ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e… immigrazione

Questo articolo riflette sulla possibilità di favorire l’immigrazione temporanea condizionata ad un contratto di lavoro come soluzione al problema della gestione dei flussi. Dopo aver ricordato le ragioni che determinano la scelta di migrare, l’articolo mette in evidenza l’inadeguatezza dei programmi attuali, i quali, non garantendo la dignità e la libertà dei lavoratori e delle loro famiglie, comportano conseguenze negative, di natura simile a quelle derivanti dalla mancanza di una concezione del lavoro come diritto.

Esistono delle difficoltà evidenti nella gestione dell’immigrazione che, a ben vedere, si connettono con il tema della carenza di lavori dignitosi e delle sue conseguenze; come quelli di cui si parla nell’articolo di questo Menabò sul lavoro nella Costituzione. Tali connessioni, e le loro conseguenze negative, possono rafforzarsi se si procede, come sta succedendo, nella direzione di puntare verso l’immigrazione temporanea condizionata al lavoro. In questo articolo cercheremo di spiegarne la ragione.

Perché si sceglie di migrare, ossia di trasferire la propria residenza dal paese in cui si è nati ad un paese straniero? Sociologi ed economisti sono soliti concentrarsi su motivi diversi e, perciò, fornire spiegazioni altrettanto varie. I primi, sebbene riconoscano l’importanza delle ragioni economiche, ed in particolare della diversa remunerazione del lavoro, attribuiscono a queste un ruolo secondario.

Ad ogni modo, anche adottando un approccio puramente utilitaristico, non è semplice individuare quali variabili rientrano nella funzione obiettivo di un individuo. Infatti, la scelta di migrare si basa solamente sulle disparità territoriali nella remunerazione del lavoro, oppure la decisione può essere compiuta anche per accompagnare o seguire chi è già emigrato, oppure ancora si cerca di perseguire una maggiore libertà politica o salvaguardare un patrimonio immobiliare?

Non è affatto scontato che il motivo principale delle migrazioni sia relativo all’offerta di lavoro. La migrazione può essere legata alla domanda di consumi, come nel caso in cui si migra seguendo un clima confortevole o una maggiore disponibilità di beni pubblici. Inoltre, la migrazione può essere una decisione volta a ricollocare un’intera produzione domestica, ossia le attività di tutti i membri di una famiglia, anche di chi non è attivo sul mercato del lavoro.

Infine, anche limitando l’analisi ad un modello di mercato del lavoro, è riduttivo ipotizzare che la scelta sia statica, ossia derivante dal confronto delle diverse opportunità presenti, piuttosto che da una prospettiva dinamica che tenga conto anche di quelle che saranno le opportunità future, incluse quelle delle generazioni successive.

Dando un rapido sguardo ai numeri grezzi sulle regioni che spingono le persone a migrare in Europa, solo un 15% sembra essere mosso da ragioni legate al lavoro (v. Figura 1).

Figura 1: Permessi di soggiorno validi al 31dicembre 2021 divisi per ragione di rilascio

Nonostante la teoria economica abbia posto grande enfasi ai diversi motivi, distinti dal lavoro, che portano gli individui a scegliere di migrare, a livello nazionale ed internazionale si osserva una crescita di politiche e programmi che favoriscono la mera mobilità del lavoro come fattore produttivo, anziché della migrazione delle persone. Per mobilità del lavoro si intende lo spostamento temporaneo di lavoratori che, una volta terminato il contratto, sono obbligati a lasciare il paese. Di questo, ad esempio, sta scrivendo molto l’economista statunitense Lant Prichett.

Un esempio di questi programmi sono stati i cc.dd. guest workers, ampiamente utilizzati nel secondo dopo guerra, soprattutto in Germania e nei paesi dell’Europa continentale, che ammettevano l’ingresso di lavoratori immigrati solo su base temporanea al fine di colmare una carenza di offerta nativa. Programmi simili si stanno nuovamente diffondendo in molti paesi sviluppati e tra questi si può far rientrare anche il decreto flussi varato all’inizio 2023 dal governo Meloni. Tale decreto stabilisce che potranno entrare legalmente in Italia per lavorare 82.705 persone extracomunitarie, di cui una metà come lavoratori stagionali, ossia con un permesso di soggiorno di pochi mesi.

Le voci che richiedono un aumento della mobilità del lavoro attraverso nuovi programmi guest workers fanno leva su un risultato che dovrebbe essere “win-win-win”, ossia vantaggioso per tutte le parti coinvolte. Dovrebbero, infatti, vincere i lavoratori migranti, guadagnando salari più alti all’estero; dovrebbero vincere i paesi che ricevono i lavoratori immigrati, riuscendo ad espandere l’occupazione; e dovrebbero vincere i paesi da cui emigrano i lavoratori, ricevendo maggiori rimesse e potendo contare sul ritorno di lavoratori che hanno acquisito maggiori e diverse competenze all’estero.

Su quest’ultimo punto, la voce più importante è quella della Banca Mondiale, la quale già nel World Economic Prospects del 2006 sosteneva che “implementare programmi di gestione dei flussi migratori, inclusi i visti di lavoro temporanei per migranti poco o non qualificati […] contribuirebbe a ridurre significativamente la povertà nei paesi di origine” (traduzione nostra). Se queste raccomandazioni verranno seguite, potremo aspettarci, come di fatto sta accadendo, una nuova ondata di programmi guest workers.

Il problema poco discusso sta nel fatto che tali programmi implicano delle tutele ridotte per i lavoratori immigrati. Ad esempio, per definizione, pur arrivando legalmente e regolarmente, gli immigrati non godono di un pieno diritto di residenza e di occupazione. Almeno per come è pensato il decreto flussi, il fatto di essere stato temporaneamente nel paese di residenza non aumenta la probabilità di ottenere un permesso permanente. L’occupazione è limitata solo ad alcuni settori, non è consentito agli immigrati di cambiare liberamente datore di lavoro e sono obbligati a lasciare il paese nel caso in cui perdono il lavoro. Per questo, non hanno accesso ai sussidi di disoccupazione e, inoltre, non hanno diritto al ricongiungimento familiare.

Per avere un’idea più precisa delle implicazioni reali degli attuali programmi guest workers, si può volgere lo sguardo al Giappone, un paese che da sempre adotta un atteggiamento restrittivo nei confronti dell’immigrazione. Nel 2019, il Giappone ha iniziato a mettere in pratica una serie di cambiamenti nel regime migratorio sperando di attirare fino a 350.000 lavoratori stranieri per colmare le lacune interne del mercato del lavoro. Queste sono legate un aumento della domanda dei servizi alla persona associato al forte invecchiamento della popolazione.

Tuttavia, dopo quattro anni dall’attuazione di questo nuovo sistema, solo una frazione dei posti vacanti è stata coperta, sollevando forti dubbi sulla portata di tali riforme. Più nel dettaglio, sebbene si sia manifestato un interesse per questo nuovo percorso occupazionale da parte dei governi del Vietnam, delle Filippine, della Cambogia e della Tailandia, invece dei 32.800 visti attesi nell’anno fiscale 2019 (1 aprile 2019 – 31 marzo 2020), solo 1.621 residenti stranieri avevano fatto richiesta e ottenuto il visto temporaneo dopo dieci mesi dall’inizio dell’anno fiscale.

Lo scarso risultato registrato nel primo anno del programma riflette senza dubbio un ritardo necessario a stabilire l’infrastruttura organizzativa e procedurale. Tuttavia, a distanza di quattro anni, il programma non sta ancora funzionando nella maniera sperata. Una spiegazione alternativa può essere perciò ricercata nella mancanza di una prospettiva di integrazione, individuale e familiare, dei migranti dovuta al rigido regime che limita i diritti dei lavoratori e obbliga al rimpatrio non appena terminato il periodo di visto.

Dando uno sguardo al passato, e cioè ai primi programmi guest workers realizzati soprattutto in Germania, Belgio e Austria negli anni ’60, si nota che questi, al contrario di quelli attuali, prevedevano la possibilità di ottenere il ricongiungimento dei familiari rimasti nel paese di origine e un permesso permanente dopo la fine del programma. Attualmente, la seconda generazione degli allora guest workers risiede ancora nei paesi di destinazione dei genitori, portando a pensare che le maggiori opportunità di lavoro per le generazioni successive rappresentano un’altra importante ragione che spinge alla migrazione.

In maniera sintetica, da Becker in poi, la migrazione dettata da ragioni di lavoro viene descritta come “un investimento in capitale umano” (Becker, G. (1975). Human capital (2nd ed.). Chicago: University of Chicago Press.). Come tutti gli investimenti, a parità di altre condizioni, il ritorno complessivo è tanto maggiore tanto più lungo è l’arco temporale sul quale si possono manifestare i guadagni. Per tanto, se esiste una prospettiva di benefici che si estende per tutta la vita lavorativa di una persona, e si allunga oltre la generazione corrente, l’investimento risulterà essere più vantaggioso, e perciò intrapreso da più persone.

I governi attuali, che spesso si trovano di fronte ad un’opposizione pubblica ostile all’immigrazione e, allo stesso tempo, sono in difficoltà nella gestione dei flussi e del mercato del lavoro che presenta carenze strutturali, vedono nella mobilità del lavoro, la quale aumenta il numero di potenziali lavoratori ma ne limita i diritti, il miglior compromesso.

Come appena discusso, le argomentazioni a favore di tali programmi possono sembrare a prima vista convincenti, ma la portata sembra essere insufficiente. Inoltre, la mobilità del lavoro pone di fronte ad un dilemma: la disuguaglianza motiva il movimento delle persone, ma l’imperativo morale richiede la parità di trattamento dopo l’arrivo.

A conclusione di queste brevi note, preme ricordare che l’ostilità verso l’immigrazione sembra alimentata da una narrativa politica divisiva e la presenza di forti disuguaglianze tra nativi e immigrati, come già illustrato sul Menabò. Perciò, la soluzione migliore per la gestione del fenomeno sembra essere ancora una volta quella di investire nelle politiche d’integrazione. Questo a nostro avviso è il modo migliore di affrontare il dilemma.

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