ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 212/2024

27 Marzo 2024

Può la ricchezza crescere più della produzione? Ritorno su alcuni fondamentali

Sergio Bruno riflette sull’incapacità delle teorie macroeconomiche di spiegare le crescenti diseguaglianze e l’aumento del peso relativo della ricchezza improduttiva e della liquidità. Solo adottando una prospettiva inter-temporale e ragionando criticamente sugli spunti di Keynes e Tobin è possibile cominciare a far luce sugli interrogativi posti da tali fenomeni, incompatibili con dinamiche di equilibrio, indicando come i deficit di bilancio sarebbero una risposta quasi necessitata al tesoreggiamento, che è il vero evento dannoso.

La risposta alla domanda che compare nel titolo di questo articolo è: si, è possibile, è anzi un fatto divenuto vistoso da almeno un secolo. Segno che la ricchezza improduttiva cresce più della capacità produttiva, grosso modo correlata alla produzione. 

Paradossale è solo che la ricchezza improduttiva non interessi molto le riflessioni sistemiche degli economisti.

L’enfasi sulla domanda di riserve liquide, posta da Keynes insieme a quella sul ruolo della domanda finale, avrebbe potuto aprire uno spiraglio. Purtroppo solo il ruolo della domanda ha cambiato “le vecchie idee”, quelle che Keynes considerava l’impedimento maggiore a più profondi cambiamenti di prospettiva. (“The difficulty lies not in the new ideas, but in escaping from the old ones, which ramify, for those brought up as most of us have been, into every corner of our minds”).

L’idea che Keynes non è riuscito a scalfire è che la moneta serva solo a finanziare le transazioni produttive e l’inflazione dei flussi delle merci prodotte. Valga l’esempio (che devo ad Alessandro Bachi) del target della BCE per l’espansione della base monetaria al 4,5%. Il numero derivava dalla somma del tasso di inflazione (2%) e della crescita prevista del prodotto europeo (2,5%). Non si prevedeva di soddisfare la domanda di liquidità. La storia: la base monetaria è cresciuta nel primo decennio del millennio molto più del 4,5%, il prodotto meno del previsto, l’inflazione, che avrebbe dovuto andare alle stelle, non l’ha fatto. Una bolla speculativa ha fatto invece crescere i valori di borsa. Questa storia dipinge platealmente i nodi teorici latenti.

Il discorso di Keynes era incompleto. La mancanza di una prospettiva intertemporale ha portato a trascurare le interferenze che la domanda di liquidità può avere sulla domanda finale. Uscendo dalla sostanziale a-temporalità originaria sembra invece possibile fare qualche passo avanti rispetto ad alcuni interrogativi cui la tradizione non dà risposte sistemiche: (a) perché i paesi accumulano debito a dispetto dei soloni che vogliono il pareggio (se davvero lo vogliono); (b) come si formano i patrimoni improduttivi e, soprattutto, (c) come e perché i valori di tali patrimoni crescono a dismisura nel corso del tempo; (d) ha davvero senso fare dell’andamento degli indici finanziari il barometro dello stato di salute delle economie; (e) possibile che i meccanismi macroeconomici non abbiano un ruolo importante, ancorché indiretto, nel formare e accentuare le diseguaglianze?

La domanda di liquidità esprime l’esigenza “sociale” di costituire riserve. Non è accantonamento funzionale ai cicli produttivi. È l’accantonamento di cose cui la società attribuisce, convenzionalmente e per i motivi più vari, un valore condiviso relativamente permanente. Esso si fonda sulla potenziale convertibilità, nel futuro, delle riserve di ricchezza in flussi di merci, facendo perno su aspettative assicurate solo dai rapporti interindividuali nella società. 

Il formarsi di riserve di moneta liquida, come suggerito da Keynes (libro IV della Teoria Generale), discende dalle libere decisioni degli individui di tesoreggiare parte delle loro entrate monetarie. Keynes peraltro, concentrandosi soltanto sugli effetti sulla variazione dello stock di liquidità indotti da variazioni dei tassi di interesse, non considerò che il tesoreggiamento incide sulla domanda attraverso una simultanea contrazione dei flussi di spesa. 

Il formarsi di riserve liquide, come ben coglie Tobin nel suo Nobel Speech dell’83, è la premessa per l’acquisto di ulteriori ricchezze patrimoniali già esistenti, seguendo principi di differenziazione di portafoglio. Se, in equilibrio, dovesse davvero esservi l’eguaglianza tra risparmi e investimenti produttivi e una invarianza dello stock di liquidità, resterebbe inspiegato con quali mezzi monetari, lasciando perdere furti e saccheggi, vengano acquistati i patrimoni improduttivi (ecco una prima risposta all’interrogativo su come si formi il valore dei cespiti improduttivi). Al contempo il collegamento fatto da Tobin tra stock di liquidità e stock patrimoniali improduttivi costringe a riflettere sul fatto che la liquidità non soddisfa solo i bisogni precauzionali, ma che le motivazioni speculative danno accesso ad una ampia gamma di vantaggi assicurati dalla ricchezza improduttiva più o meno liquida: rendite, potere, capacità di accedere a prestiti e a più ampie e lucrose opzioni, capital gains. Tutti i fattori, insomma, che per un verso incidono sempre più vistosamente sulle diseguaglianze e dall’altro sono alla base della “non sazietà da ricchezza” che i miti, la storia, le religioni e la letteratura (il nostro patrimonio di conoscenza della natura umana) hanno sempre narrato. 

Per andare oltre occorre ricollocare i suggerimenti iniziali di Keynes in una prospettiva inter-temporale e partire proprio dalla non sazietà da ricchezza. Se considerassimo l’ipotesi che in ogni periodo possa esservi tesoreggiamento (perfino i più poveri hanno risparmiato parte dei sussidi pubblici erogati per compensare i danni da Covid) e al contempo che non tutti i risparmi vengano assorbiti dagli investimenti produttivi (l’eccesso dei risparmi, il saving glut, posto in rilievo dal governatore della FED Bernanke nel 2005, è un fenomeno tuttora osservabile e che diviene imbarazzante continuare a considerare come squilibrio ciclico), ci troveremmo di fronte ad un orizzonte del tutto nuovo, caratterizzato da una contraddizione continua tra propensione al tesoreggiamento e l’esigenza di contrastare con i deficit di bilancio le spinte recessive indotte da tale propensione.

Provo a dare, con un minimo di prospettiva storica, una plausibile giustificazione di quanto appena osservato. La pressione recessiva del tesoreggiamento è chiara. Gli storici hanno del resto posto in rilievo l’importanza che ha avuto nei secoli scorsi l’afflusso in Europa di nuove ricchezze (da miniere, da spoliazioni belliche e coloniali) nel determinare periodi di prosperità stimolata dalla maggiore domanda monetaria. A tali periodi seguivano cicli di impoverimento o stagnazione irrimediabili, probabilmente dovuti al tesoreggiamento, che faceva venire meno mezzi e stimoli alle economie, fino al seguente “successo” minerario o bellico. 

     Con l’avvento e la prevalenza della moneta legale (fiat money) i governi moderni hanno scoperto (New Deal, Hitler) che il deficit di bilancio poteva svolgere, apparentemente a buon mercato, sistematiche funzioni di stimolo della domanda. Se il deficit è finanziato con l’emissione di debito si rastrella la liquidità tesoreggiata, mentre la spesa pubblica rimette in gioco la liquidità stessa come domanda di merci e servizi. Se il deficit è finanziato con stampa di moneta il calo di domanda privata è compensato dalla domanda pubblica e chi ha tesoreggiato vede aumentare il suo stock di liquidità. Fare deficit è quindi il modo più semplice, intuitivo e politicamente meno costoso con il quale le spinte recessive indotte dal tesoreggiamento possono essere neutralizzate (questo risponde in parte all’interrogativo “a”). Il deficit diviene così la facile cura del male (il tesoreggiamento), che non viene nemmeno diagnosticato. 

La conseguenza è una divaricazione tra la dinamica della parte produttiva delle economie e la loro parte monetaria e finanziaria. Provo a spiegare le ragioni di tale divaricazione.

Si supponga che, in una economia con un trend di crescita nullo, per un qualsiasi motivo intervenga un tesoreggiamento positivo ripetuto periodo dopo periodo e che gli effetti recessivi che ne conseguono vengano compensati con un deficit di bilancio ripetuto, finanziato con stampa di moneta, la cui entità è pari all’ammontare del tesoreggiamento per periodo. La compensazione impedisce la diminuzione del trend di produzione mentre quanto tesoreggiato va ad accrescere nel tempo lo stock di liquidità. La dinamica di parte reale resta quella che era, lo stock di moneta cresce invece linearmente nel tempo. (Il discorso cambierebbe poco in presenza di un sottostante trend di crescita positivo). Di qui la divaricazione. Naturalmente nel caso che il deficit venga finanziato emettendo bond sarebbe il debito pubblico ad accumularsi linearmente. 

Un aumento del solo stock di liquidità sembrerebbe in sé un nonsenso. Non lo è più, tuttavia, alla luce della prospettiva aperta da Tobin, la cui visione fa della liquidità solo la prima tappa di un processo continuo di differenziazione di portafoglio. La moneta non andata a finanziare gli investimenti produttivi resta intrappolata in un circuito di compravendite di forme varie di riserve improduttive diversamente liquide.

La crescita del risparmio lasciato liquido o impiegato in titoli del debito, che ho argomentato essere più che proporzionale rispetto a quella del prodotto, crea in tempi normali una massa di potere di acquisto che si riversa nell’acquisto di ulteriori patrimoni improduttivi, a fronte tuttavia di una scarsa riproducibilità della loro offerta, e genera così il loro aumento di valore. Questo risponde all’interrogativo sul perché i valori dei patrimoni improduttivi crescono (“c”).

La responsabilità dei fenomeni appena evidenziati non va attribuita ai deficit di bilancio, bensì al tesoreggiamento. Il motivo precauzionale è alla base del formarsi della maggior parte del risparmio, ma i fattori che inducono gli impieghi improduttivi dei risparmi stessi sono, di nuovo, profondamente annidati nell’organizzazione sociale e nei valori che la determinano. Oggi, sempre più, prevalgono i valori ideologici che esprimono la scelta di favorire i meccanismi di mercato per rispondere ai bisogni, sempre e comunque, mai ponendosi interrogativi sui possibili fallimenti o insufficienze di tali meccanismi. Il problema, cioè, che si sono posti i genitori della politica economica: Pigou che indicava le disfunzioni microeconomiche del mercato e come correggerle, e Keynes, che indicava le principali disfunzioni del mercato stesso da dal punto di vista macroeconomico e, anche lui, come correggerle.

È questo che ha determinato, a partire dal secolo scorso e a fronte del bisogno di sicurezza e di accumulazione di individui e famiglie, l’espansione dell’offerta privata di impieghi: borse valori, offerte finanziarie speculative, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento; tutti impieghi non rivolti a favorire gli investimenti produttivi bensì la valorizzazione e la circolazione dei patrimoni improduttivi.

Ho accennato al fatto che il quadro appena delineato è destinato a trovare resistenze intellettuali, perché in conflitto con molti tabù, il più strategico dei quali è l’esigenza che la maggior parte degli economisti sentono di avere “soluzioni di equilibrio”. La divaricazione tra la dinamica della parte reale e della parte monetaria-finanziaria dell’economia è infatti incompatibile con “soluzioni” di crescita stazionaria. Tali soluzioni, che implicano l’invarianza nel tempo delle relatività tra le diverse grandezze macroeconomiche, sono il risvolto, in dinamica, delle classiche soluzioni di equilibrio in statica. La divergenza nel tempo tra stock monetari e finanziari e stock e flussi produttivi, che è sotto gli occhi di tutti, indica come le diverse grandezze marcino a diverse velocità. Questa divergenza è il risultato ultimo di una destinazione sistemicamente irrazionale del potere di comando monetario, ricchezza e non invece investimenti e consumi. Conclusione che offre spunti politici degni di riflessione.

Non si tratta del solo feticcio che urta le convinzioni “ramificate” nelle menti (per dirla con Keynes) a dover cadere. Quello forse più vistoso riguarda l’eguaglianza tra tutti i risparmi e tutti gli investimenti. Harrod e Domar, inascoltati, hanno evidenziato che i risparmi in equilibrio debbano essere eguali ai soli investimenti che espandono la capacità produttivaessendo quelli fatti per rimpiazzare il capitale che viene meno per anzianità ed usura finanziati dai ricavi delle aziende. I ricavi incorporano infatti nei prezzi gli ammortamenti, come già messo in luce da Marshall discutendo i “punti di fuga” di breve e di lungo periodo. L’implicazione incontrovertibile è che in una economia che non cresce e non fa innovazioni (in breve quella pensata nella Teoria Generale) i risparmi debbano essere, in equilibrio, nulli. Non solo il paradosso è duro da digerire. 

Esso è incoerente con le identità macroeconomiche individuate da Keynes e poi fatte proprie da tutte le contrastanti scuole di pensiero.

Un’ultima osservazione. Gli stock sembrano interessare gli economisti molto meno dei flussi. Essi hanno invece una importanza strategica, crescono a velocità diverse, risultano dalle eredità (trascurate) che ciascun periodo lascia a quelli successivi. Tra queste eredità fa molta differenza che vi siano stati molti investimenti per innovare ed espandere la capacità di produrre, ovvero molte riserve; molti imprenditori ovvero molti finanzieri e rentiers

Eppure tutti sembrano gioire soprattutto degli indici di borsa che salgono, dando luogo a capital gains, divenuti oggi la via principale per arricchirsi, ma anche fonte di aggravamento delle diseguaglianze. Al contempo media e politici temono le “reazioni dei mercati”, senza pensare che in essi si compravendono quasi solo mere riserve di valore. Una stupidità sociale che ha ormai deformato cultura e linguaggi. Solo una parte molto esigua delle transazioni finanziarie di un anno, infatti, riguarda nuovi titoli industriali emessi per finanziare nuovi investimenti in innovazioni e capitale produttivo. Il resto consiste nel cambiamento dei proprietari (anche solo frazionari) di un capitale formato nel passato, con ben pochi riflessi sulla produzione ed invece abbondanti riflessi su diseguaglianze e arricchimenti. Gli “investitori”, interni o esteri, che spesso i media indicano come soggetti da favorire, raramente contribuiscono allo sviluppo del paese (interrogativi “d” ed “e”).

Quanto appena osservato rende ovvio che il problema delle società contemporanee non è il deficit, bensì il favore con il quale si guarda il tesoreggiamento e se ne favoriscono gli impieghi, a partire dall’uso dell’ormai palesemente equivoco termine di “investimento” per denominare impieghi che investimento, nel senso loro dato dagli economisti del passato, non sono. 

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