ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 205/2023

18 Dicembre 2023

Decidere, ma senza troppi errori

Enrico d’Elia richiama un teorema vecchio di quasi due secoli e mezzo, proposto da Condorcet, che mostra come i sistemi maggioritari funzionano solo se gli elettori sono abbastanza informati e aspirano tutti al bene comune. In caso contrario è addirittura preferibile seguire le indicazioni della minoranza. L’astensionismo diffuso amplifica questi rischi. Bisognerebbe tenerlo presente quando si discute di riforme elettorali, dei meccanismi decisionali europei e di governance delle imprese.

Ai governi italiani viene spesso rimproverata una eccesiva instabilità (quasi 70 compagini dal 1945 ad oggi), che mina la loro propensione a prendere decisioni coraggiose e lungimiranti. Per ovviare a questo inconveniente, dagli anni novanta in poi sono stati introdotte leggi elettorali maggioritarie e modelli istituzionali (come lo spoil system) che, almeno in teoria, avrebbero dovuto garantire coalizioni governative più coese, dotate di robuste maggioranze parlamentari e che potessero contare su una classe dirigente più collaborativa. L’obiettivo era ed è quello della governabilità considerata essenziale per il buon funzionamento della democrazia. Tuttavia l’esperienza degli ultimi venti anni, dal “mattarellum” del 1993 in poi, non sembra essere stata esaltante (19 governi fino ad ora). Claudio De Fiores, sul Menabò, ricostruisce la nascita e il successo del mito della governabilità. In effetti, ci sono molte ragioni per avere organi decisionali più snelli ed efficienti, sebbene in Italia le attuali procedure legislative barocche abbiano dato vita ad un numero di atti difficile da quantificare esattamente, ma che è un multiplo di quello di qualsiasi altro corpo giuridico occidentale. Tuttavia, come vedremo tra breve, i correttivi maggioritari nelle elezioni generali e nelle prassi parlamentari possono rendere le assemblee decisionali più esposte ad errori e distorsioni sulle scelte collettive.

Le leggi elettorali maggioritarie hanno in comune una caratteristica: condurre a esiti che semplificano fortemente lo spettro delle opinioni degli elettori. Ciò avviene perché assegnano un surplus di voti alla parte che ha ottenuto solo una maggioranza relativa, più o meno ampia. Questo vale sia per i sistemi uninominali, sia per quelli con sbarramento o con un premio al partito o alla coalizione più votati. Con il doppio turno si salva almeno la forma, perché vince necessariamente chi ottiene oltre il 50% dei voti … dopo aver escluso tutti quelli che non sono arrivati al ballottaggio e che, se si unissero, potrebbero rappresentare la vera maggioranza degli elettori. Pertanto le loro decisioni prese da organi rappresentativi formati secondo criteri maggioritari sono legittimate solo da una minoranza, seppure consistente, degli aventi diritto.

Purtroppo le decisioni prese da una minoranza, seppure saggia e illuminata, sono più esposte al rischio di essere sbagliate. Lo dimostra il teorema sulle giurie formulato quasi 250 anni fa da Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet, che implica, tra l’altro, che ci si può affidare alle decisioni di una minoranza solo se i votanti sono poco informati o in mala fede. Questa fiducia nelle minoranze “illuminate”, piuttosto che nelle maggioranze, ricorda una scena di “Caro diario”, di Nanni Moretti, nel quale il protagonista afferma che si troverà d’accordo quasi sempre con una minoranza delle persone, anche in una società migliore di quella attuale (ovvero più consapevole e orientata al bene comune, per usare le categorie di Condorcet).

Il teorema sulle giurie di Condorcet è meno noto del suo inquietante paradosso del voto, che mostra come l’esito di una votazione può essere diverso a seconda dell’ordine in cui le diverse opzioni vengono sottoposte al voto dell’assemblea. Eppure la sua analisi del funzionamento di una giuria è altrettanto illuminante e, in astratto, vale per tutte le decisioni collettive prese mediante una votazione (dall’elezione dei membri di un parlamento alle deliberazioni del consiglio di amministrazione di una impresa). Condorcet parte da presupposti molto ottimistici, ovvero che (1) esista sempre una sola cosa giusta da fare; (2) che tutti i membri della giuria desiderino davvero prendere questa decisione; (3) che i votanti non si influenzino tra loro. Al massimo si può allentare la seconda condizione, concedendo che gli interessi e gli ideali di ciascun votante differiscono sistematicamente tra loro, come avviene spesso nella realtà, ma si distribuiscono attorno ad un unico punto di equilibrio di Nash (cioè che conviene a tutti), cosicché il voto può essere trattato formalmente come il risultato di un esperimento in cui ciascun voto si discosta dalla scelta migliore per motivi casuali. Tuttavia Condorcet non prendeva neanche in considerazione una simile difformità, ed attribuiva i voti “sbagliati” solo alle diverse informazioni e capacità di analisi degli individui. Sotto queste condizioni è possibile dimostrare che per prendere la decisione giusta con un ragionevole livello di sicurezza è necessaria una platea di votanti molto numerosa ed una maggioranza tanto più larga quanto più alta è la dispersione delle opinioni rispetto alla scelta migliore. 

Intuitivamente, il voto può essere visto come il risultato di un sondaggio e quindi, se il campione è abbastanza numeroso, si creerà una maggioranza che mediamente corrisponde alla probabilità che ciascuno ha di fare la scelta migliore (o semplicemente corrispondente ad un equilibrio di Nash), ma con una “forchetta” che è tanto più ampia quanto maggiore è la variabilità delle opinioni. Se la probabilità di sbagliare è inferiore al 50% l’assemblea prenderà quasi sempre la decisione giusta ma, come in tutti i sondaggi, il caso potrebbe giocare brutti scherzi, soprattutto se il numero dei votanti è esiguo. Ad esempio, una giuria composta solo da tre membri, tutti con una probabilità di “errore” del 20%, può adottare la decisione sbagliata a maggioranza semplice se due di essi la votano, e ciò accade nel 20%2 = 4% dei casi. La probabilità che tutti e tre si sbaglino sarebbe invece pari a 20%3 = 0,8%, quindi una maggioranza qualificata (che nel caso di un collegio composto da tre membri coincide con l’unanimità) garantisce un margine di sicurezza molto maggiore sia del giudizio di un singolo (20%), che di una decisione presa maggioranza semplice (4%).

Condorcet sembra ammonire anche chi caldeggia assemblee rappresentative ristrette, con la giustificazione che sarebbero più agili, oltre che meno costose. Infatti, a parità di altre condizioni, la bontà delle scelte delle giurie e dei corpi elettorali cresce proprio col numero di membri, esattamente come avviene in un sondaggio statistico. Ad esempio, nel caso precedente, la maggioranza semplice di una giuria composta da 5 persone prenderebbe la decisione sbagliata a maggioranza semplice (3 contro 2) con una (piccola) probabilità pari al 20%3 = 0,8%; con una maggioranza di 4 su 5 tale probabilità scenderebbe allo 20%4 = 0,16% dei casi e, se fosse richiesta l’unanimità, cadrebbe allo 0,03%. 

Poiché i sistemi maggioritari affidano le decisioni ad una minoranza degli aventi diritto, in base ai risultati di Condorcet, ciò aumenta la probabilità di prendere cantonate, come ricorda il titolo di una raccolta di strisce dei Peanuts, in cui Snoopy si compiace di aver preso 120 decisioni in un solo giorno…tutte sbagliate. Non a caso, le scelte più importanti in qualsiasi condominio, assemblea degli azionisti o legislativa sono prese con una maggioranza qualificata. Ciò non toglie che anche assemblee molto ampie e maggioranze schiaccianti possano sbagliare, come dimostra la salvezza di un delinquente come Barabba e l’elezione a furor di popolo di personaggi pittoreschi e di parecchi dittatori.

Le cose si complicano se la percentuale di “errore” di ciascun votante è superiore al 50%, perché allora, sempre in base al teorema di Condorcet, la maggioranza di qualsiasi assemblea prenderà quasi sempre decisioni sbagliate e quindi conviene affidarsi all’opinione della minoranza, proprio come suggeriva Nanni Moretti, sperando naturalmente che la minoranza sia quella giusta. I sistemi maggioritari sembrano dunque efficienti in due casi diametralmente opposti: quando i margini di errore o le divergenze tra gli elettori sono talmente ridotte che anche una maggioranza risicata (o amplificata da premi e altri vantaggi) garantisce decisioni appropriate; oppure se i votanti hanno una capacità di discernimento così scarsa che è meglio dar retta alla minoranza. Tra questi due estremi è preferibile decidere con maggioranze qualificate. Tutto il contrario della riforma dei sistemi elettorali in senso maggioritario e dell’elezione diretta dei vertici dello stato, che comportano anche la concentrazione del potere decisionale nelle mani di pochi individui, con un conseguente aumento della probabilità di errori.

Condorcet, da buon illuminista, era convinto che la diffusione dei “lumi” avrebbe migliorato le capacità di scelta dei cittadini, quindi escludeva che la probabilità di errori fosse superiore al 50%. Tuttavia, per prudenza, quando un tribunale rivoluzionario lo accusò di tradimento non si fidò troppo delle sue congetture e preferì sfuggire al processo, che una elevata probabilità lo avrebbe portato alla ghigliottina anche se innocente. Catturato e imprigionato, morì lo stesso in carcere (suicida o forse assassinato). Aveva avuto qualche dubbio sull’efficienza delle giurie anche in occasione della sua ammissione alla Académie Française, perché aveva fatto ricorso platealmente all’appoggio del suo protettore D’Alembert per “illuminare” meglio la giuria.

Nella realtà, i casi in cui le decisioni vengono prese direttamente da un’assemblea sono piuttosto rari (p.es. nei referendum) e sono ancora meno frequenti i casi di applicazione di un criterio maggioritario (p.es. nelle assemblee delle società per azione, in cui anche un esiguo pacchetto di maggioranza può governare contando sulla passività della maggior parte dei soci). Il metodo maggioritario è invece comune nella elezione dei membri degli organi rappresentativi, dove non è facile individuare i candidati migliori per tutti. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, Condorcet avrebbe qualcosa da dire, perché il taglio del numero dei votanti dovuto all’astensionismo ed un elettorato mal informato e poco consapevole potrebbe fare scelte sbagliate perfino per rappresentare i propri interessi ed ideali. Il teorema delle giurie torna ad essere rilevante quando, all’interno delle assemblee legislative (comunque elette), le decisioni sono prese, di fatto, dai gruppi dirigenti di ciascuna coalizione (che godono così di un premio di maggioranza implicito), anche grazie alla disciplina di partito assicurata anche da figure come i whip (trad.: frusta!) della tradizione parlamentare anglosassone.

Il teorema delle giurie è stato sottoposto a molte critiche e varie generalizzazioni che ne riducono la portata, ma alcune conclusioni sembrano piuttosto robuste. In particolare, è stato messo in dubbio che esista sempre un’unica scelta migliore per tutti, contrariamente all’approccio TINA (“there is no alternative”). Infatti, nella realtà, i votanti hanno quasi sempre interessi diversi e in contrasto tra loro, e quindi è difficile arrivare ad una scelta che vada bene per l’intera collettività, come argomentato anche dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen. Tuttavia, esiste quasi sempre una soluzione che mette d’accordo tutti, o almeno li scontenta il meno possibile, come ha mostrato Nash.

Si noti che i rischi evidenziati da Condorcet dipendono dall’ampiezza delle assemblee deliberanti e dal grado di consapevolezza e maturità degli elettori, più che dal livello di rappresentatività delle assemblee (che probabilmente è garantita solo dal proporzionale puro). Questi pericoli aumentano se il risultato elettorale (o quello di un’assemblea di soci) dipende, in gran parte, dalla dinamica dell’astensionismo, come documentato anche da Alfio Mastropaolo sul Menabò, perché in questo caso i correttivi maggioritari affidano il potere decisionale, talvolta per un minimo scarto di voti, a minoranze organizzate ma probabilmente poco rappresentative degli interessi comuni. Per lo stesso motivo, il teorema delle giurie suggerisce molta cautela anche nell’adozione del voto plurimo all’interno delle società per azioni, perché il rafforzamento del potere degli azionisti di riferimento, grazie all’equivalente di un consistente premio di maggioranza, può danneggiare gli interessi di quelli di minoranza e della stessa impresa.

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