ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 200/2023

30 Settembre 2023

Lavoro e…Costituzione

Il lavoro occupa una posizione centrale nella nostra Costituzione e non soltanto perché nell’art. 1 si afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro. Rileggere gli articoli della Costituzione in cui si definisce il diritto al lavoro – inteso non solo come diritto ad un’occupazione - nonché quelli in cui si fa riferimento al dovere di lavorare è di grandissima importanza per comprendere alcuni dei più seri problemi con i quali ci confrontiamo e soprattutto per riflettere sulla possibilità di conciliare il diritto al lavoro con il funzionamento di un’economia di mercato.

Rileggere la nostra Costituzione è utile per moltissime ragioni. Una di esse, di certo non sorprendente, è l’invito, quasi pressante, che da essa promana a riflettere sul lavoro e sulla sua centralità nella vita delle persone. Il lavoro posto a fondamento della Repubblica è un diritto e anche un dovere. Ed è una dimensione della vita che dovrebbe informare le istituzioni che plasmano la qualità delle nostre esistenze.

La questione che qui più interessa, da un punto di vista economico,  è quella del diritto al lavoro e della possibilità di conciliare tale diritto con il funzionamento di un’economia di mercato e il contemporaneo riconoscimento dei diritti di proprietà capitalistici all’interno dell’impresa.

Il diritto al lavoro, di cui tratta la Costituzione, come ha chiarito la dottrina è un diritto potenziale non un diritto soggettivo perfetto, ma è comunque molto di più di una pura affermazione di principio. Lo conferma anche il fatto che esso ha diverse dimensioni e non consiste semplicemente nella possibilità di accedere a un’occupazione qualsivoglia (cfr. M. Franzini, “Il lavoro come diritto (e dovere) e la sua compatibilità con un’economia di mercato” in Scienza Costituzionalistica e Scienze Umane, Annuario 2021 Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Editoriale Scientifica 2022).  Rileva, naturalmente, la remunerazione che, come recita l’art. 36 della Costituzione, riprendendo quasi alla lettera quanto affermarono in Costituente soprattutto Togliatti e Dossetti, deve essere, per il lavoratore, “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Ma contano anche altre dimensioni del lavoro: gli orari e i ritmi, il grado di autonomia dei lavoratori, la misura in cui vengono valorizzate – e arricchite – le loro competenze, la cooperazione tra i lavoratori.  Tutto ciàò incide sulla soddisfazione del lavoratore.  Di rilievo, a questo riguardo, quanto affermò Costantino Mortati: “nella Costituzione italiana, il lavoro posto a base della Repubblica, non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo, garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego”.

Di grande rilievo è anche  l’art. 46  nel quale si legge: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Si tratta, come è evidente, di una questione ancora oggi all’ordine del giorno.

Oltre al diritto al lavoro, la Costituzione al co.2 dell’art. 4 prevede il dovere di lavorare, anche questo evidentemente da intendere in senso potenziale. A fondare tale dovere  è la necessità di contribuire al progresso materiale o spirituale della società, per il quale il lavoro è indispensabile. Verrebbe da chiedersi se una buona quota del lavoro contemporaneo davvero contribuisca al progresso spirituale e quali conseguenze per il dovere di lavorare avrebbe una risposta affermativa; e viene altresì da chiedersi se quel riferimento al dovere di lavorare serva solo a prevenire l’ozio di quelli che oggi chiamiamo ‘divanisti’ e non anche una vita da rentier.

Qui, come si è detto, ci occupiamo soprattutto del diritto al lavoro e della sua conciliabilità con un’economia di mercato. Del problema, i Costituenti erano ben consapevoli e al riguardo sono significative soprattutto alcune affermazioni delle (poche) donne presenti. Ad esempio, Teresa Noce, parlò della necessità che lo Stato adottasse politiche in grado di creare le ‘condizioni perché possa esplicarsi il diritto al lavoro’. Dal canto suo, Nitti affermò che lo Stato deve curare che il  diritto sia rispettato ma la sua attuazione spetta al datore di lavoro. Un’affermazione in perfetta sintonia con l’art. 4 della Costituzione, nel quale si legge che la Repubblica ‘promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto’ sembra recepire tutto questo.

Per rendere effettivo quel diritto, considerando le sue molte dimensioni, non sono sufficienti solo politiche keynesiane di sostegno della domanda e dell’occupazione. Occorre incidere, con politiche appropriate, anche sulle altre dimensioni.  E considerando tutto ciò non sorprende che  Togliatti in Costituente abbia affermato che sarebbe stato necessario occorreva ‘un corso differente da quello dell’economia capitalistica liberale pura’.

Di interesse è anche l’idea, rilevante per la condizionalità dei sostegni al reddito approfondita in altro articolo di questo Menabò, espressa in Costituente da Antonio Pesenti che il diritto al lavoro permettesse di fondare il diritto alla protezione sociale di chi, per colpa non sua o per disabilità, non ha un lavoro; cioè il diritto al lavoro può non essere immediatamente attuabile e “sta tuttavia allabasedi diritti sussidiari, sostitutivi, che possono essereimmediatamente realizzati”.

Queste indicazioni, per quanto importanti e significative, non sono certo sufficienti per risolvere il problema, che la storia ci consegna in tutta la sua complessità. Ad andare in una direzione diversa ha certamente contribuito la teoria economica con due convincimenti assolutamente prevalenti.

Il primo è che il lavoro sia solo un mezzo per procurarsi il reddito che permette di accedere a ciò che solo conta per il benessere delle persone: il consumo, presente o futuro. Ne è prova l’assenza dalle funzioni di utilità individuali del lavoro che compare solo come causa di disutilità perché comprime quel bene particolare che sarebbe il tempo libero.  Il secondo  è che riconoscere in senso ampio un diritto al lavoro significa irrigidire l’economia e limitare la libertà dell’impresa con danni (in termini di benessere materiale, che vuol dire crescita economica) praticamente per tutti. Detto in altri termini: ai lavoratori interessa solo il reddito e ne avranno di più nel lungo periodo se non accampano troppi diritti nel presente. Si può verificare quanto diffuse siano oggi queste idee (e alcuni loro corollari, come quello che il tempo libero a parità di reddito vale sempre più del lavoro) e quanto le rinunce ai diritti abbiano effettivamente portato a più benessere materiale successivamente.

A questo riguardo non si può non ricordare il fenomeno, approfondito  in altro articolo di questo Menabò,  del lavoro povero e ben poco valorizzato e si può anche citare – a proposito di quello che conta per il benessere – la quota molto elevata di persone che si dichiarano non solo  molto insoddisfatte del proprio lavoro, ma insoddisfatte in generale a  causa del proprio lavoro. E l’insoddisfazione non nasce soltanto dal livello delle retribuzioni. Sintetizzando si può dire che oggi, in Italia  vi è carenza di ‘lavori buoni’, di good jobs  e non solo in Italia, come sostengono ad esempio  Rodrik e Stantcheva.  

Si può qui ribadire che il problema non è solo quello di creare occupazione;  per questa ragione  benché importante non è risolutivo il rinvio al ruolo dello Stato come occupatore di ultima istanza. Occorre non solo creare posti di lavoro ma anche fare in modo che siano ‘buoni’ e da questo punto di vista il problema sembra investire anche i soggetti  pubblici come datori di lavoro. Il riferimento è ai  tanti lavoratori precari o ai ritmi insostenibili di lavoro per alcuni lavoratori. Di questi tempi viene in mente in primo luogo chi lavora nella sanità pubblica.

Tutto ciò rende necessaria una rinnovata riflessione che non si limiti a ribadire l’importanza, di per se stesso, del diritto al lavoro ma che mostri come esso, inteso nel senso della Costituzione, possa essere conciliato con le ragioni della crescita economica e con un ragionevole esercizio dei diritti di proprietà capitalistici. In altri termini la questione è se quello che potremmo chiamare un grado ragionevole di rigidità del lavoro (funzionale alla protezione dei salari, ma non soltanto a questo), realizzato in vario modo, sia  più benefico per la stessa crescita economica di un grado elevato (e forse poco ragionevole) di flessibilità

Il primo punto riguarda la possibilità che le reazioni dell’impresa siano favorevoli alla produttività e alla crescita. Questa tesi, con riferimento alla rigidità  salariale, è presente nella letteratura economica. Molti anni fa, in Italia, fu sostenuta da  Sylos Labini all’interno dell’idea che vi sia un grado ottimo di rigidità. Troppa nuoce ai risultati dell’impresa e scoraggia investimenti e innovazioni ma troppo poca permette all’impresa di raggiungere i suoi obiettivi di profitto con pochi investimenti e poca innovazione. In tempi più recenti, posizioni simili sono state sostenute da autori che si ispirano, in particolare a Schumpeter e sulla base anche di riscontri empirici(cfr. ad esempio S. Hoxha e A. Kleinknecht, “When labour market rigidities are useful for innovation. Evidence from German IAB firm-level data”, Research Policy, 49. 7, 2020).  Si può ritenere che oggi, in generale,  un po’ più di rigidità  avvicinerebbe al suo grado ottimo. In breve, la rigidità potrebbe spingere a cercare strade diverse per tutelare i profitti, si tratterebbe di strade più favorevoli alla crescita economica e più rispettose di almeno alcune dimensioni del diritto al lavoro. 

Il secondo punto riguarda, invece, il comportamento dei lavoratori di fronte a un maggior riconoscimento del diritto al lavoro da parte dell’impresa. L’idea, confermata da molta evidenza empirica, è che il lavoro non sia soltanto un neutro mezzo per procurarsi il reddito necessario per ciò che solo conta: il consumo. Per molti, o moltissimi, il lavoro arricchisce (o impoverisce) la propria esistenza e le dà significato. La conseguenza è che dalle caratteristiche del lavoro dipende oltre che la soddisfazione dei lavoratori il loro stesso comportamento ed il loro impegno. E tutto ciò sarà particolarmente importante se è diffusa, come sembra che sia, la propensione alla reciprocità nei comportamenti umani, inclusi quelli relativi al lavoro.  Per questa ragione, da tempo,  alcuni studiosi ed in particolare Bowles e Gintis hanno sostenuto che è più appropriato parlare di homo reciprocans piuttosto che di homo oeconomicus.

Dunque la combinazione tra motivazioni dei lavoratori e caratteristiche del lavoro apre un importante scenario di analisi che allarga il campo tematico sulla possibilità di conciliare diritto al lavoro e funzionamento del mercato: offrire lavori che tutelano il diritto al lavoro nel senso costituzionale può favorire comportamenti reciprocanti benefici per la produttività e verosimilmente anche per i profitti. Più in particolare è rilevante la libertà lasciata al lavoratore sui compiti da svolgere e le modalità con cui svolgerli, dunque il riconoscimento dell’autonomia del lavoratore in una logica di contratto incompleto piuttosto che di contratto che dettaglia tutto e si serve di un severo monitoraggio. Importanti sono anche la natura e la qualità dei rapporti con gli altri lavoratori, così come è importante la percezione di una retribuzione equa in rapporto a quella degli altri. E qui entrano in gioco, con i loro probabili effetti negativi, le differenze retributive che possono essere stratosferiche all’interno di un’impresa, come si discute in  un altro articolo di questo Menabò.  Si può inoltre osservare che, secondo questa prospettiva, tutelare il diritto al lavoro nel senso indicato – cioè favorendo la soddisfazione del lavoratore –  può anche contribuire a risolvere il problema  del dovere di lavorare.

Un diverso sistema di governance delle imprese può favorire la realizzazione di tutto quanto precede. Si tratta di allontanarsi dalla logica dello shareholder value per il quale chi ha il potere decisionale nell’impresa non debba fare altro che massimizzare i profitti e il valore dell’impresa stessa, dando, quindi, priorità assoluta agli interessi degli azionisti. Quell’allontanamento può essere realizzato in vari modi, e una discussione al riguardo è certamente importante, ma in ogni caso deve prevedere un ampliamento del potere dei lavoratori.

Siamo di fronte, in sostanza, al  problema posto dall’art. 46 della Costituzione a cui si è già fatto riferimento, la cui rilevanza per il diritto al lavoro è altissima in quanto può avere effetti su molteplici dimensioni di quel diritto: dall’essere, i lavoratori,  coinvolti nelle decisioni, al livello delle loro retribuzioni, dalla definizione dell’organizzazione del lavoro alla scelta delle innovazioni da introdurre che potrebbe portare a privilegiare, diversamente da quanto accade spesso oggi, quelle che assecondano e migliorano il lavoro umano invece di sostituirlo e impoverirlo. E con le probabili conseguenze positive di cui si è detto.

La questione finale è cosa ostacoli una marcia più decisa nella direzione indicata, visti gli esiti complessivamente positivi a cui potrebbe condurre e come eventualmente superare quegli ostacoli. Questioni estremamente complesse.  Si può chiamare in causa la prevalente cultura imprenditoriale troppo spesso adusa, per usare i termini di Acemoglu e Robinson (Why Nations Fail, Crown Business2012), a estrarre invece che a includere. E si può anche menzionare il rischio di concedere troppo a lavoratori non reciprocanti, che pure esistono, con vanificazione delle conseguenze positive di cui si è detto. Quello che si conosce sui comportamenti reciprocanti porta a ritenere che il rischio sia basso e lo sia soprattutto quando si tratta di lavoratori giovani, con forti motivazioni intrinseche per il lavoro e quindi particolare sensibilità alla tutela dei connessi diritti. Ma, volando alto, si potrebbe immaginare un sistema formativo che dia importanza non soltanto al capitale umano ma anche a quello che si potrebbe chiamare ‘capitale motivazionale’. Senza rinunciare, magari anche depotenziando il potere persuasivo di alcune teorie economiche, ad arricchire la cultura imprenditoriale della sensibilità necessaria per considerare i good jobs un buon investimento. E al riguardo una notizia di certo interessante è che questa sensibilità sembrano averla in misura maggiore le donne (cfr. P. Profeta, Gender Equality and Public Policy, Cambridge University Press, 2020 cap. 5).  Se così fosse vi sarebbe un ulteriore motivo – che avrebbe di per sé  un indiretto fondamento costituzionale –  per abbattere il soffitto di cristallo che impedisce alle donne di avere più responsabilità nella governance delle imprese.

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