ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e…accesso al reddito minimo

La condizionalità al lavoro è sempre più parte delle politiche di reddito minimo e potrebbe apparire, addirittura, scontata. Ciò nondimeno, tra le diverse possibili giustificazioni della condizionalità, quelle oggi prevalenti presentano più di una criticità. Dopo avere messo in evidenza tali criticità, l’articolo delinea una giustificazione della condizionalità basata sulla natura assicurativa del contrasto alla povertà e, con essa, su una visione di reciprocità debole che appare del tutto compatibile con la Carta Costituzionale.

La domanda se il lavoro debba costituire una condizione di accesso al reddito minimo potrebbe sembrare oziosa. Dalla fine degli anni 90, tutti i paesi europei hanno progressivamente vincolato l’accesso al reddito minimo alla disponibilità a lavorare (sul mercato) qualora abili al lavoro e in condizioni di povertà. In Italia, l’idea che chi riceve un reddito debba essere disposto a lavorare è poi particolarmente radicata, come testimoniato dalle tante critiche al reddito di cittadinanza e dalle limitate opposizioni alla sua cancellazione da parte del governo Meloni. La Costituzione stessa sembra suffragarla, data l’enfasi che attribuisce al diritto/dovere di lavorare (cfr. Lavoro e Costituzione, in questo Menabò). Dunque, la risposta dovrebbe essere evidente e positiva.

E, invece, la domanda non è per nulla oziosa. Da un lato, esistono giustificazioni molto diverse della condizionalità. La risposta può, dunque, dipendere dalle giustificazioni offerte. Dall’altro, sempre sotto il profilo della giustizia sociale, esistono argomenti non di poco conto a favore della non condizionalità.

Le giustificazioni più diffuse della condizionalità al lavoro ci paiono due. Da un lato, vi è la giustificazione basata su una visione di reciprocità intesa come do ut des: la collettività aiuta chi ha bisogno, ma chi ha bisogno deve fare la propria parte, dando qualcosa in cambio. Dall’altro lato, vi è la giustificazione basata sull’obiettivo di aiutare i poveri a vivere il valore del lavoro, pratica centrale per la vita umana, che le condizioni di povertà potrebbero mettere a repentaglio.

Entrambe le giustificazioni, a loro volta, possono avere più di una declinazione. Nella prospettiva del do ut des, il des può essere configurato come offerta di lavoro gratuito. È il caso del cosiddetto workfare, secondo cui chi riceve un aiuto dalla collettività deve dedicare una parte del proprio tempo a progetti di utilità collettiva. La giustizia del workfare consisterebbe appunto nella condivisione dell’onere del lavoro in cambio di una parte del prodotto della cooperazione, cioè del reddito generato dal lavoro di tutti. Comportarsi diversamente condurrebbe a un parassitismo che mina la cooperazione sociale. Il des può, però, anche concretizzarsi nella richiesta, a sua volta, più o meno stringente, di disponibilità a formarsi o accettare un lavoro. Similmente, aiutare i poveri a vivere il valor del lavoro potrebbe avere la faccia più arcigna dei cosiddetti nuovi paternalisti (vedi L. Meade, The new paternalism, Brookings Press, 1997), che fa leva sulla presenza di una cultura della dipendenza che svilirebbe gli individui oppure la faccia più gentile che sottolinea il valore esistenziale della relazione che si genera nel lavoro, meccanismo insostituibile di inclusione sociale (L. Corazza, “Io, Daniel Blake: il reddito di cittadinanza tra lavoro e povertà” Critica del diritto, 1, 2022).

Entrambe le giustificazioni ci paiono presentare diverse criticità. Incominciando dalla prospettiva del do ut des, quali obblighi esattamente imporre? Nel workfare, ad esempio, dovremmo chiedere di andare a raccogliere i pomodori, come qualcuno ha alcuni mesi fa auspicato? Oppure, quali obblighi formativi e quali altri test di verifica della ricerca del lavoro dovremmo imporre? Ancora, come esattamente individuare chi è abile al lavoro? Nel nostro paese, oggi, l’abilità al lavoro è definita in termini chiaramente inaccettabili, sulla base unicamente dei dati anagrafici e della presenza o meno di carichi familiari, a prescindere dal grado di lontananza dal mercato del lavoro e dalle competenze. Anche risolvendo tali limiti, resta, però, aperto il problema di fondo circa come conciliare il lavoro con il riconoscimento della cura, valore in sé e condizione per il lavoro.

Inoltre, la giustificazione è del tutto cieca al peso dello status quo. Il do e il des sono definiti a partire dalla distribuzione corrente delle risorse. Una distribuzione iniqua, tuttavia, rischia di condurre a una ripartizione anch’essa iniqua dei doveri di cooperazione. Il punto è ben presente nel pensiero contrattualistico che sui valori della cooperazione e della reciprocità è fondato. Solo se le condizioni sono eque, allora, per il contrattualismo possiamo chiedere a tutti di fare la propria parte. Rawls, ad esempio, ci richiama al concetto di fair play (J. Rawls “Legal Obligation and the Duty of Fair Play”, in Sidney Hook (ed.), Law and Philosophy. New York University Press, 1964), secondo cui la ripartizione dei benefici e dei costi della cooperazione sociale deve essere definita a partire da condizioni equitative. O, ancora prima di lui, l’espediente lockeano dello stato di natura trova giustificazione esattamente nell’obiettivo di stabilire una situazione iniziale di sostanziale uguaglianza.

Sull’iniquità dello status quo attuale appare difficile dissentire. Basti ricordare le caratteristiche prevalenti dei soggetti poveri: persone che provengono da famiglie povere; persone poco istruite; persone che abitano in territori svantaggiati dove la domanda di lavoro è molto scarsa; persone da tempo lontane dal mercato del lavoro e donne oberate dalle responsabilità di cura. Queste situazioni derivano in larga misura dall’(ir)responsabilità collettiva di non avere garantito uguaglianza di opportunità e un’equa regolazione dell’economia. Dopo avere reso povere persone che non sarebbero state tali in presenza di una più equa distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale dobbiamo anche aggiungere a loro carico un obbligo al lavoro come condizione per vivere?

Inoltre, come sottolineano i difensori del reddito di base, non esistono forse risorse comuni, cui dovremmo avere tutti accesso in modo incondizionato, indipendentemente da quanto diamo in cambio, come avviene quando riceviamo una donazione/un’eredità? Risorse comuni sono le risorse esterne, che prescindono dallo sforzo individuale, in primis, le risorse naturali, ma anche i frutti della cooperazione sociale che si generano indipendentemente dal contributo individuale. Oggi poi l’uso dei dati personali rende produttori di valore tutti coloro che usano la rete. Un reddito incondizionato potrebbe pertanto rappresentare anche la contropartita del contributo offerto.

Passando alla prospettiva di aiutare i poveri a vivere il valore del lavoro, una criticità concerne, innanzitutto, la natura di gran parte dei lavori oggi disponibili, ben più vicini a relazioni di sfruttamento piuttosto che di emancipazione. Vi è poi il tratto paternalistico: alcuni saprebbero meglio di altri cosa sia la buona vita. Un conto, infatti, è difendere il lavoro come opportunità importante, riconoscendo però che alcuni potrebbero preferire uno stile di vita senza lavoro. Infine, come scrive Wolff, anche qualora ci fossero buone ragioni a favore di una determinata azione, come quella di lavorare, ci potrebbero essere ragioni per non imporla. Fra di esse, spicca il fatto che l’imposizione a carico di alcuni rischia di dividere la collettività fra cittadini di serie A e cittadini di serie B, a detrimento della pari dignità sociale e del senso di appartenenza a una comunità di uguali. Il processo stesso di selezione di coloro cui imporre i comportamenti desiderati rischia poi di aggiungere interferenze indesiderabili nelle vite individuali.

La conclusione è, allora, niente condizionalità al lavoro? Non pensiamo sia così. La giustificazione basata sulle risorse comuni porta sì l’attenzione su un punto condivisibile, ossia, che alcune risorse sono oggi privatamente appropriate da alcuni e non dovrebbero esserlo, in quanto prescindono dallo sforzo individuale. Hanno la natura di regali, come tali, da ripartire fra tutti. Il rischio, tuttavia, è che il valore di tali risorse sia molto limitato, inferiore a quanto necessario alla protezione dalla povertà. Il dividendo sociale erogato in Alaska, proveniente dallo sfruttamento del petrolio, (unica esperienza di reddito incondizionato) ammontava nel 2023 a poco più di 3280 dollari). Inoltre, l’argomentazione relativa all’uso dei dati perderebbe vigore qualora si si riuscisse a realizzare un mercato in cui i dati sono a pagamento.

A noi sembra più convincente una giustificazione trascurata nella riflessione pubblica, la quale porta l’attenzione sulla natura assicurativa del contrasto della povertà (sul tema, cfr., ad esempio, R. Dworkin “What is equality? Part II: Equality of Resources, Philosophy and Public Affairs, 10,4, 1981) L’idea di fondo è che la povertà sia un rischio sociale – il che è evidente oggi, alla luce delle molteplicità di cause sociali sopra rilevate, ma si proporrebbe anche in un’economia ben regolata, seppure in tal caso, il rischio di povertà sarebbe certamente minore. L’antidoto tipico, di fronte ai rischi, è costituito dall’assicurazione: grazie all’assicurazione, si paga in anticipo, prima che l’evento abbia luogo, in modo da avere la garanzia di compensazione qualora l’evento negativo si verifichi.

A meno di interventi appositi, l’assicurazione ha, tuttavia, due limiti. Da un lato, intervenendo ex post, trascura la componente di rischio che potrebbe essere prevenibile dai singoli. Dall’altro, genera rischi di azzardo morale, cioè di azioni opportunistiche dirette a godere i benefici della compensazione scaricando costi non previsti sull’assicurazione. A margine, rileviamo come, diversamente da una retorica diffusa, i rischi di azzardo morale non riguardano solo i poveri. Sono intrinseci al meccanismo assicurativo.

La condizionalità al lavoro interviene esattamente su questi due fronti. Grazie all’obbligo di partecipazione alle politiche attive del lavoro, favorisce la prevenzione e grazie a questo e all’obbligo di lavorare per chi è da subito in grado di lavorare favorisce anche il contrasto del rischio morale.

Certamente, il contributo della condizionalità non va sopravalutato. L’azzardo morale da parte dei poveri che ricevono il sussidio potrebbe essere limitato. Se il lavoro è un’opportunità apprezzata, gli individui preferiranno lavorare anziché dipendere dal sussidio. Non a caso, l’esperienza del Reddito di cittadinanza ci consegna più poveri che trovano lavoro da sé anziché attraverso ai servizi per l’impiego. Le politiche attive, dal canto loro, arrivano tardi, quando le carenze nell’uguaglianza di opportunità possono già avere segnato i singoli e prescindono dalla domanda di lavoro. Ciò nondimeno, un contributo esiste e, per noi, va apprezzato.

La giustificazione della condizionalità basata sulla natura assicurativa del contrasto alla povertà fa anch’essa leva sulla reciprocità. Da una posizione equitativa, in cui ignoriamo la reale condizione che occuperemo in società, ci assicuriamo una rete di protezione se ci va male, acconsentendo a finanziare tale rete, attraverso il pagamento delle imposte, se ci andrà bene. Detto in altri termini, accettiamo, qualora ci ritrovassimo ricchi, di pagare in moneta l’eventuale indennizzo a coloro che saranno poveri. E questo evita di dover pagare con il lavoro se si è poveri. È, dunque, ben diverso dal chiedere ai poveri di pagare pegno se sono poveri, come capiterebbe nella prospettiva del do ut des. Una richiesta siffatta comprometterebbe il significato stesso dell’assicurazione.

L’insieme delle considerazioni svolte permette anche di individuare alcuni tratti più specifici della condizionalità da ricercare. Le esigenze di prevenzione, insieme al riconoscimento del peso delle condizioni iniziali e del dovere di trattare gli altri come uguali, limitano l’obbligo di lavorare (e di attivarsi per lavorare) a chi si trovi in condizioni ragionevolmente favorevoli per soddisfarlo. Inoltre, diversamente da quanto è recentemente avvenuto nel nostro paese, l’offerta di lavoro dovrebbe essere congrua anche in termini di distanza dal luogo di residenza, dovrebbe tenere conto delle responsabilità di cura e dovrebbe basarsi sul coinvolgimento diretto dei beneficiari, nel riconoscimento di ciò che ha valore per i singoli. Proprio per rafforzare la posizione dei poveri, il coinvolgimento dovrebbe, a sua volta, privilegiare la creazione di legami orizzontali fra i beneficiari stessi (H. Cottam, Radical Help Virago, 2018).

Questa posizione, ci sembra, perfettamente coerente con il dettame costituzionale, con la difesa della dignità sociale del lavoro e dei lavoratori e, più specificamente, con le considerazioni di Pesenti riprese nell’articolo su Costituzione e lavoro, in questo numero del Menabò, in merito alla relazione fra lavoro e sicurezza sociale.

Molto, certamente, resta da definire e precisare. Alcune linee di marcia dovrebbero, tuttavia, essere chiare. Il workfare e declinazioni comunque stringenti della condizionalità al lavoro quale vincolo per accedere ad un reddito minimo appaiono del tutto inaccettabili. La via, al contrario, dovrebbe essere quella di una condizionalità debole che non metta in discussione nè il ruolo del reddito minimo di protezione dai rischi di povertà né la comune uguaglianza morale di considerazione e rispetto. Siamo molto lontani, potremmo dire all’opposto di quanto contemplato dalle nuove misure introdotte dal governo Meloni in sostituzione del reddito di cittadinanza.

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