La crisi del mercato del gas e i prezzi che in esso si formano stanno scuotendo l’economia e la politica dei paesi europei e della stessa UE. Gli obiettivi che questa si era data per una più rapida transizione verso un’economia decarbonizzata si sono aggrovigliati, in un nodo non facile da sciogliere, con quelli che la stessa UE si è dovuta “imporre” a seguito degli effetti dell’invasione dell’Ucraina: l’indipendenza dalle forniture di combustibili fossili dalla Russia e la protezione dei consumatori vulnerabili e delle imprese. Diverse sono le misure europee e nazionali adottate nel tentativo di mitigare l’impatto della crisi e di altre opzioni (in primo luogo il price cap) si discute animatamente. Delle politiche adottate e delle alternative ci occuperemo nella seconda parte di questo articolo che comparirà sul prossimo numero del Menabò. Qui ricostruiamo la vicenda della crisi che appare relativamente semplice nella diagnosi ma straordinariamente complessa nella terapia.
Il motivo all’origine è, in fondo, banale: un problema di scarsità di offerta, in parte effettiva e in parte attesa. I prezzi incorporano la riduzione delle forniture russe e il rischio che siano del tutto interrotte nonché l’incertezza sul livello della domanda, fortemente influenzata dalle condizioni climatiche dell’inverno che è alle porte. Detto questo la crisi dell’offerta si è manifestata in un mercato non ben disegnato per tre ordini di motivi: la struttura fortemente concentrata dell’offerta a cui si contrappone una domanda molto articolata; il potenziale – che la crisi ucraina ha dimostrato essere effettivo – utilizzo politico del gas; l’organizzazione degli scambi affermatasi nell’ultimo quarto di secolo, promossa in parte dall’UE in parte dagli stessi operatori, che sembra aver trascurato entrambi gli aspetti.
In primo luogo, la struttura del mercato: l’offerta in Europa è sempre più dipendente dalle importazioni (cresciute da oltre il 70% nel 2016 a circa 88% nel 2021, fonte Eurostat) oltre che altamente concentrata. La produzione europea di gas (non includendo la Norvegia) è stata storicamente modesta ma non marginale: all’inizio del 2014 copriva circa un terzo dei consumi, negli anni più recenti è scesa al 12-15% (fonte Eurostat, UE27) ed è destinata a ridursi ulteriormente. Le maggiori riduzioni nella produzione sono attribuibili all’Olanda, dove l’estrazione dal giacimento di Groningen è fortemente diminuita in seguito ai rischi sismici. Peraltro, la possibilità di produrre gas non convenzionale (shale) sembra comunque remota nella maggior parte dei paesi, anche per l’opposizione degli ambientalisti.
Inoltre, l’offerta è controllata (per il 76,8% delle importazioni di gas nel 2021 sulla base di dati della Commissione Europea) da tre grandi società di proprietà di governi non appartenenti all’Unione e quindi è sostanzialmente sottratta alla sua giurisdizione. Di fronte a questa situazione, che escludeva la possibilità di avere un mercato upstream veramente competitivo dal lato dell’offerta, l’UE ha comunque puntato a sviluppare il mercato dal lato della domanda. È chiaro che in queste condizioni già il prezzo che si forma tra produttori e importatori non può essere un prezzo competitivo a causa del forte potere di mercato dei produttori. L’integrazione tra i mercati nazionali avrebbe potuto mitigare questo aspetto: qualche progresso è stato conseguito ma non si è intervenuti su alcuni colli di bottiglia quale quello tra Spagna e Francia, ma anche altri a cui si riferisce la Commissione nel piano REPowerEU.
Veniamo al secondo fattore: il carattere di political commodity del gas per cui l’offerta e i prezzi possono essere fortemente influenzati da decisioni politiche. Per la verità drastici tagli dell’offerta da parte di produttori che controllano una larga fetta della produzione mondiale non sono una novità. Lo shock provocato dai paesi produttori aderenti all’OPEC, in risposta al conflitto arabo israeliano rappresenta il precedente più volte evocato; ma da esso non si è tratta alcuna lezione. Infatti, ne sarebbe dovuto derivare un disegno dei mercati che non ignorasse questo rischio. Si è invece assistito ad una sorta di doppio binario: la Commissione liberalizzava il mercato a valle e il mid-stream dove l’influenza diretta dei governi era minima. Dall’altra parte la struttura dell’offerta (sotto il profilo della diversificazione dei paesi fornitori) restava dominio pressoché esclusivo dei governi nazionali come dimostra il fatto che le scelte in materia di sviluppo dei gasdotti siano state lasciate sostanzialmente agli accordi governativi pur con la partecipazione al tavolo dei grandi operatori energetici. Le storie del South Stream e del North Stream 2 sono da questo punto di vista emblematiche.
Infine, il terzo aspetto riguarda lo sviluppo dei mercati (i cosiddetti hub), assunti a ruolo di centro dell’attività di scambio del gas, uno dei frutti della politica liberalizzatrice. La Commissione, spinta dal convincimento che i contratti a lungo termine potessero rappresentare un ostacolo alla creazione di un mercato interno dell’energia e che, in alcune forme, non fossero compatibili con uno sviluppo della concorrenza nei mercati downstream, ha assunto, a partire dal primo decennio degli anni duemila, una serie di decisioni antitrust che hanno significativamente modificato alcuni accordi e di fatto vietato l’adozione di alcune clausole, quali ad es. le clausole di destinazione o restrizioni territoriali alla vendita. Anche la politica regolatoria è stata particolarmente incisiva con l’adozione del third party access e la separazione proprietaria tra chi possiede le infrastrutture e chi stipula contratti di importazione. La stessa introduzione dei codici di rete ha creato un forte incentivo per lo sviluppo degli hub con il disegno del mercato basato su entry ed exit points (dove la capacità d’ingresso dell’infrastruttura viene allocata separatamente dalla capacità in uscita). Questi sviluppi hanno completamente trasformato il contesto di mercato in cui operavano i contratti esistenti. Ne sono derivati un aumento nel numero degli operatori dal lato della domanda (prima pochi grandi gruppi rappresentativi dei diversi paesi, oggi decine di traders), una crescita degli scambi sui mercati e una corrispondente, drastica, riduzione delle negoziazioni bilaterali Over the Counter (OTC): ancora all’inizio del 2014, rappresentavano circa il 72% degli scambi complessivi registrati sul TTF (Title Transfer Facility) per scendere a poco più del 60% alla fine del 2018 e a circa il 48% alla fine del 2021 (fonte Commissione Europea).
Tra gli hub il TTF è divenuto il mercato principale ed il più liquido in Europa (in cui si scambia più di 14 volte la quantità di gas utilizzata nei Paesi Bassi, fonte Gasunie), spesso fungendo anche da proxy dei prezzi per il più ampio mercato europeo delle importazioni di GNL (gas naturale liquefatto). Si tratta di un sistema che registra la consegna del gas scambiato all’interno della rete olandese, il cosiddetto “gas in entrata” (ovvero dopo l’importazione, la rigassificazione e l’iniezione nel sistema di gasdotti dell’UE). Il TTF beneficia degli investimenti in gasdotti che il paese ha realizzato all’inizio degli anni 2000, che consentono un flusso bidirezionale di gas. Anche la posizione geografica (vicino a Francia e Germania) ha giocato a suo vantaggio e ha contribuito alla crescita dell’intero sistema. Se il mercato sia più o meno efficiente è questione molto controversa che non ha ricevuto al momento, per quanto ci risulti, un’analisi compiuta. Quello che certamente risalta è la sua accentuata volatilità. Un’analisi sui dati disponibili mostra come la volatilità dei prezzi del gas (misurata dal prodotto tra la deviazione standard dei prezzi in un determinato anno e la radice quadrata nel numero di giorni per cui si registrano negoziazioni in borsa) ha raggiunto valori molto elevati: circa il 425% per il TTF e a circa il 362% per il PSV (Punto di Scambio Virtuale, l’hub italiano) mentre è soltanto dell’86% per il Brent (si veda Tabella 1).
Tabella 1: Volatilità media degli indici (valori percentuali)
Lo sviluppo del mercato ha portato a modificare le regole di indicizzazione: gli scambi indicizzati non più alle quotazioni del Brent, che effettivamente non rappresentavano i fondamentali del mercato del gas, ma alle quotazioni spot del gas sono gradualmente cresciuti nel corso degli anni ed oggi rappresentano la quota di gran lunga prevalente (circa l’80% contro il 15% del 2005, fonte Commissione Europea). D’altra parte, ciò ha aperto alla possibilità che gli incrementi dei prezzi sul mercato spot si trasferissero sui contratti a lungo termine, in una qualche misura alterandone la natura (che tra le caratteristiche include anche la protezione dalla volatilità dei prezzi).
In conclusione, la politica seguita dall’UE si è caratterizzata per una sorta di disaccoppiamento tra politiche di liberalizzazione concordate e attuate a livello comunitario e le prospettive strategiche (quali paesi fornitori, quali infrastrutture) lasciate alle politiche nazionali, o meglio a quelle nazioni (Germania e Francia ma anche Spagna) che sul piano della forza erano in grado di definirle piuttosto che di accodarsi (Italia). E quando le questioni strategiche di collocazione internazionale, della Germania in primis ma anche dell’Italia, sono divenute conflittuali a seguito della crisi ucraina (con i primi chiari segnali già nel 2014 con l’invasione della Crimea) è emersa la contraddizione tra una Commissione storicamente liberalizzatrice (dove poteva) e il mercantilismo di alcuni governi che hanno miopicamente continuato in questa politica fino all’invasione del febbraio scorso.
Cosa si stia facendo e cosa si potrebbe fare, in questa situazione, sarà l’oggetto del nostro prossimo articolo.