ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e… rappresentanza

Questo articolo si occupa di uno dei grandi temi che hanno caratterizzato il ‘900 e i primi decenni di questo secolo e da cui largamente dipendono quantità e qualità del lavoro: la rappresentanza dei lavoratori e dei loro diritti. Il sindacato, che ha tradizionalmente svolto questo ruolo, si trova ad operare oggi in un contesto molto più complesso ed articolato che in passato nel quale rimane aperto il problema cruciale del bilanciamento fra la rappresentanza degli iscritti (ormai pochi), di tutti i lavoratori o dell’intera cittadinanza.

In tema di lavoro una delle questioni cruciali in tutte le economie avanzate è quella della natura e delle caratteristiche della sua rappresentanza e quanto questa rappresentanza riesca o meno ad assicurare a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici condizioni di lavoro almeno dignitose.

Da questo punto di vista, nei decenni del secondo dopoguerra il sindacato, in Italia come in molti altri paesi occidentali, ha giocato un ruolo di primo piano come promotore dei diritti sociali dei lavoratori e delle loro famiglie. Nei cosiddetti “decenni d’oro” del periodo fordista, infatti, esso è stato uno degli attori centrali nell’espansione delle tutele sia sul posto di lavoro che nell’ambito del welfare state. In quei decenni, molti studiosi, ricorsero a una forte metafora e parlarono del sindacato come di una ‘spada di giustizia sociale’.

A partire, però, dagli anni ’80-’90 con il progressivo passaggio ad un modello di sviluppo post-industriale, una mole crescente di studi ha iniziato a domandarsi se il sindacato intendesse o fosse ancora in grado di svolgere un ruolo di protezione universalistica dei lavoratori e, più in generale, dei cittadini, o se, invece, non si sarebbe limitato a tutelare le categorie sociali da cui provengono gran parte dei propri iscritti (cioè i lavoratori del settore pubblico e dei settori forti del settore privato – medie-grandi imprese dell’industria e del terziario avanzato – nonché i pensionati che furono lavoratori nei “decenni d’oro”).

Alcuni tratti di tale modello di sviluppo post-industriale rendono, infatti, più complessa la rappresentanza in senso universalistico dei diritti di lavoratori e cittadini: dalla crescente diversificazione dei principali settori economici (a seguito anche dei processi di terziarizzazione) e dalla conseguente pluralizzazione delle forme di produzione (rispetto alla fabbrica), ai fenomeni di internazionalizzazione della produzione e della competizione, a tassi di crescita dell’economia molto più contenuti.

Vari studi hanno iniziato a definire il sindacato in epoca post-industriale non tanto come ‘spada di giustizia’, bensì come un attore che non ha impedito la ‘dualizzazione’ di diritti sociali e del lavoro. Con il termine ‘dualizzazione’ si fa riferimento a quel fenomeno per cui, a seconda della loro partecipazione e collocazione sul mercato del lavoro (in quale settore, con quale contratto), le persone ricevono una copertura dal sistema di protezione sociale molto differenziata: mentre gli ‘insiders’ continuano a godere di tutta una serie di tutele generose, i tagli al sistema di protezione sociale e alle tutele lavorative vengono scaricati sugli ‘outsider’ (in genere intesi come coloro che hanno una collocazione instabile nel mercato del lavoro oppure che operano in settori e imprese a minore produttività – dal turismo al commercio alle piccole imprese, ad esempio – oppure ancora che hanno specifiche caratteristiche socio-demografiche: i giovani, le donne e gli stranieri).

La letteratura sulla ‘dualizzazione’ offre, quindi, una lettura più articolata di quello che è successo negli ultimi decenni in Europa in maniera più articolata rispetto alla tradizionale contrapposizione fra espansione dei diritti sociali e del lavoro o loro ‘taglio’ (a seguito di ipotizzate politiche puramente ‘neoliberiste’). In particolare, sostiene che possono aversi, contemporaneamente, sia una espansione (o una tenuta delle generosità) dei diritti, per alcuni gruppi sociali e lavoratori, sia una loro contrazione, per altri gruppi sociali e lavoratori. All’interno di questo quadro il sindacato viene rappresentato come un attore che esplicitamente e coscientemente si fa portatore della dualizzazione: non essendo più in grado di rappresentare e proteggere tutti, si concentra sulla propria membership, contribuendo nei fatti all’affermazione di diritti differenti fra ‘insider’ (spesso iscritti al sindacato) e ‘outsider’ (spesso più lascamente legati allo stesso).

Il dibattito sul tema è largamente aperto e nel corso degli anni si sono accumulati studi che sostengono entrambe le interpretazioni (sindacato ancora oggi come ‘spada di giustizia sociale’ o come ‘agente di dualizzazione’).

All’interno di tale dibattito il caso italiano è particolarmente interessante per una serie di motivi. Primo, il sindacato oggi nel nostro paese ha una forza (in termini di tassi di membership) inferiore a quella che possiede nei paesi scandinavi ma è riuscito a contenere il declino che ha caratterizzato altri paesi. Negli ultimi decenni il tasso di sindacalizzazione si è attestato e mantenuto in Italia attorno al 35% (dopo aver raggiunto quasi il 50% negli anni ’70-’80): percentuale superiore a quella registrata in gran parte degli altri paesi dell’Europa continentale, orientale e del Sud (inclusa la Germania).

Secondo, una riflessione che spesso non si trova in questo filone di studi su diritti sociali, del lavoro e sindacato riguarda il rapporto fra quest’ultimo e le forme di esercizio della democrazia. Nel corso dei ‘decenni d’oro’ del dopoguerra, i partiti politici (di massa) e le cosiddette ‘parti sociali’ (rappresentanti delle imprese e sindacati) sono stati in Italia i grandi agenti che hanno promosso l’esercizio concreto della democrazia, coniugandola con lo sviluppo economico e l’allargamento dei diritti sociali e del lavoro.

Ciò è avvenuto con il coinvolgimento diretto nei territori di milioni di persone tramite il funzionamento delle ‘sezioni’ dei partiti e delle sedi di rappresentanza locale del sindacato (si pensi, ad esempio, alle ‘Camere del lavoro’ della CGIL). Quello che è, però, progressivamente avvenuto negli ultimi decenni nel campo dell’organizzazione dei partiti politici è stata la ‘ritirata’ dai territori tramite un doppio processo di chiusura di molte ‘sezioni’ e di verticalizzazione e personalizzazione del processo decisionale (caratterizzato sempre più dalla ricerca di ‘leader’ di partito carismatici, facilmente riconoscibili e apparentemente in diretto contatto con i cittadini / elettori).

Si legga in tal senso il libro di Carlo Trigilia “La sfida delle diseguaglianze”, che ricostruisce questa traiettoria per i partiti di sinistra italiani (ed europei). Rispetto ai partiti, il sindacato invece è rimasto in Italia il più grande (in termini di dimensioni) attore che cerca di raccordare la partecipazione ed il coinvolgimento dal basso con il processo decisionale dall’alto. Oggi in tutta Italia è più facile trovare sedi locali del sindacato che sezioni di partito. La stessa individuazione delle classi dirigenti sindacali avviene tramite un processo – che richiede tempi lunghi ed è pieno di rituali e simbolismi – spesso caratterizzato da centinaia, se non migliaia, di incontri e riunioni nei territori della ‘base’.

Sotto molti aspetti, il sindacato è rimasto relativamente più radicato dei partiti politici nel territorio (non solo nei luoghi di lavoro), grazie all’impegno della ricerca delle migliori forme di comunicazione e di coinvolgimento di vaste fasce della popolazione. Chiaramente ciò avviene a partire da una logica di membership (partecipano coloro che sono iscritti), ma, anche con milioni di iscritti si tiene aperto un canale di discussione, che si è andato invece impoverendo nel caso dei partiti. Il punto è molto delicato. Da un lato, la necessità e la volontà da parte dei cittadini/lavoratori di essere direttamente coinvolti è ancora molto sentita (una parte del successo del Movimento 5 Stelle, soprattutto nella sua prima fase, va attribuita proprio alla volontà di promuovere forme di ‘democrazia diretta’). Dall’altro, nel caso del sindacato, questa fase di ascolto e di discussione sui territori non può che partire da un principio di membership.

Terzo, a chi ritiene che il sindacato sia principalmente solo pro-insider va ricordato che nel panorama politico-sociale europeo da oltre un decennio è attiva una ‘offerta’ politica da parte di partiti di destra radicale che fa del welfare ‘corporativo’ ed escludente gli ‘outsider’ uno dei suoi cavalli di battaglia. Tali partiti riescono ad avere crescente successo anche grazie a piattaforme basate su quello che si chiama ‘exclusionary welfarism’ (cfr. M. Jessoula, M. Natili e E. Pavolini, “‘Exclusionary welfarism’: a new programmatic agenda for populist right-wing parties?”, in Contemporary Politis, 2022), che spesso non è che la richiesta di tornare a forme di protezione più marcate per gli ‘insider’ del mercato del lavoro rispetto agli altri. Si pensi, in questo senso, a come la Lega di Salvini in questi anni si è posta in ‘competizione’ con il sindacato (prima ancora che con i partiti di centro-sinistra) sul tema dell’accesso alle pensioni.

Dentro questo quadro, come si è comportato nel tempo il sindacato italiano rispetto ai diritti sociali e al rischio di ‘dualizzazione’? Pavolini e Pedersini offrono una risposta a partire da una ricostruzione empirica, che non può che essere articolata data la complessità del tema, a questa domanda (cfr. E. Pavolini e R. Pedersini, ‘Trade unions and social policies: The case of Italy’, in Stato e Mercato, 2022).

Innanzitutto emerge come non sia possibile nel caso italiano tracciare una linea chiara fra un’azione del sindacato in senso puramente universalista ed una orientata innanzitutto ai lavoratori (soprattutto nelle categorie di maggiore adesione in termini di membership), ma occorre introdurre specificazioni.

Già nei ‘decenni d’oro’, infatti, il sindacato non è stato semplicemente una ‘spada di giustizia’ ma ha seguito due percorsi diversi verso la rivendicazione dei diritti sociali. Nel vasto campo dei trasferimenti sociali e del sostegno al reddito (dalle pensioni alla copertura dal rischio di disoccupazione) la scelta è stata quella di privilegiare una logica ‘occupazionale’, in cui la protezione sociale era in buona parte assicurata in misura proporzionale alla collocazione centrale o periferica del lavoratore nel mercato del lavoro, rifiutando quello che invece si andava costruendo in Gran Bretagna e in Nord Europa e cioè un sistema di sicurezza sociale in campo pensionistico con una base relativamente generosa per tutti (e finanziata fiscalmente). Nel campo del welfare dei servizi e dell’istruzione (a partire dalla sanità in cui il sindacato fu protagonista nel sostenere l’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale – SSN), invece, la scelta è stata quella dell’universalismo puro in cui l’essere cittadini, e non lavoratori, era il criterio per l’accesso ai diritti sociali.

Nei decenni successivi a quelli ‘d’oro’ e fino a oggi questo doppio binario è rimasto in buona parte attivo, anche se alcuni cambiamenti significativi sono avvenuti nel decennio scorso. Fra quelli che hanno spinto verso l’universalismo vi è stata la scelta di sostenere forme di assistenza sociale più avanzate ed inclusive di quelle tradizionalmente presenti in Italia, come il REI prima e il reddito di cittadinanza poi, fino alla attuale battaglia per contrastare forme fiscali palesemente corporative e promuovere una normativa che definisca il salario minimo. Allo stesso tempo, in campo sanitario invece si sono addensate nuvole rispetto alla posizione universalistica tradizionale. Se è vero che, soprattutto dopo l’arrivo della pandemia, il sindacato ha fatto proprio in maniera esplicita il tema del sostegno e del rilancio ai SSN, il contemporaneo diffondersi di una molteplicità di fondi sanitari aziendali e categoriali, in genere a seguito di contratti collettivi, rischia di riaprire la strada, in un SSN sotto-finanziato, a pazienti di serie A (quelli iscritti a fondi sanitari grazie a contratti collettivi) e di serie B (tutti gli altri). Il diffondersi del ‘Welfare aziendale e occupazionale’ testimonia da un lato l’egemonia del pensiero liberista e dall’altro la differenziazione all’interno delle principali sigle sindacali: alcune favorevoli, altre (la CGIL) inizialmente ostili e successivamente favorevoli, un contrasto espressione dell’assenza di una visione lungimirante del welfare.

Ad oggi, quindi, il sindacato cerca un punto di equilibrio e di bilanciamento fra l’esigenza di rappresentare i lavoratori, in base ad una logica di membership, e la spinta verso una copertura universalistica, nella consapevolezza che gli spazi di manovra si sono ridotti per via delle trasformazioni strutturali dell’economia, ma anche per i cambiamenti intervenuti nel campo della politica. Da questo punto di vista, sono da tenere presenti quegli sforzi fatti dentro il sindacato per arrivare ad una carta dei diritti universali del lavoro, così come il tentativo di allargare le maglie della contrattazione sociale territoriale, che sta diventando un altro potenzialmente importante pilastro tramite cui ricostruire una rappresentanza del lavoro e sociale più in generale.

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