficilmente avrebbe successo. Infatti, se la proposta fosse in linea o superiore a quanto già dichiarato, verrebbe rifiutata dal contribuente; se invece fosse inferiore, non sarebbe ragionevole per gli Uffici proporla, perché genererebbe una perdita di gettito. Non sembrano, quindi, esserci grandi prospettive per il concordato, se non come una sorta di “patto con gli evasori”, ai quali si concede di continuare ad evadere, ma un po’ meno rispetto a prima – perciò, con recupero di gettito modesto. Va detto che alcune dichiarazioni del vice Ministro Leo lasciano intendere che gli ISA potrebbero essere utilizzati per diversificare le proposte e per decidere a quali contribuenti proporre il concordato. Non si vedrebbe, tuttavia, perché proporre un concordato ai contribuenti più affidabili – a meno che l’obiettivo non sia far emergere l’evasione, e in quest’ottica intercettare i contribuenti poco affidabili, bensì premiare, con uno sconto fiscale, proprio quelli affidabili. Così facendo, però, lo Stato rinuncerebbe a entrate che già percepisce.

Comunque la si metta, insomma, vi è il rischio, concreto, di sacrificare eccessivamente, da un lato, la giusta imposizione, avallando sacche consolidate di evasione, dall’altro, la corretta percezione delle entrate pubbliche, rinunciando a un gettito sicuro. Ma allora, viste le criticità evidenziate e i passati insuccessi, non varrebbe forse la pena potenziare davvero i controlli, utilizzando le banche dati disponibili e la relativa tecnologia digitale, che negli ultimi anni ha rivoluzionato il mondo della comunicazione? Si pensi alle potenzialità insite nelle recenti applicazioni di intelligenza artificiale. La delega menziona proprio la possibilità di sfruttare il patrimonio informativo e le tecnologie esistenti per migliorare le analisi di rischio (che sono, lo ricordiamo, completamente automatizzate). Il punto è, ovviamente, come avvalersene e a che fine. Fra l’altro, se seriamente intrapresa, questa strada potrebbe accompagnarsi ad una graduale – e realistica – diminuzione della pressione fiscale – che è anch’essa un obiettivo della riforma fiscale.


* Questo articolo è pubblicato in contemporanea su www.lavoce.info.

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