ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e…super ricchi

Il lavoro può condannare alla povertà ma può anche permettere (a non pochissimi) di entrare nella cerchia privilegiata dei super-ricchi. Questo articolo documenta entità e caratteristiche dei compensi stellari di alcuni speciali ‘lavoratori’, in particolare top manager e star dello sport, si sofferma sulle caratteristiche che hanno i mercati, se così possono chiamarsi, in cui quei compensi si formano, sul ruolo del talento, e si interroga sull’opportunità e eventualmente sui modi per porre limiti a quei compensi.

Il lavoro può rendere super-ricchi (oltre che super-poveri). E’ noto che la quota di reddito complessivo che affluisce al segmento più ricco della popolazione è notevolmente cresciuta in molti paesi contribuendo all’aggravarsi delle disuguglianze oltre che a conferire ad esse caratteri particolari. Secondo il World Inequality Database la quota del reddito complessivo pre-tax che affluiva all’1% più ricco tra la metà degli anni ’80 e il 2021, in Italia, con una progressione continua, è passato dal 6,2% al 12,2%, quasi raddoppiando; in USA dal 12,2 al 19%, in Cina dall’8,2 al 15,7% e nella UE dall’8,30 all’11.9%. Quindi forti aumenti dei quali il Menabò si è già occupato.

Per ciò che qui interessa è rilevante il fatto che in molti paesi, tra cui il nostro, una quota rilevante del reddito del top 1% provenga da lavoro, dipendente o autonomo. Si stima che in Italia tale quota nello scorso decennio si aggirasse sul 70%. Questi dati, derivanti in genere dalle dichiarazioni fiscali e riferite ai redditi prima della tassazione, vanno presi con cautela perché possono facilmente sottostimare i reali redditi da rendite e da capitale. Ma il fenomeno esiste ed una sua manifestazione eclatante sono gli ‘stellar wages’ di alcuni soggetti, ed in particolare dei top manager delle grandi imprese (che si usa chiamare CEO, Chief Executive Officer) e le star dello sport e dello spettacolo. Su si essi, in grandissima prevalenza uomini, si concentra la nostra attenzione non soltanto per documentare brevemente i loro redditi stellari ma anche per riflettere sui meccanismi che li rendono possibili.

Questi ‘lavoratori’ super-ricchi sono sia (almeno formalmente) dipendenti che autonomi e le due categorie maggiormente presenti sono quella dei top manager delle imprese (CEO) e quella delle star dello sport e dello spettacolo.

Con riferimento alla situazione dei CEO in italia, riportiamo i dati tratti dal Board Index Spencer Stuart  riferito al 2022 che analizza, sotto molteplici punti di vista, le caratteristiche e il funzionamento dei Consigli di amministrazione delle 100 società più capitalizzate quotate in Borsa con un ulteriore focus specifico su quelle che sono incluse nell’indice FTSE MIB. Come si legge nel rapporto i dati utilizzati non sono completamente attendibili e la ragione principale è che diverse società hanno di recente spostato la propria sede legale all’estero.

Il primo dato è quello relativo al compenso medio totale degli Amministratori Delegati di queste 100 società: 2.120.000 euro. Il valore mediano è sensibilmente inferiore (1.447.000), e ciò indica che la distribuzione di questi compensi è molto diseguale. Infatti il 56% degli AD percepisce tra 1 e 2 milioni mentre superano i 4 milioni i compensi del 26%. Il compenso più alto è stato superiore ai 19 milioni e ne ha beneficiato l’AD di Stellantis.

E’ noto che questi compensi derivano, in generale, dal sommarsi di retribuzione fissa e variabile. Nel 2022 la parte variabile ha pesato per circa il 60% del compenso complessivo. Questi dati significano anche che i compensi sono sensibilmente cresciuti negli ultimi anni.

Nel 2018 il compenso medio totale era di 1.691.000, quindi sensibilmente inferiore mentre la quota fissa non era molto diversa da quella del 2022: 838.000 euro. Quindi l’aumento del compenso totale è quasi interamente spiegato dalla componente variabile.

Il settore in cui i compensi sono risultati mediamente più elevati è quello della finanza (3.575.000 euro); i compensi medi più bassi si sono avuti nelle telecomunicazioni (923.000). Se consideriamo soltanto le società incluse nell’indice FTSE MIB i compensi risultano più elevati (ad esempio il 16% ha guadagnato più di 5 milioni) ed è più elevata la quota della componente variabile.

La parte variabile della retribuzioni è legata al raggiungimento di obiettivi annuali e di medio lungo termine ( i primi adottati da 86 società, i secondi da 85). Quelli a lungo termine servirebbero ad allineare gli interessi dei manager con quelli degli azionisti e, si sostiene, anche a trattenere nelle società manager considerati ‘strategici’ e non facilmente sostituibili. Prevalgono piani triennali con un orizzonte di pagamento che dura 1 o 2 anni oltre il triennio. Nel 66% dei casi il compenso è elargito in azioni. nel 15% solo monetario e nel 19% è misto. Gli obiettivi a lungo termine sono stati tipicamente riferiti a indicatori di performance (ad esempio il rapporto EBITDA/EBIT). Ma di recente hanno iniziato a essere inclusi obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale e di buona governance, i cosiddetti ESG. 51 società di quelle che hanno obiettivi di lungo termine hanno anche parametri ESG e il loro peso varia dal 10 al 50% della complessiva retribuzione variabile. Gli indicatori principali sono quelli di sostenibilità (DJSI, FTSE4GOOD, CDP Climate Change e altri), ma ve ne sono anche per obiettivi di diver­sity di genere, di riduzione degli infortuni e di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Su questo aspetto torneremo più avanti.

I dati che in un recente convegno organizzato dalla Fondazione Rodolfo De Benedetti, hanno presentato J. Van Ours e i suoi collaboratori ci consentono di delineare il quadro della situazione relativa ai CEO americani e alle star dello sport.

In Usa i top 100 CEO nel periodo 2012-2022 hanno guadagnato in media 29 milioni di dollari con un campo di variazione che va da 11,6 a 296 milioni. Enormemente di più che in Italia, dunque. La quota nettamente maggiore di quei compensi viene dalla componente variabile: in media 27,5 milioni (su 29 milioni medi totali) ma con un max di 295. Per l’80% si tratta di americani e la presenza femminile è assai contenuta: solo il 7,1%. La presenza degli stessi CEO tra i top 100 ha una discreta, ma non straordinaria persistenza: circa il 40% di coloro che sono presenti in un anno lo sono anche in quello successivo (controllare).

Per quanto riguarda gli sportivi se ci riferiamo ai 50 con i più alti compensi emerge che in media hanno ricevuto 44,4 milioni di dollari con un campo di variazione tra 22 e 300 milioni. La quota non fissa e derivante essenzialmente da quelli che vengono chiamati endorsement (di fatto, pubblicità) è risultata in media pari a 15,5 milioni, quindi relativamente contenuta, ma il range indica grandi disuguaglianze: va da 0 a 158. I più remunerati sono gli atleti del baseball seguiti da atleti del golf e del racing. Il calcio figura più in basso anche se vi sono calciatori (come ad esempio Mbappè) che guadagnano circa un milione alla settimana. Le donne presenti in questo gruppo non raggiungono il 2,5% e tra di esse spicca Serena Williams. Di rilievo è il fatto che la persistenza degli atleti tra i top 50 è elevata, superiore a quella dei CEO. Una possibile spiegazione è rappresentata dagli endorsement e più precisamente dal fatto che l’effetto notorietà – essenziale in questo caso – tende a persistere nel tempo anche quando si è conclusa l’attività sportiva. Significativo, e facile da spiegare, è anche il fatto che la quota di bianchi tra gli sportivi è assai minore che tra i CEO.

Le differenze tra CEO e sportivi sono, dunque, piuttosto rilevanti e tali differenze suscitano domande rilevanti per comprendere il funzionamento dei mercati, se così vogliamo chiamarli, in cui si formano quei compensi stellari. L’impressione è che alla base di quei compensi vi siano meccanismi che poco hanno a che fare con il funzionamento di mercati concorrenziali ai quali si fa più o meno esplicito riferimento quando si tratta di spiegare la loro altezza.

La prima questione riguarda l’endorsement che incide nel modo che si è visto sui compensi degli sportivi. Ciò che viene retribuito con l’endorsement non è l’abilità o il talento dello sportivo. Al più si tratta di una compensazione indiretta basata sulla notorietà che l’abilità e il talento possono assicurare. Peraltro per vincere la competizione per l’endorsement, se così vogliamo chiamarla, contano qualità che sono debolmente correlate con il talento. Ad esempio la resa ‘televisiva’ degli atleti, altre loro vicende personali, la nazione di origine (più è popolosa meglio è a fini pubblicitari) e altro ancora. Non è dunque dal talento come sportivo che dipendono quei compensi stellari. Può andare bene, ma è bene tenerlo presente.

Si può aggiungere che nel ‘mercato’ dello sport e dello spettacolo i compensi (quelli da endorsement) non dipendono per nulla da quanto chi beneficia dello spettacolo sportivo è disposto a pagare per quelle prestazioni, come dovrebbe essere in un ordinario mercato. Conta di più, direttamente o indirettamente, quanti sono coloro che, senza effettuare quel pagamento specifico, possono assistere alla prestazione e, quindi, essere raggiunti da chi è alla ricerca dell’attenzione altrui. Cioè dagli investitori pubblicitari. E in questo sono decisive le tecnologie digitali, quelle per le quali a un incontro di tennis o a una partita di calcio possono assistere milioni o miliardi di persone, non le poche migliaia o decine di migliaia del tempo in cui tutto nasceva e moriva all’interno di uno stadio. Cioè si è sostanzialmente nella condizione di ‘vendere’ la stessa prestazione (o, almeno di assistervi) a un numero illimitato di fruitori. Naturalmente tutto ciò non vale solo per lo sport.

Peraltro, come hanno documentato Principe e Raitano sul Menabò per i calciatori il rapporto tra compensi, anche per la parte fissa, e performance sportiva è assai debole. Cosicché ci troveremmo di fronte a un caso in cui quei compensi stratosferici sono solo debolmente (o per nulla) spiegabili dalla ‘disponibilità a pagare’ dei fruitori del servizio o dalla ‘qualità intrinseca’ della loro prestazione. Conta altro, qualche forma di potere di taluni sportivi (dipendente, nel caso del calcio, anche da quello – forse piuttosto misterioso – dei procuratori calcistici) e la logica della pubblicità. Con la conseguenza che le distanze nei compensi possono avere debolissimi legami con le distanze nei talenti.

Venendo ai CEO gli aspetti di cui tenere massimamente conto sembrano essere i seguenti. In primo luogo, il disegno e, alla fine, l’entità dei loro compensi sono in buona misura e di frequente decisi dagli stessi CEO. Probabilmente da questo dipende il carattere asimmetrico delle loro retribuzioni: di norma, decisamente crescenti negli anni buoni e non decrescenti in quelli cattivi. In secondo luogo, la componente azionaria della retribuzione variabile (sostanzialmente le stock option) originariamente pensate per allineare gli obiettivi dei manager con quelli degli azionisti è da essi stessi manipolabile. Un modo per farlo è quello del riacquisto delle azioni (buyback) che eleva il valore di mercato delle stesse con evidente beneficio per i CEO in possesso di stock options. Non sembra pertanto inappropriato considerare il buyback la forma meno tollerabile di estrazione del valore, come ha avuto modo di dire Lazonick. In terzo luogo gli incentivi offerti ai manager per raggiungere obiettivi socialmente rilevanti (gli ESG di cui si è detto) possono in realtà incentivare comportamenti opportunistici, di manipolazione degli indicatori come è stato denunciato, per gli obiettivi ambientali, con la cosiddetta pratica del greenwashing. Un modo più semplice e diretto per raggiungere quegli obiettivi sarebbe quello di dare più potere nelle imprese ai portatori di interessi diversi, diversi dal profitto o dal valore di mercato di cui beneficiano anche i manager. In altri termini, di muovere con decisione verso un autentico stakeholder capitalism, non quello che si affida a manipolabili indicatori.

Quanto precede porta a riflettere sul fatto che se i percettori di questi redditi stratosferici possono essere considerati lavoratori – perché non apportano capitale o altre assets nelle imprese o iniziative in cui sono impegnati – ciò per cui vengono compensati non è precisamente il loro lavoro per come contribuisce a generare beni o servizi che elevano la disponibilità a pagare di chi ne fruisce. Può non esservi nessuno che paga (come nel caso dei buyback) oppure qualcuno che paga ma per altro (l’endorsement delle star). E può anche accadere che alcuni di questi ‘lavoratori’ si arricchiscano ai danni di altri, e più veri, lavoratori. E’ il caso dei CEO che si curano ben poco di tutelare quel diritto al lavoro dignitoso di cui si dice in questo numero del Menabò, traendone in vario modo vantaggio.

A questo punto la domanda è: cosa fare? Tra coloro che, consapevoli del problema, si pongono questa domanda la risposta decisamente prevalente sembra essere che non vi è nulla da fare. Tutte le soluzioni avrebbero controindicazioni tali da raccomandare questa conclusione. L’imposizione di tetti alle retribuzioni avrebbe l’effetto di togliere incentivi all’impegno delle superstar o di spingerle a fughe all’estero con conseguenze considerate gravissime per il paese e per il suo benessere. Conseguenze non diverse vengono attribuite all’eventuale introduzione di aliquote fiscali marginali altissime: meno incentivi e fughe.

Le prove che questi esiti siano inevitabili non abbondano e d’altro canto si potrebbero disegnare quegli interventi in modo da limitare simili rischi. Ad esempio se si fissassero aliquote marginali altissime sulle entrate da endorsement degli sportivi si indebolirebbe l’incentivo a impegnarsi nell’endorsement ma potrebbe essere rafforzato l’impegno nell’attività sportiva.

Peraltro, soprattutto con riferimento ai CEO, alla riduzione degli incentivi delle superstar potrebbe corrispondere un rafforzamento degli incentivi di coloro che superstar non sono ma che sono sensibili alle disuguaglianze e alla fairness delle retribuzioni. Ciò spinge anche nella direzione di valorizzare le retribuzioni dei team che producono quei risultati invece che dei singoli basandosi anche sulla convinzione che i lavoratori non sono sistematicamente opportunisti che cercano di essere retribuiti senza impegnarsi (come potrebbe accadere nel caso delle retribuzioni di squadra e come gli economisti si sono affrettati a sostenere). Peraltro, rispetto al rischio di fuga e alle sue conseguenze, si può avanzare il dubbio che nessuno (o quasi) sia insostituibile. Se pensiamo il contrario forse dipende anche dal fatto che viviamo in un mondo che – con poche eccezioni, tra cui diversi segmenti del mercato del lavoro – è poco concorrenziale (in senso positivo) e perciò limita le possibilità di affacciarsi nei mercati (anche quelli sportivi) di quanti potrebbero, appunto, confermare che nessuno (o quasi) è davvero insostituibile. E, inoltre, questo mondo poco concorrenziale conferisce potere che si trasforma in compensi (cioè rendite) stellari.

In conclusione, dietro il fenomeno di cui ci siamo occupati ci sono aspetti, più nuovi che antichi, dei sistemi economici che non ricevono l’attenzione che meriterebbero con la conseguenza di mortificare la nostra capacità di immaginare soluzioni in grado di rendere meno iniquo il mondo in cui viviamo.

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