ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 205/2023

18 Dicembre 2023

L’idea di un socialismo liberale*

Bo Rothstein argomenta che liberalismo e socialismo, erroneamente contrapposti, possono essere riconciliati. Riferendosi a Carlo Rosselli e Gustav Möller che poco meno di un secolo fa, in Italia e Svezia, si impegnarono a elaborare una posizione liberal-socialista, Rothstein sostiene che è essenziale riconoscere il diritto dei lavoratori a partecipare al governo dell’ Impresa e che questo consente di affermare, come fece Rosselli, che il socialismo rappresenta l’idea di libertà del liberalismo portata al suo logico compimento.

Per la stragrande maggioranza, liberalismo e socialismo sono tra loro opposti ideologicamente e politicamente. Il socialismo è considerato sinonimo di controllo statale della società, di proprietà statale e di pianificazione centrale della produzione anziché di allocazione attraverso il mercato. Per la maggior parte delle persone, invece, il liberalismo è sinonimo di autodeterminazione dell’individuo, primato del mercato e Stato limitato.

I socialisti ritengono generalmente che i liberali siano insensibili alle disuguaglianze che l’economia di mercato genera e che attribuiscano troppa responsabilità all’individuo quando si tratta di affrontare i problemi sociali. I liberali, invece, ritengono che i socialisti sottovalutino i pericoli di un eccessivo potere statale, non prestino sufficiente attenzione ai diritti degli individui e ignorino la propensione alla crescita dell’economia di mercato.

Carlo Rosselli. Storicamente, tuttavia, alcuni pensatori politici hanno sfidato e cercato di superare questa contrapposizione. Uno di questi è Carlo Rosselli, che già nel 1929 lanciò il concetto di socialismo liberale.

Rosselli, che proveniva da una ricca famiglia ebraica, si iscrisse presto al Partito Socialista Italiano. Sviluppò la sua critica al determinismo marxista dopo che la lotta di classe portata avanti dal partito nel 1919-20 – nel mezzo di una massiccia ondata di scioperi che furono causa di molta violenza e di molte occupazioni di fabbriche – portò il Paese a una situazione vicina alla guerra civile, dalla quale uscirono trionfatori i fascisti di Benito Mussolini.

Rosselli abbandonò una promettente carriera accademica per unirsi al movimento antifascista e, dopo aver aiutato alcuni militanti a fuggire, fu detenuto in un campo di prigionia a Lipari, dove scrisse in segreto il suo unico libro, Il socialismo liberaleTradotto e pubblicato in inglese nel 1994, questo libro critica il partito per aver ignorato il fatto che la classe operaia era in minoranza e per aver dato alle forze reazionarie le motivazioni per quelle azioni politiche illegali che hanno portato alla vittoria del fascismo. Secondo il noto filosofo politico italiano Noberto Bobbio, Il socialismo liberale divenne il “libretto rosso” per lui e per molti altri del movimento di resistenza degli anni Trenta.

Rosselli sosteneva che la lotta per il socialismo doveva essere inquadrata nella democrazia e nello Stato di diritto: la difesa dei diritti dell’individuo da parte del liberalismo era la base etica del socialismo. Condannò la dittatura instaurata dai comunisti russi e la fissazione di Vladimir Lenin per l’esercizio burocratico del potere, a cui oppose un’economia basata sul decentramento e sulle cooperative autonome locali.

Egli criticò la strategia “classe contro classe” della Terza Internazionale sotto Josef Stalin, che accomunava i socialdemocratici (chiamati “socialfascisti”) al nemico, rendendo impossibile l’unità contro il fascismo. Invece della collettivizzazione forzata dell’agricoltura e della dittatura monopartitica di Stalin, Rosselli sosteneva riforme sociali strutturali che avrebbero aumentato la libertà individuale nella società civile.

Dopo più di due anni di prigionia, Rosselli riuscì a fuggire in Francia, dove creò il movimento “Giustizia e Libertà”, che ebbe un ruolo importante nell’opposizione al fascismo. Nel giugno 1937, insieme al fratello Nello, fu assassinato dai fascisti francesi nella località termale di Bagnoles-de-l’Orne. Le indagini giudiziarie del dopoguerra dimostrarono che con ogni probabilità l’omicidio era avvenuto per conto di Mussolini. I funerali dei due fratelli a Parigi si trasformarono in una grande manifestazione antifascista, con oltre 100.000 partecipanti.

Gustav Möller. In Svezia, un originale pensatore liberalsocialista fu Gustav Möller. Leggendario politico socialdemocratico della “seconda generazione”, fu ministro degli Affari sociali dall’inizio degli anni Trenta al 1951 e pose le fondamenta dello Stato sociale universale svedese.

Come Rosselli, Möller provava orrore per gli effetti della politica di classe massimalista e rivoluzionaria, ai suoi occhi esemplificata dalla guerra civile in Finlandia, in cui il numero di morti, con le dovute proporzioni, fu almeno pari a quello della guerra civile spagnola del 1936-39. Nel 1918, Möller fu inviato in Finlandia dal partito socialdemocratico come uno dei tre mediatori. Incontrando i leader dei socialdemocratici finlandesi, criticò aspramente le violenze e gli abusi commessi dai rossi, sostenendo che ciò significava che essi non avevano la “forza morale” per contrastare la reazione borghese. I suoi interlocutori, tuttavia, rifiutarono le proposte di mediazione e scelsero di continuare la guerra di classe, che si concluse con un’amara sconfitta.

Möller trasse le stesse conclusioni di Rosselli dai conflitti di classe dell’Italia di allora: il movimento socialista non doveva allontanarsi di un millimetro dalla democrazia parlamentare e dallo Stato di diritto. Giunse anche alla conclusione che non era possibile costruire una strategia socialista contando solo sulla classe operaia, perché essa non era, né sarebbe diventata, maggioranza. Al contrario, la parte socialista avrebbe dovuto cercare alleanze più ampie, come fecero i socialdemocratici svedesi con i contadini negli anni ’30 e successivamente con la classe media.

Möller era anche molto critico nei confronti della preferenza dei comunisti per un socialismo inteso come nazionalizzazione della produzione. In un famoso discorso al Congresso dei lavoratori scandinavi a Copenaghen nel 1920, a proposito del rapporto dello Stato con le imprese private, disse: “Non c’è dubbio che quando realizzeremo questi grandi piani, dovremo anche risolvere il problema della burocrazia. Non serve a nulla creare uno Stato in cui i funzionari pubblici seduti nei loro uffici dirigono e controllano la produzione. Dobbiamo trovare altre soluzioni”.

La sua principale idea era che la produzione fosse portata avanti da aziende autonome e autogestite, nei cui consigli di amministrazione dovevano sedere  i dipendenti, i consumatori e i rappresentanti di interessi sociali più ampi. L’intera responsabilità per lo sviluppo della produzione sarebbe spettata all’azienda stessa“, non a un organismo centrale di pianificazione.

Sebbene la carriera politica di Möller sia stata molto più lunga di quella di Rosselli e il suo partito sia stato al potere, non molto della sua visione di un socialismo fondato sull’autogoverno delle imprese si realizzò, anche a causa della depressione economica e della guerra. Nel 1944 i socialdemocratici adottarono un nuovo programma ma Möller criticò aspramente quella che considerò una diluizione dell’ordine socialista. Nel 1946, perse, con piccolo margine, le elezioni per la leadership del partito; la vittoria andò a una generazione più giovane che mise da parte il socialismo a favore di un forte stato sociale.

Tuttavia, in questo caso prevalse lo scetticismo liberale di Möller nei confronti del governo centrale e dell’esercizio dell’autorità statale. Il sistema di assicurazione sanitaria da lui lanciato sarebbe stato gestito da casse mutue sanitarie elette a livello locale e l’assicurazione contro la disoccupazione da casse sindacali. Anche per offrire sostegno finanziario alle piccole imprese negli anni ’30, Möller si affidò alle associazioni imprenditoriali regionali piuttosto che all’Ente Nazionale per il Commercio. Si potrebbero aggiungere molti altri esempi del suo impegno a non fare ricorso alla mano forte del potere burocratico statale.

Proprietà = controllo? C’è qualcosa oggi che corrisponde all’unione di liberalismo e socialismo nello spirito “Möller-Rosselli”? Se per socialismo si intende limitare o addirittura eliminare il potere di chi ha la proprietà del capitale sulla produzione, allora sì: in molti Paesi, sempre più imprese sono di proprietà e/o controllate da coloro che vi lavorano.

Come ha dimostrato [M12] l’economista americano David Ellerman, sia il marxismo che il capitalismo si fondano sull’idea errata che la proprietà del capitale sia ciò che in un’economia di mercato dà potere nella sfera della produzione. Il capitale assume (cioè impiega) manodopera e i proprietari del capitale controllano l’azienda. Ma in un’economia di mercato i lavoratori possono affittare (cioè prendere in prestito) il capitale necessario all’azienda e quindi sono loro ad avere il potere nella produzione. Non è quindi la proprietà del capitale in sé a determinare le relazioni di potere all’interno di un’azienda, ma il modo in cui viene costruito il “contratto di affitto” tra capitale e lavoro – chi assume chi o cosa. Questa teoria contrattuale del potere stravolge ciò che sia la destra che la sinistra pensano del potere e del capitale.

È sorprendente che più di un secolo di pensiero socialista non abbia affrontato l’idea che i proprietari dei “mezzi di produzione” hanno il diritto di comando nei “rapporti di produzione”. La nazionalizzazione, la pianificazione centrale e, in Svezia, il progetto (fallito) dei “fondi per i salariati” non hanno messo in discussione questo principio su cui si basa il capitalismo: la proprietà del capitale dovrebbe dare ai proprietari – siano essi singoli magnati, istituzioni finanziarie, pianificatori centrali o leader sindacali – il diritto di comando nel processo produttivo. In effetti, questo è un bell’esempio di ciò che Antonio Gramsci chiamava “egemonia” borghese.

Due dei più autorevoli teorici della democrazia liberale, Robert Dahl e John Rawls, hanno assunto posizioni simili a quelle di Rosselli e Möller. In John Rawls: Reticent Socialist, William Edmundson mostra che negli ultimi scritti di Rawls non sosteneva più la sua precedente idea che il “capitalismo del benessere” fosse compatibile con le sue note idee di giustizia sociale. Al contrario, egli indicava come prerequisiti il “socialismo liberale” e/o la “democrazia proprietaria”. Per quanto riguarda Dahl, nel suo libro del 1989 Democracy and its Critics si riferiva esplicitamente a Ellerman, sostenendo che non c’era motivo per cui i liberali dovessero astenersi dal perseguire la democrazia anche nella sfera lavorativa[M15] .

Le aziende possedute o gestite dai dipendenti attraverso un processo democratico sono state studiate per quattro decenni: conseguono ottimi risultati finanziari, pagano stipendi più alti ed è maggiore il numero di dipendenti soddisfatti. Inoltre, esse contrastano la crescente disuguaglianza economica offrendo ai dipendenti una quota del rendimento del capitale, spesso sotto forma di pensioni più elevate.

Paradossalmente, queste aziende sono molto più comuni negli Stati Uniti “supercapitalisti” e nella Gran Bretagna a controllo conservatore che nella Svezia socialdemocratica. Ciò è dovuto alla legislazione che consente ai dipendenti, tramite una fondazione, di acquistare la propria azienda con i suoi profitti futuri come garanzia finanziaria. I Programmi di Azionariato dei Dipendenti (ESOP) non richiedono quindi che i dipendenti rischino il proprio denaro quando rilevano l’azienda. Negli Stati Uniti e ora anche nel Regno Unito, questo processo è facilitato da norme fiscali favorevoli e da opportunità di accesso a prestiti governativi.

È interessante notare che questa democrazia economica attraverso la proprietà della forza lavoro è sostenuta sia dai Repubblicani che dai Democratici, un’affermazione significativa dell’egemonia gramsciana sul versante dei progressisti. Quasi dieci milioni di dipendenti lavorano oggi in 7.000 aziende di questo tipo negli Stati Uniti, di cui più di 4.000 hanno il fondo ESOP come proprietario di maggioranza. Una politica simile è stata introdotta nel Regno Unito nel 2014 e più di 500.000 dipendenti lavorano ora in circa 1.700 società EOB (Employment Ownership Business). Questo tipo di “socialismo liberale” sembra più comune nelle aziende ad alta tecnologia, dove la risorsa più importante non è il capitale fornito dai proprietari, ma piuttosto la competenza, la creatività e l’impegno dei dipendenti.

Prendere sul serio la democrazia. Dal punto di vista politico, il socialismo liberale si differenzia dal liberalismo standard perché prende sul serio la disuguaglianza economica e la democrazia economica. Un liberalismo che fosse stato anche socialista avrebbe potuto evitare la disastrosa deviazione neoliberista degli ultimi quattro decenni. Esso si differenzia dalla socialdemocrazia per il fatto che prende sul serio anche il socialismo, inteso come diritto dei lavoratori a governare le proprie aziende. Un tale riconoscimento da parte del movimento socialista nella sua interezza, un secolo fa, avrebbe impedito il suo dirottamento per effetto dell’alleanza del potere statale con la “gestione da parte di un solo uomo”, che Lenin sposava con la stessa passione del sostenitore statunitense del “management scientifico”, Frederick Taylor.

Lungi dall’essere un ossimoro, il socialismo liberale rappresenta una sinergia tra i due grandi filoni politici illuministi, che per troppo tempo hanno corso su binari divergenti, con danno per entrambi. Come sosteneva Rosselli, il socialismo è l’idea di libertà del liberalismo portata al suo logico compimento. 


* Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su Social Europe (www.socialeurope.eu) l’11 dicembre 2023

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