ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 205/2023

18 Dicembre 2023

La Legge di Bilancio 2024 e il grigio futuro delle pensioni

Ezio Cigna descrive e valuta le misure in ambito previdenziale introdotte dalla Legge di Bilancio per il 2024. Cigna evidenzia, in particolare, come, nonostante i tanti annunci passati di superamento della riforma del 2011 da parte dei membri dell’attuale esecutivo, la Legge di Bilancio inasprisce le possibilità di pensionamento anticipato. Inoltre, non presta alcuna attenzione al problema riguardante l’adeguatezza delle future pensioni di coloro che oggi sono “giovani”.

 Siamo alle porte della prossima legge di Bilancio, e dopo mesi di particolare ottimismo, in cui si era arrivati a parlare dell’ Italia come “locomotiva d’Europa”, la NADEF prima e la legge di Bilancio poi ci hanno riportato a una realtà diversa. 

La stima del PIL per il 2023 è stata rivista al ribasso (+0,8%) rispetto a quanto previsto nel DEF di aprile scorso. Lo stesso è accaduto per la stima del PIL per il 2024 ma la crescita prevista (+1,2%) appare eccessiva rispetto alle previsioni più recenti della Commissione UE.

In ambito previdenziale, nonostante i continui slogan e proclami di una riforma del sistema e del superamento della Legge Monti-Fornero, le misure messe in campo lasciano di fatto in sospeso molte partite chiave per il futuro del nostro sistema previdenziale, ad iniziare da quella riguardante le giovani generazioni.

Vengono strozzate misure che negli ultimi anni avevano provato, seppur timidamente a delineare percorsi di flessibilità in uscita e ad attenuare quella legge del 2011 così frequentemente richiamata da tutti i Governi, ma che, a distanza di 12 anni, è ancora in vigore e che appare destinata a inasprirsi nel 2024. 

Entrando nel merito delle singole misure, valutiamo in primis le misure di flessibilità previste per il prossimo anno.

La proroga per il solo 2024 di “quota 103” – 62 anni di età e 41 di contributi – dovrebbe coinvolgere una platea molto ridotta, esclusivamente di uomini, visto che le donne che raggiungeranno “quota 103” nel 2024 hanno già maturato il requisito di opzione donna che era previsto fino al 31/12/2021 (almeno 35 anni di contributi e 58 di età).

Al contrario di quanto previsto per “quota 103” nel corso del 2023, per coloro che perfezioneranno il requisito nel 2024, il calcolo sarà effettuato esclusivamente con il sistema contributivo e le finestre di accesso al pensionamento vengono differite di qualche mese: 7 per i lavoratori del settore privato e 9 per quelli del settore pubblico. Viene confermato il tetto massimo al trattamento pensionistico, ma ridotto da 5 a 4 volte il trattamento minimo previsto nel 2023, pari a circa 2.272 euro lorde. 

Viene infine prorogato l’incentivo al posticipo del pensionamento – il cosiddetto bonus Maroni – a coloro che, pur avendo maturato i requisiti per la pensione anticipata con “quota 103”, scelgano di proseguire l’attività lavorativa rinunciando all’accredito contributivo relativo ai contributi a proprio carico. Si tratta di una misura che altera la logica interna del sistema previdenziale e che rischia di determinare differenze tra i lavoratori. Infatti, il sistema obbligatorio si basa sul meccanismo della ripartizione per il quale i contributi dei lavoratori di oggi vengono impiegati per pagare le pensioni attuali; il sistema quindi poggia su un patto tra le diverse generazioni – attivi e pensionati. Con l’incentivo al posticipo del pensionamento attraverso il versamento della contribuzione in busta paga, questo patto si indebolisce e vengono introdotte deroghe pericolose anche per la sostenibilità del sistema previdenziale.

Viene prevista la proroga dell’APE sociale fino al 31 dicembre 2024, modificando il requisito anagrafico, che aveva caratterizzato il diritto a questa prestazione sin dal 2017, innalzandolo da 63 anni a 63 anni e 5 mesi, escludendo di fatto tutti coloro che sono nati dopo il 1/8/1961. Rimane confermato il requisito contributivo che può variare da 30 a 36 anni a seconda delle ulteriori condizioni previste dalla normativa (disoccupati, caregiver, invalidi, lavori gravosi). Secondo la relazione tecnica che accompagna la legge di bilancio sono solo 12 mila le persone interessate a questa misura per il prossimo anno, un terzo in meno del flusso ordinario che annualmente accedeva a questa prestazione.

Viene ulteriormente peggiorata “opzione donna”, i cui requisiti d’accesso erano già stati fortemente inaspriti lo scorso anno: il requisito anagrafico viene innalzato da 60 a 61 anni con 35 anni di contribuzione e vengono confermate le condizionalità previste lo scorso anno, che hanno fortemente ridotto la platea delle lavoratrici potenzialmente beneficiarie. Più precisamente, potranno infatti accedere a questa tipologia di trattamento pensionistico solo le lavoratrici caregivers e invalide almeno al 74% che abbiano maturato, al 31/12/2023, 35 anni di contribuzione e un’età anagrafica di 61 anni se senza figli, 60 anni se con 1 figlio, 59 anni se con 2 o più figli. Potranno inoltre accedervi le lavoratrici licenziate o dipendenti da aziende in crisi, che abbiano perfezionato 35 anni di contribuzione e 59 anni di età, indipendentemente dal numero dei figli. Questa misura, così ridimensionata, non potrà che determinare un numero esiguo di pensioni liquidate, difficilmente superiore a qualche centinaio.

Per i giovani o, meglio, per tutti coloro che hanno contribuzione solo dopo il 1/1/1996 – e, quindi, riceveranno una pensione calcolata interamente con il metodo contributivo –, viene inasprito il requisito della soglia minima per il pensionamento anticipato nel sistema contributivo previsto per coloro che hanno raggiunto 20 anni di contributi e 64 anni di età. Viene infatti innalzata la soglia minima mensile dalle attuali 2,8 a 3 volte l’assegno sociale (circa 1.600€). Si allontana così la possibilità di accedere a questo trattamento pensionistico, soprattutto in una situazione come la nostra dove il lavoro è sempre più povero e i giovani devono sempre più fare i conti con discontinuità e precarietà. Sarà, dunque pressoché impossibile, per la maggioranza dei lavoratori, poter accedere a questa tipologia di trattamento pensionistico anticipato.

Parallelamente all’intervento sopra richiamato, si prevede che si possa accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni con 20 anni di contribuzione, con l’abbassamento dell’importo soglia da raggiungere da 1,5 a 1 volta l’assegno sociale – misura sicuramente positiva, ma praticamente obbligata, considerando che la pensione sociale, per chi non raggiunge alcun diritto alla pensione ed ha determinate condizioni reddituali, scatta a 67 anni.

Inoltre, all’interno dello schema contributivo vengono introdotti ulteriori requisiti peggiorativi a partire dall’inserimento di una finestra d’uscita trimestrale e di un tetto massimo di pagamento del trattamento pensionistico pari a 5 volte il trattamento minimo (€ 2.976 euro nel 2024), fino al compimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia ordinaria. Anche il requisito contributivo dei 20 anni verrà legato all’incremento dell’attesa di vita.

Una delle norme con cui si riesce a fare cassa sulla previdenza è quella relativa alla revisione delle aliquote di rendimento per alcune gestioni previdenziali dei lavoratori pubblici. Dal 1/1/2024, verranno riviste le aliquote di rendimento pensionistico contenute nella Tabella A della legge n. 965/1965 per le gestioni pensionistiche ex Inpdap di medici, infermieri, dipendenti degli enti locali, insegnanti e ufficiali giudiziari (iscritti alle casse Cpdel, Cps, Cpi) e della Tabella A della legge n.16/1986 per la gestione degli ufficiali giudiziari (Cpug). Tale revisione riguarda coloro che hanno, nel sistema retributivo, un’anzianità contributiva inferiore a 15 anni e determinerà tagli importanti sulla quota retributiva della pensione che potranno raggiungere il 20%. Introdurre questa modifica significa intervenire su posizioni contributive già consolidate, sulle quali molti dipendenti pubblici hanno, negli anni, fatto scelte di vita e di natura previdenziale pagando riscatti o ricongiunzioni, scelte che oggi verrebbero stravolte dalla modifica. Questa norma, sulla quale si addensano forti dubbi di incostituzionalità, riguarderà più di 700 mila lavoratrici e lavoratori pubblici che si pensioneranno nei prossimi anni e consentirà il recupero di diversi miliardi.

Questo intervento è stato senza dubbio tra i più discussi in queste settimane tanto che il Governo ha presentato un emendamento che limiterebbe l’applicazione delle nuove aliquote solo ai trattamenti pensionistici anticipati e non alle pensioni di vecchiaia. Le deroghe introdotte, come quella riguardante solo medici e infermieri, determineranno importanti differenze tra le lavoratrici e tra i lavoratori pubblici. Le deroghe, peraltro, non potranno riguardare i lavoratori in condizioni specifiche, ad esempio quelli che si trovano in isopensione (art. 92 del 2012), che correranno il rischio concreto di trovarsi con una pensione ridotta e senza la possibilità di rientrare sul posto di lavoro. 

Sul fronte della rivalutazione dei trattamenti pensionistici, dopo il taglio operato sull’indicizzazione lo scorso anno (3,5 miliardi di risparmi nel 2023, 17 miliardi nel triennio), viene confermato tale meccanismo e le relative aliquote, con un ulteriore abbassamento della percentuale di rivalutazione dal 32 al 22% per le pensioni di importo superiori a 10 volte il trattamento minimo. Ricordiamo che l’intervento sull’indicizzazione agisce sui trattamenti pensionistici superiori a 4 volte il trattamento minimo – pensioni di poco superiori alle 1.600 € nette che sicuramente non possiamo definire ricche. Le perdite per effetto della mancata rivalutazione si trascineranno negli anni e non saranno più recuperabili in futuro.

Un’attenzione specifica merita l’intenzione del Governo di affidare ad una Commissione che, sentito il Cnel, dovrà occuparsi della revisione del meccanismo di indicizzazione a partire dal 2027, sostituendo l’attuale indice di perequazione legato all’inflazione con il deflatore Pil. Un confronto dei due indici dal 2020 al 2023 determina una differenza di oltre 6 punti percentuali: 9,2 %, per il deflatore Pil nel triennio e 15,6% per l’indice di perequazione. Laddove si modificasse il tipo di indicizzazione si otterrebbe, dunque, un’ulteriore riduzione del valore reale delle pensioni in essere.

Le scelte del Governo in ambito previdenziale ci consegnano, quindi, un sistema totalmente ingessato, non danno alcuna risposta sul futuro previdenziale dei giovani, di chi svolge lavori gravosi e, soprattutto, delle donne, che hanno pagato il prezzo più salato delle “riforme” degli ultimi 15 anni. 

Proprio dai giovani bisognerebbe invece partire, con misure adeguate in grado di contrastare la precarietà, che sta condannando le nuove generazioni a un presente ben poco dignitoso e a un futuro da pensionati poveri. Questo dovrebbe diventare un obiettivo di tutti, obbligatorio anche per la tenuta futura del sistema previdenziale, ma spesso la politica è interessata ed attenta ad altro.

Schede e storico autori