ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 204/2023

2 Dicembre 2023

Il potere: una prospettiva riformista

Alessandro Roncaglia presenta i principali contenuti del suo recente libro Il potere. Una prospettiva riformista che, attingendo a molte discipline, illustra la natura multiforme del potere e quanto sia essenziale riflettere su di essa per spiegare non solo la crescita delle diseguaglianze economiche, ma anche il rafforzamento dei centri di potere economico e la loro influenza sul dibattito culturale e sulla vita politica. Roncaglia delinea anche una strategia di riforme di struttura per progredire sulla strada delle libertà individuali e della giustizia sociale.

Il potere è un concetto arcobaleno: difficile individuare dove inizia e dove finisce, ed è composto dalla fusione di tanti elementi, che sfumano l’uno nell’altro. Riflettere sulla natura multiforme del potere è indispensabile per spiegare perché, dopo gli importantissimi passi in avanti fatti dopo la seconda guerra mondiale, a partire dagli anni Settanta importanti progressi nel campo dei diritti civili sono stati accompagnati da elementi di regresso per quanto riguarda non solo la crescita delle diseguaglianze di reddito e ricchezza, ma anche per il rafforzamento dei centri di potere economico e la loro influenza sia sul dibattito culturale sia sulla vita politica. In un mio recente libro mi sono dato proprio l’obiettivo di riflettere su queste tematiche proponendomi non di elaborare una nuova teoria astratta del potere ma di analizzarne i diversi aspetti, per giungere a delineare una strategia di riforme di struttura miranti a ridurre le diseguaglianze (intese come diseguaglianze di potere, prima ancora che di reddito e ricchezza) per progredire sulla strada delle libertà individuali e della giustizia sociale. In queste note cercherò di indicare i temi principali trattati e la loro rilevanza per gli obiettivi indicati. 

Per iniziare, dopo una breve rassegna delle principali definizioni, si può tentare una integrazione tra principali tipi (carismatico, tradizionale, legale) e aree (economica, politica, culturale) del potere e una analisi dinamica basata sul confronto fra processi cumulativi (che rafforzano le diseguaglianze) e processi di bilanciamento (che le riducono). L’origine delle diseguaglianze (quindi della stratificazione sociale, per classi e ceti) viene individuata nella divisione del lavoro che, come ricorda Smith, è anche fonte di alienazione. Smith insiste, tra l’altro, sul fatto che le differenze di capacità tra individui, ad esempio tra il professore e il muratore, sono soprattutto conseguenza e non causa della divisione del lavoro, un aspetto su cui viene criticato da Pownall: un contrasto che permette alcune considerazioni sul modo in cui le differenze di genere possono essere interpretate dagli economisti classici e da quelli neoclassici. L’evoluzione della stratificazione sociale è legata ai mutamenti nella divisione del lavoro, generati dal cambiamento tecnologico ma anche dallo sviluppo della divisione del lavoro su scala internazionale. Tra le utopie sul superamento della divisione del lavoro, oltre a quella marxiana, si può richiamare quella di Ernesto Rossi basata sull’esercito del lavoro, che tende non al superamento della divisione del lavoro ma alla condivisione tra tutti e alla limitazione nel tempo del lavoro costrittivo.

La struttura sociale di potere si modifica con gli sviluppi istituzionali che accompagnano lo sviluppo della divisione del lavoro, nel passaggio da capitalismo mercantile a capitalismo manifatturiero, poi da capitalismo manageriale a capitalismo dei money managers. Cresce anche il ruolo di quello che possiamo chiamare ‘settore qualificativo’, diretto a sostenere e accompagnare il cambiamento tecnologico e lo sviluppo economico e civile favorito dalla crescita della ‘ricchezza delle nazioni’: ricercatori ma anche insegnanti, tecnici ma anche giornalisti, e simili: la fetta progressista delle classi medie. L’oligopolio (nella versione di Sylos Labini, basata sulla presenza di barriere all’entrata nei diversi settori di attività) va considerato come forma di mercato generale, rispetto alla quale concorrenza (assenza di barriere) e monopolio (barriera insuperabile) appaiono come i due casi-limite. Incroci azionari e interlocking directorates possono dare luogo a potere di dominio (concentrato) o di rete (più diffuso, ma meno solido). La tesi di Hayek, del mercato come kosmos, ordine sviluppatosi spontaneamente, è contrapposta a quella (ordoliberale, ma non solo) del mercato come taxis, o ordine realizzato tramite l’imposizione di regole di funzionamento e strumenti di controllo.

All’idea neoliberista di una società meritocratica, in cui le differenze di potere, reddito e ricchezza dipendono dalle diverse capacità e diverso impegno degli individui, si può contrapporre l’idea di una società caratterizzata dalla presenza di reti di potere. Il mito neoliberista di un level playing field, un terreno di gioco ben livellato, in cui ciascuno può realizzarsi in perfetta concorrenza con gli altri, va sostituito da una concezione decisamente più realistica di una situazione in cui le basi di partenza sono diverse, e la mobilità sociale è limitata da vincoli forti. Questi vincoli, accanto alle condizioni di nascita, si sostanziano soprattutto in reti di potere, un campo di ricerca in rapida espansione e che richiede una maggiore integrazione tra le analisi economiche, quelle sociologiche e quelle politiche. Tra le reti proporrei di distinguere quelle ‘bianche’ legali ed eticamente difendibili (famiglie, religioni, partiti), le reti grigie pur sempre legali ma di dubbio fondamento etico (familismo amorale, massoneria), le reti ‘nere’ illegali (la P2, di cui è utile approfondire le ricette economiche, e la criminalità organizzata, di cui conviene seguire l’evoluzione dalla mafia con coppola e lupara alla forma moderna, imprenditoriale). Ad esempio, l’influenza di una rete grigia come la massoneria si è fatta sentire, in modo decisamente negativo, in varie vicende politiche e nel raccordo tra associazioni di tipo mafioso e il livello dei ‘colletti bianchi’, professionisti o amministratori locali.

Per quanto riguarda lo Stato, si passa dalla concezione marxiana di strumento del dominio di classe a quella weberiana di monopolio della forza legittima, dalla concezione rousseauiana del contratto sociale a quella meno rigida – di consenso tacito suggerita da Hume, dal suo ruolo per la costruzione giuridica del mercato a quello di contropotere dei poteri economici, fino ai diversi ‘tipi di regolazione’, come il welfare state. Un tema connesso è quello del rapporto tra cultura e potere, che coinvolge le nozioni di discorso pubblico, di egemonia e dominio, di società civile; il ruolo delle masse e delle élites, delle religioni, dei nuovi media e il dibattito sul confronto tra la cultura scientifica e quella umanistica. Va considerata anche la dimensione spaziale del potere, nei suoi vari aspetti: famiglia, poteri locali, Stato federale e centralista, le multinazionali, le reti di alleanze politiche internazionali, il cosiddetto ‘scontro di civiltà’, le migrazioni, le istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea. Per quanto riguarda i poteri locali, ad esempio, la concezione centralista difesa alle origini dello stato italiano da Cavour può essere contrapposta a quella aperta al decentramento proposta all’epoca da Cattaneo, e ripresa successivamente da Rosselli come parte del suo socialismo liberale.

L’analisi delle diverse dimensioni del potere permette poi di affrontare il passo successivo: le possibili strategie d’intervento. Si pongono al riguardo problemi etici, che conviene affrontare tramite la proposta di una concezione intermedia tra individualismo e organicismo, una versione debole ma non vuota del concetto di bene comune. Si arriva così alla fusione degli ideali di giustizia e libertà proposta da Carlo Rosselli con il suo socialismo liberale (e si può ricordare al proposito l’erroneità della critica di Croce, che al riguardo aveva parlato di ircocervo, commistione incompossibile di elementi di natura diversa e contraddittoria). L’obiettivo ‘di sinistra’, secondo la celebre definizione di Bobbio, è l’estensione dei diritti e la riduzione delle diseguaglianze di potere. Quel che conta non è il punto d’arrivo – il superamento completo delle diseguaglianze è utopistico e porselo come obiettivo è foriero di disastri – ma la strada da percorrere. In questo senso, occorre riprendere la strategia delle riforme di struttura proposta da Riccardo Lombardi, che è diversa sia da quella oggi dominante (secondo la quale le riforme di struttura sono quelle dirette a rendere più efficiente il sistema economico) sia da quella che caratterizzava il PCI (secondo la quale potevano caratterizzarsi come riforme di struttura solo quelle dirette al superamento dell’ordine capitalistico). La strategia delle riforme di struttura di Lombardi consiste in una serie di interventi diretti a realizzare passo dopo passo una riduzione delle diseguaglianze di potere: come accade ad esempio con lo Statuto dei lavoratori, con la scuola media unificata, con la creazione di un sistema sanitario nazionale. Queste conquiste di civiltà sono state e sono oggi oggetto di attacco da parte del neoliberismo, la cui critica sul piano teorico costituisce quindi parte di una strategia politica progressista. Così, mentre nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale si sono fatti importantissimi passi in avanti, a partire dagli anni Settanta importanti progressi nel campo dei diritti civili sono stati accompagnati da elementi di regresso per quanto riguarda non solo la crescita delle diseguaglianze di reddito e ricchezza, ma anche per il rafforzamento dei centri di potere economico e la loro influenza sia sul dibattito culturale sia sulla vita politica.

Come si vede, i temi da affrontare in un’analisi del potere sono tanti e debordano dall’usuale campo di lavoro degli economisti. In una intervista con una giornalista statunitense, in occasione della prossima uscita dell’edizione inglesedel libro, alquanto più ampia di quella italiana, mi è stato chiesto come mai un economista avesse deciso di affrontare il tema del potere, e cosa mancasse al modo di affrontare il problema tipico dell’economia. Per rispondere alla seconda domanda, ho richiamato un passo di Bertrand Russell (nel suo libro sul potere, 1938): “L’economia come scienza separata è irrealistica e fuorviante se presa come guida per la pratica. È solo un elemento – un elemento molto importante, è vero – di uno studio più ampio, la scienza del potere”. In effetti, avevo scelto di diventare economista proprio perché volevo affrontare il problema del potere; a quell’epoca (1965) l’economia politica – specie nella versione insegnata da Sylos Labini nella Facoltà di statistica di Roma – era una scienza sociale, priva di confini rigidi verso sociologia, storia o scienze politiche: cosa che mi ha aiutato ad affrontare un problema non solo difficile, ma di natura intrinsecamente interdisciplinare. Da quell’epoca, per oltre cinquant’anni, ho continuato a riflettere sull’argomento, discutendone soprattutto con un amico, Roberto Villetti, politico di professione, socialista intelligente e radicalmente onesto. Quando lui è morto, nel 2019, le discussioni sono finite e ho iniziato a scrivere il libro, che è dedicato a lui.

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