ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e… tecnologia

La tecnologia esercita una fortissima influenza sul lavoro, sulla sua ‘quantità’ e ‘qualità’. Questo articolo dopo aver ricordato le principali posizioni degli economisti in particolare sul tema della disoccupazione tecnologica, si sofferma sulle sfide che il capitalismo delle piattaforme e l’Intelligenza Artificiale pongono al lavoro presente e futuro, identificando questioni che suscitano preoccupazioni e possono rendere sempre più difficile che ìl lavoro si conformi a quanto indicato dalla Costituzione. Per affrontarle sono necessarie nuove politiche e nuovi sistemi di governance delle imprese

La Costituzione sancisce tra i suoi principi la tutela del lavoro, intesa come la necessità di predisporre le condizioni e gli strumenti affinché i cittadini possano soddisfare appieno i loro bisogni e trovare adeguata realizzazione, individuale, sociale e politica. In questo senso, il contrasto della disoccupazione e la promozione della qualità del lavoro costituiscono una reificazione di tali principi. Tra i fattori che possono incidere sulla quantità e la qualità dell’occupazione mettendo in alcuni casi in crisi i principi costituzionali appena menzionati e la capacità della politica economica di farvi fronte vi è senz’altro la tecnologia. 

La riflessione sulla relazione tra lavoro e tecnologia occupa una posizione centrale nella storia del pensiero economico moderno, fin dalle sue origini. Molti ricorderanno, a questo proposito, la fabbrica degli spilli descritta da Adam Smith (1723-1790) nella Ricchezza delle Nazioni. Traendo ispirazione dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert, Smith descrive la fabbrica come una nuova organizzazione, capace di moltiplicare produzione e profitti attraverso la divisione del lavoro e una parziale meccanizzazione dei processi produttivi. L’introduzione delle macchine e la possibilità che da semplice strumento esse possano sostituire i lavoratori emerge presto come problema cruciale insieme al rischio, rilevato da Smith, che la divisione del lavoro (con i suoi ritmi ripetitivi) porti al peggioramento della qualità della vita degli individui.

Del primo problema è consapevole David Ricardo (1772-1823), esponente di punta del pensiero economico classico inglese, che al tema della sostituzione del lavoro con le macchine ha dedicato pagine importanti. Inizialmente fiducioso, come Smith e altri, sulla possibilità che la diminuzione dell’occupazione nei settori in cui il progresso tecnologico porta le macchine a sostituire i lavoratori, sia ‘compensata’ da un aumento dell’occupazione negli altri settori produttivi, Ricardo cambia idea. Nella terza edizione dei Principi di Economia Politica (1821), in un capitolo intitolato “Sulle macchine”, Ricardo annuncia di essersi preoccupato della possibilità, o addirittura della probabilità, di cambiamenti tecnici dannosi per gli interessi del lavoro. In Marx, le macchine, pur incapaci di produrre da sole quel plus-valore che solo il lavoro dell’uomo è in grado di generare, sono elemento cruciale nella nuova organizzazione della produzione, oramai compiutamente industriale. Cruciale come strumento per realizzare quello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che connota il capitalismo ottocentesco, fonte di alienazione nonché prezzo da pagare per realizzare l’enorme aumento della produzione e dei redditi che il capitalismo concede ai più fortunati. Cruciale come arma competitiva nelle mani dei capitani d’industria che la utilizzano nella guerra, fatta di innovazione, razionalizzazione della produzione e conquista di nuovi mercati, che si combatte incessantemente per conquistare i profitti.

Nato nel 1883, l’anno della morte di Marx, Keynes sembra riprendere le fila dell’ottimismo pragmatico di Smith e del primo Ricardo in uno dei suoi scritti minori, ma non per questo meno interessanti, Le prospettive economiche per i nostri nipoti (1930). Il saggio, una riflessione sul futuro del capitalismo industriale nel momento in cui il mondo si sta avvitando nella Grande Depressione, si apre con alcune parole di taglio decisamente ottimistico. Scrive Keynes, “In questo momento stiamo soffrendo di un brutto attacco di pessimismo economico. È comune sentire dire che l’epoca di enorme progresso economico che ha caratterizzato il diciannovesimo secolo è finita; che il rapido miglioramento del tenore di vita sta ora per rallentare […] Ritengo che questa sia un’interpretazione estremamente errata […] Siamo afflitti da una nuova malattia di cui forse alcuni lettori non hanno ancora sentito il nome, ma di cui sentiranno parlare molto negli anni a venire: la disoccupazione tecnologica [corsivo aggiunto]. Ma questa è solo una fase temporanea di disadattamento. Tutto ciò significa che, a lungo termine, l’umanità sta risolvendo il suo problema economico. Prevedo che tra cento anni il tenore di vita nei Paesi progressisti sarà da quattro a otto volte superiore a quello attuale…”.

Lo stesso ottimismo non sembra contraddistinguere Schumpeter e la scuola evolutiva che si sviluppa a partire dalle sue intuizioni. L’innovazione tecnologica è descritta come un fenomeno destinato a produrre situazioni di persistente dis-equilibrio, contraddistinte dalla presenza di ‘vincitori’ (nuove imprese e nuove industrie che per prime si appropriano delle rendite dell’innovazione) e ‘vinti’ (imprese e industrie che tardano ad adattarsi e vengono spazzate via insieme alle tecnologie, destinate all’obsolescenza, di cui sono dotate). Tra i vinti, vi sono i lavoratori che non riescono a trarre vantaggio dalla trasformazione, perché impiegati nelle imprese ‘perdenti’, dotati di competenze incompatibili con le nuove tecnologie o situati in luoghi marginalizzati dall’avvento del nuovo paradigma tecnologico. Quanto più il mutamento è radicale e dà luogo a forme di concentrazione del potere economico e tecnologico, tanto maggiore potrà essere l’effetto in termini di disoccupazione tecnologica.

A ridimensionare le preoccupazioni circa i rischi di disoccupazione tecnologica contribuisce l’economia neoclassica, destinata a divenire egemone a livello accademico nella seconda metà del ‘900. E’ ammessa la possibilità che l’introduzione di nuove tecnologie generi nel breve periodo disoccupazione ma si tratterebbe di un fenomeno transitorio, sistematicamente riassorbito dai ‘meccanismi compensativi’, già anticipati dai classici, che il mercato metterebbe automaticamente in atto. In cosa consisterebbero tali meccanismi? La maggiore efficienza ottenuta grazie all’innovazione si tradurrebbe, secondo l’impostazione neoclassica, in una riduzione dei prezzi capace di stimolare la domanda, la produzione e, dunque, di riassorbire l’iniziale disoccupazione. D’altra parte, se la medesima innovazione si traducesse in una riduzione del costo del lavoro, ciò indurrebbe imprese razionali a scegliere tecniche a maggiore intensità di lavoro contribuendo, di nuovo, al riassorbimento del lavoro inizialmente espulso. La teoria dei meccanismi compensativi che, se ritenuta valida, porterebbe ad incoraggiare l’innovazione derubricando come infondate le preoccupazioni relative ai rischi di disoccupazione tecnologica non è priva di falle, tuttavia. In primo luogo, affinché la maggiore efficienza indotta dall’innovazione si traduca istantaneamente in prezzi più bassi stimolando la domanda, i mercati dovrebbero operare in regime di concorrenza perfetta e, in ogni caso, essere privi di rigidità. Uno scenario ben lontano dalla realtà concreta di qualsivoglia mercato. In secondo luogo, la possibilità che la compensazione avvenga attraverso una generalizzata scelta di tecniche a maggiore intensità di lavoro si scontra con i molteplici vincoli organizzativi e tecnologici che condizionano l’attività d’impresa e che, nel concreto, riducono lo spazio delle scelte per ciò che concerne la combinazione degli input produttivi da impiegare.

Al netto dell’egemonia neoclassica, la diatriba tra scuole di pensiero (neoclassica, evolutiva, post-Keynesiana) non ha trovato una soluzione e gli economisti rimangono divisi sull’importanza da attribuire ai rischi di disoccupazione tecnologica e, in relazione a questa, sul ruolo che la politica economica dovrebbe giocare in presenza di innovazioni capaci di modificare gli equilibri di mercato. Durante la Golden Age, il dibattito è sopito dalla forte crescita che caratterizza le economie industrializzate dove si osservano, parallelamente, un’intensa dinamica innovativa e tassi di disoccupazione contenuti. Negli anni ’80, tuttavia, quando gli economisti hanno cominciato a cercare una spiegazione alle crescenti disuguaglianze nella distribuzione del reddito, il nesso tra tecnologia e lavoro torna ad essere centrale.

In prima istanza, l’enfasi viene posta sulla ‘complementarità’ tra tecnologia e competenze. L’ipotesi è quella di un effetto asimmetrico del cambiamento tecnologico, in particolare quello legato alle tecnologie ICT la cui diffusione accompagna il processo di ‘terziarizzazione’ delle economie avanzate. L’innovazione tenderebbe ad accrescere la produttività e, a parità di altre condizioni, il salario dei lavoratori dotati di competenze elevate. Allo stesso tempo, l’ipotesi è quella di una contrazione della domanda di lavoro a basse competenze, con effetti negativi sui salari di questa categoria di lavoratori. Secondo gli studi che dominano la letteratura economica fino alla fine degli anni ’90, sarebbe dunque questa relazione asimmetrica tra tecnologia, competenze e domanda di lavoro a spiegare l’incremento generalizzato delle disuguaglianze osservabile, sebbene con intensità e ritmi eterogenei, nella gran parte delle economie avanzate.

C’è un problema, però: i dati non sempre vanno d’accordo con la teoria. Le verifiche effettuate utilizzando banche dati riferite a paesi e periodi temporali tra loro differenti mettono in discussione l’ipotesi di un ‘premio salariale’ a beneficio dei lavoratori ad alte competenze. Al contrario, ciò che sembra emergere in modo più netto è un processo di ‘polarizzazione’, dove ad essere penalizzati sono i lavoratori che si collocano al centro della distribuzione delle competenze, ad esempio, i lavori di tipo impiegatizio caratterizzati da mansioni di natura cognitiva ma altamente ripetitive, mentre la domanda (e il salario) tenderebbe a crescere per chi si trova nella parte bassa (lavoratori con basse competenze) e alta della distribuzione (lavoratori con elevate competenze).

La tecnologia torna dunque sul banco degli imputati. Più che determinare una generalizzata contrazione dell’occupazione come paventato da Ricardo e Marx o temuto dagli economisti evolutivi in presenza di innovazioni radicali, le innovazioni sembrano favorire uno sviluppo polarizzato della struttura occupazionale dove il prezzo più alto, in termini di minore occupazione e riduzione relativa del saggio di salario, sarebbe pagato dalle occupazioni ‘routinarie’ (caratterizzate da mansioni ripetitive e codificabili dunque suscettibili di sostituzione da parte di macchine e dispositivi ICT).

Anche questa teoria, a dispetto della popolarità che acquisisce nel mondo accademico a partire dai primi anni 2000, confligge con l’evidenza empirica che, da un lato, non conferma l’ipotesi della polarizzazione nella gran parte delle economie dove la stessa ipotesi viene testata e, dall’altro, mostra come la disoccupazione sia principalmente spiegata da fattori che vanno al di là della ‘routinarietà’ delle mansioni: posizionamento gerarchico delle economie all’interno delle catene globali del valore, crescente potere di mercato delle imprese a fronte di un generalizzato indebolimento dei sindacati, flessibilizzazione dei mercati del lavoro e riduzione delle tutele nei confronti del licenziamento. La tecnologia può dunque essere uno dei fattori capaci di generare disoccupazione. Per comprendere appieno il suo ruolo nel contesto economico corrente, tuttavia, è necessario uscire da rappresentazioni teoriche stilizzate, quali quelle che enfatizzano in modo decontestualizzato il rapporto tra tecnologia, mansioni e competenze, inserendo la stessa tecnologia all’interno del complesso insieme di fattori macroeconomici, istituzionali, geopolitici e organizzativi capaci di influenzare la dinamica occupazionale e la distribuzione del reddito.

I recenti sviluppi del paradigma digitale – le cui manifestazioni più rilevanti, per quanto riguarda il rapporto tra tecnologia e lavoro, riguardano l’avvento delle piattaforme, la diffusione di pratiche organizzative come il telelavoro e il management algoritmico o l’introduzione delle più recenti applicazioni di Intelligenza Artificiale (IA) – aprono la strada a nuovi interrogativi che vanno al di là dell’impatto dell’innovazione su disoccupazione e disuguaglianze. Vengono posti al centro del dibattito temi quali l’organizzazione, la qualità e le condizioni di lavoro. Con le piattaforme digitali sono nate nuove tipologie occupazionali – esempi emblematici sono i rider o i ‘crowdworkers’ che espletano micro-mansioni online come nel caso degli operatori di ‘Amazon Mechanical Turk’ – che hanno tre caratteristiche fondamentali: i) significativa frammentazione organizzativa che può arrivare, come nel caso dei crowdworkers, al totale isolamento e, dunque, a una forte alienazione ii) vulnerabilità sociale ed economica, determinata dalle scarse tutele e dalla frequente assenza di rappresentanza sindacale iii) interazione con una controparte datoriale che ha sembianze algoritmiche più che umane o aziendali. In altri casi, la ‘piattaformizzazione’ di tipologie occupazionali già esistenti – quali, ad esempio, i tassisti tradizionali che diventano ‘partner’ della piattaforma Uber o i liberi professionisti che svolgono consulenze ‘a gettone’ su piattaforme come Upwork – può contribuire al peggioramento delle condizioni occupazionali generando inedite forme di ‘precariato digitale’.

La diffusione del telelavoro ha approfondito processi, già in atto, di frammentazione spazio-temporale delle relazioni lavorative. Gli effetti sono molteplici e vanno dalla capacità di garantire continuità operativa alla produzione in presenza di shock sistemici come è avvenuto durante la pandemia, alla migliore conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro fino all’isolamento dei lavoratori con il rischio, anche in questo caso, di un incremento dei fenomeni di alienazione. Un aspetto non meno rilevante riguarda la relazione tra diffusione del telelavoro e divari di genere. Diversi studi hanno messo in luce come la componente femminile tenda a prevalere in occupazioni dove l’accesso al telelavoro è meno frequente (un esempio tipico sono le professioni di cura) e, allo stesso tempo, le condizioni contrattuali e il salario sono inferiori rispetto al resto dell’economia.

D’altra parte, la sempre maggiore pervasività delle tecnologie digitali può aumentare l’efficacia delle pratiche manageriali tese alla sorveglianza dei dipendenti, con implicazioni potenzialmente negative per quanto riguarda le condizioni di lavoro e il potere contrattuale dei lavoratori. Da questo punto di vista, la diffusione dell’Intelligenza Artificiale (IA) pone sfide che chiamano nuovamente in causa il rischio di disoccupazione tecnologica, minacciando, per la prima volta, occupazioni considerate sin qui immuni da tali rischi poiché basate su attività di tipo creativo e/o dalla necessità di esprimere giudizi in contesti complessi e mutevoli. Gli esempi delle attività che la più popolare IA ‘generativa’, Chat GPT, sembra essere in grado di svolgere come e meglio degli umani si moltiplicano ogni giorno: pareri legali, articoli giornalistici, scrittura di articoli scientifici, etc.

Ma l’IA potrebbe avere effetti ancor più dirompenti sull’organizzazione del lavoro, accrescendo ulteriormente il potere del management e, più in generale, di chi controlla questa tecnologia nonché sulla gestione di domini critici quali la salute, l’istruzione e la difesa. In questo quadro, qualora non venisse messa radicalmente in discussione la possibilità che decisioni rilevanti, per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, l’impiego e la distribuzione delle risorse, vengano prese da algoritmi ‘intelligenti’ in grado di accedere a tutte le informazioni ma incapaci di fornire dettagli sul processo decisionale su cui si basano, ci potremmo trovare in una nuova fase del conflitto tra uomo e macchina. 

Una fase che rischia di rendere nuovamente attuali le preoccupazioni dei classici portandole verso un orizzonte distopico che potrebbe indurci a pensare: non tutto ciò che è (tecnologicamente) possibile fare è (socialmente) auspicabile venga fatto. Le posizioni allarmistiche prese da un significativo numero di esperti di IA sembrano andare proprio in questa direzione. È importante allo stesso tempo sottolineare come l’impiego delle innovazioni, e l’IA non fa eccezione da questo punto di vista, riflette il tipo di strategia competitiva adottata dall’impresa e ciò è estremamente rilevante per quanto riguarda le implicazioni ultime per il lavoro.

Se la strategia d’impresa è orientata alla valorizzazione delle competenze accumulate e al coinvolgimento dei lavoratori per migliorare la complessiva qualità dell’organizzazione, accrescendo in questo modo la resilienza e la capacità di acquisire nuove competenze della stessa impresa, ciò coinciderà più facilmente con un uso delle nuove tecnologie compatibile con la promozione di quantità e qualità del lavoro. 

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