ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 205/2023

18 Dicembre 2023

Come giudicare la politica monetaria della Lagarde?

Claudio Gnesutta riflette sulla politica monetaria restrittiva della Bce; considera ingiustificati i timori del ripetersi della rincorsa prezzi-salari degli anni ’70 per i mutati rapporti sul mercato del lavoro; suggerisce che una politica monetaria che prospetta una “stagflazione moderata” sia inadeguata alla ristrutturazione produttiva e sociale oggi necessaria; ritiene pertanto miopi le scelte monetarie e fiscali europee per il loro impatto sulle prospettive produttive e per i contraccolpi sulla stabilità sociale.

Christine Lagarde ha comunicato, nella conferenza stampa del 26 ottobre, che i “tassi di interesse di riferimento della Bce [dovranno collocarsi] su livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al conseguimento [dell’obiettivo del 2% a medio termine]” precisando che l’impegno è di mantenere i tassi “su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario” al fine di debellare qualsiasi aspettativa in grado di attivare una crescita fuori controllo dei prezzi.

Sull’inflazione degli anni 2021-22 che ha interessato le economie del mondo occidentale un’esposizione sistematica ed esauriente la offrono i contributi del libro curato da Mario Pianta (L’inflazione in Italia. Cause, conseguenze e politiche, 2023) e da essi prendo lo spunto per riflettere su quali giustificazioni possa avere una restrizione monetaria da protrarre “per tutto il tempo necessario”. Tanto più che, a ottobre, il tasso annualizzato dell’inflazione nell’area euro era già sceso – secondo di dati della stessa Bce – al 2,9%, un livello non molto distante dal 2% che è il suo obiettivo canonico. La giustificazione fornita inizialmente che la restrizione era necessaria per evitare il ripetersi di una rincorsa prezzi-salari-prezzi quale quella sperimentata negli anni Settanta, non appare accettabile (forse nemmeno per la banca centrale) per cui occorre considerare se vi sono, e quali, altre motivazioni.

L’infondatezza dei timori di una rincorsa prezzi-salari, …Una spirale “prezzi-salari” analoga a quella degli anni ’70 non è oggi ipotizzabile perché il rapporto tra le parti sociali, lavoratori e imprese, non è quello di quel periodo. Negli anni Settanta, il conflitto distributivo non va ridotto a quello tra salari e profitti industriali; infatti, si deve tener conto del ruolo svolto dallo Stato nel gestire un possibile compromesso tra crescita produttiva e sviluppo sociale. Le rivendicazioni dei lavoratori, ordinate e sostenute dalle organizzazioni sindacali e politiche, non si limitavano ai miglioramenti salariali, ma miravano alla trasformazione dell’organizzazione della fabbrica e della società: è stata la stagione delle riforme (sanità, scuola, diritti civili e Statuto dei lavoratori) all’interno di una possibile politica dei redditi, con una convinta adesione del mondo del lavoro e di larghi strati della popolazione. Non un fatto “individuale”, ma un’azione collettiva che impegnava le istituzioni pubbliche nel rinnovamento sociale e civile.

Una realtà, sociale e istituzionalizzata, che era alla base della resistenza del lavoro organizzato per non essere l’unico soggetto a subire il costo della crisi, sia degli shock petroliferi esterni sia della riconversione produttiva interna. La rottura di questa realtà avviene alla fine degli anni settanta con il prevalere di sistemi di relazioni industriali e di profili professionali più individualistici e più aderenti agli interessi del nuovo ceto medio urbano, degli occupati nel settore dei servizi e delle nuove tipologie di lavoro autonomo. Sotto la pressione della stagnazione dei decenni successivi, della riconversione tecnologica e della nuova articolazione della società, gli interessi all’interno del mondo del lavoro si divaricano con il formarsi di un “mercato” del lavoro nel quale si accentuano le disuguaglianze tra settori, ceti e gruppi sociali; ne risulta fortemente ridotta la forza contrattuale dei lavoratori.

Non si intende affermare che non esista oggi un conflitto distributivo, ma solo che i modi e i soggetti che lo determinano sono diversi rispetto a quel periodo. Manifestare il timore che, con l’attuale mercato del lavoro, si possa attivare, allo scattare dell’inflazione, un recupero dei salari nella forma sperimentata negli anni dell’alta inflazione significa non aver compreso la profonda trasformazione che ha subito la capacità di risposta e di resistenza dei lavoratori alla compressione del loro reddito reale e alla crescita della precarizzazione delle loro condizioni di lavoro.

… mentre andrebbero considerati altri e più importanti fattori di instabilità reali e monetarie …Se richiamarsi al conflitto distributivo degli anni Settanta non appare appropriato per comprendere l’attuale instabilità dei prezzi, altri aspetti di quella vicenda possono risultare di qualche interesse per interpretare l’attuale squilibrio macroeconomico. A questo riguardo, vanno ricordate almeno due altre instabilità che hanno caratterizzato quel periodo: la pressione a livello mondiale per una ristrutturazione produttiva (in particolare, per i paesi produttori di manufatti a causa della crisi energetica) e la crisi dell’ordine monetario internazionale (è il periodo della crisi del dollaro e del crollo di Bretton Woods) (F. Vicarelli, in Bancaria, 1975; G. Ciccarone e C. Gnesutta, Conflitto di strategie, 1993). Per comprendere un fenomeno macroeconomico, quali sono le “alte inflazioni”, non si possano trascurare le modalità con le quali sono stati affrontati gli squilibri “reali” che le hanno determinate; la soluzione, o non-soluzione, dell’instabilità dei prezzi non va ricercata nelle più visibili dinamiche monetarie, ma nei meno manifesti andamenti dell’accumulazione, dei profitti e dei salari. Basti pensare come la restrizione monetaria degli anni ʹ80 abbia avuto conseguenze produttive e sociali di lungo periodo, evidenti nell’emergere di un diverso modello di accumulazione, quello neoliberista dell’attuale economia globale.

Non è certo l’estrapolazione meccanica di quell’esperienza a permetterci di comprendere la situazione odierna. Ma essa offre indicazioni preziose per interpretare sia l’attuale fiammata inflazionistica, sia i tempi e le forme del suo percorso di aggiustamento. In effetti, non sono oggi assenti situazioni che impongono, a livello globale, una ridefinizione degli apparati produttivi delle singole aree mondiali, e dei singoli paesi, al fine di una loro migliore collocazione internazionale. Vari e noti sono gli eventi che possono avere un tale impatto; una lista esemplificativa comprende il Covid, la riconversione ecologica, la guerra in Ucraina, la ridefinizione dell’impegno bellico, il rincaro delle materie prime, le tensioni geopolitiche (in particolare quella tra Stati Uniti e Cina), la ridefinizione delle politiche industriali (si vedano le politiche di ridelocalizzazione di Biden); sono tutte “novità” – come le proposte per riequilibrare il sistema monetario internazionale segnalate dai Brics di Johannesburg – che impongono una trasformazione del modello di globalizzazione degli ultimi decenni. Per quanto vi siano valutazioni che il fenomeno inflazionistico sia prossimo a esaurirsi, le instabilità elencate segnalano invece che le tensioni sui prezzi possano permanere a lungo nell’adattamento delle singole economie a una differente divisione internazionale del lavoro.

In questo quadro internazionale, l’impegno delle imprese per realizzare i cospicui investimenti di riconversione necessari a ripristinare condizioni “normali” di profittabilità è tanto più pesante quanto meno è favorita la possibilità di utilizzare la flessibilità verso l’alto del prezzo del loro prodotto e quanto meno è contenuta la flessibilità verso l’alto del costo del lavoro. Si comprende allora la pressione sulle banche centrali di ridefinire, dall’attuale 2% al 4%, il loro obiettivo del controllo monetario, in modo che tempi più brevi per l’aggiustamento monetario permettano tempi più lunghi per l’aggiustamento reale. Allungando il processo inflazionistico (da profitti) la politica monetaria offrirebbe il necessario “lubrificante” per una più rapida realizzazione (o speranza di realizzazione) di un assetto produttivo e sociale adeguato alla nuova situazione internazionale. Questa impostazione sarebbe la base utilizzata per giustificare l’azione di politica monetaria tesa a tenere sotto controllo, per tutto il tempo necessario, il costo del lavoro e le spinte redistributive del welfare. Ma, come nel passato, lo sbocco prevedibile di tale politica è la stagflazione, ancorché “moderata”.

… che, potenzialmente accentuati da regole fiscali più restrittive di quelle in vigore…

In questo contesto, la pressione destabilizzante della “politica europea” guidata dalla Germania rischia di aumentare se, alle prospettive indotte dalla politica della Lagarde, si aggiungono gli effetti altrettanto restrittivi che si avrebbero quale conseguenza dell’introduzione di regole fiscali più restrittive di quelle in vigore.  Nel clima di “stagflazione moderata” risulta rafforzato l’aspetto di stagnazione produttiva accentuando la “vulnerabilità” dell’Europa (D. Guarascio et al., Between a rock and a hard place. Long-term drivers of EU structural vulnerability, 2023). I processi di ristrutturazione produttiva e sociale per superare gli shock esogeni e i riaggiustamenti endogeni avranno intensità diversa nelle diverse zone anche per i diversi margini di finanziamento (pubblico e privato) di cui potranno usufruire; una divaricazione crescente tra i paesi europei a scapito di quelli a più alto debito pubblico, tra cui l’Italia.

Ma un secondo aspetto va esaminato. Esso si ricollega all’attenzione che è stata dedicata all’impatto settoriale dello shock seguito all’aumento del prezzo del gas; un aumento dei costi di produzione che ha colpito inizialmente i settori più dipendenti da tale materia prima e che si è poi propagato negli altri settori, spingendo verso l’alto i loro prezzi con un’intensità diversa a seconda della loro situazione strutturale, ovvero di come di essi si confrontano con la resistenza al contenimento del costo del lavoro, con il potere di contrattazione negli scambi intersettoriali, con l’andamento della propria domanda(F. Vicarelli, in Metroeconomica,1984; J. Stiglitz e I. Regmi, in Industrial and Corporate Change, 2023). L’effetto può essere ben diverso nei vari settori a seconda del loro grado di competitività; è presumibile un discrimine tra settori manifatturieri e settori produttori di servizi al consumo, e un distinto processo di aggiustamento tra chi ha una minore e chi ha una maggiore capacità di recupero del proprio margine di profitto. In presenza di tale discrimine i prezzi dei beni al consumo si avvantaggiano su quelli manifatturieri, ma l’aumentato costo della vita, e la pressione per un recupero salariale, non ha un peso identico nei due settori. Le tensioni con il lavoro organizzato sindacalmente sarà maggiore nel settore manifatturiero e sarà maggiore l’incentivo a innovazioni tecnologiche, nonostante le difficoltà di finanziamento e l’incertezza sulla domanda futura, dirette a risparmiare sul costo del lavoro. Ci si deve aspettare un contenimento dell’occupazione, con presumibile espulsione delle fasce più anziane dei lavoratori ed ampliamento della disponibilità di lavoro meno garantito di cui si avvantaggiano i settori meno esposti a concorrenza. Diminuisce la capacità competitiva del paese, si estende la precarizzazione del lavoro, si allargano le disuguaglianze sociali; si approfondisce un processo in atto da tempo nella nostra società (V. Cirillo et al., in Il Mulino, 2022)

… rendono asfittico lo spazio della politica economica italiana. Nel caso la politica economica non veda la drammaticità di questo quadro e non intenda, o non sia in grado di, modificarlo per rilanciare, in un’ottica di medio-lungo periodo, un diverso modello di sviluppo economico e crescita civile, le sue decisioni non possono che autolimitarsi ad amministrare le ricadute del costo della crisi e dei suoi riaggiustamenti ricorrendo a una politica di sussidi, ristori e concessioni particolaristiche, ovvero una politica dei redditi che insegue il consenso all’attuale modello politico e sociale; una politica che, in una realtà sociale frantumata in un ampio spettro di ceti, categorie e interessi, non può che accentuare precarietà e disuguaglianze lungo la traiettoria di ulteriore frammentazione sociale e declino civile. (Autor et al., in Quarterly Journal of Economics, 2014; Walker, in Quarterly Journal of Economics, 2013) oppure per i libri (van Parijs e Vanderborght, Il reddito di base, 2017.

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