ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 191/2023

15 Aprile 2023

Exit, voice e le primarie del PD

Eugenio Levi osserva che il recente congresso del PD non ha invertito la tendenza al declino sia del numero dei votanti alle primarie che degli iscritti al partito e avanza un’interpretazione di tale tendenza basata sulle categorie di exit e voice proposte da A. Hirschman. Levi suggerisce che la personalizzazione della politica abbia sistematicamente favorito l’exit rispetto alla voice in quanto ha portato i leader di turno ad accentrare le decisioni e a ridurre gli spazi riservati alla voice delle minoranze interne.

Il 26 febbraio si sono tenute le primarie del Partito Democratico per la scelta del segretario del partito. Hanno partecipato circa un milione e centomila persone e non vi è stata alcuna polemica stereotipata sul voto cammellato al Sud o sui ‘rom’ ai seggi. Anche i tentativi di alcuni quotidiani, invero stavolta piuttosto deboli, di sminuire il voto paventando influenze di elettori di altri partiti, si sono scontrati con i dati delle rilevazioni statistiche all’uscita dei seggi. Insomma, scampato pericolo. E il Partito Democratico ha adesso un rinnovato rapporto con i suoi simpatizzanti e una giovane segretaria donna. Mi sembra, principalmente, una buona notizia per la democrazia italiana, che ritrova il suo principale partito d’opposizione con una leadership ri-legittimata e una nuova linea politica. Come titolato dal New York Times, uno shock positivo.

Potrebbe però essere utile allo stesso Partito Democratico allargare lo sguardo rispetto agli eventi dell’ultimo mese e ai sondaggi delle ultime settimane e inserire le vicende recenti in una prospettiva di più lungo periodo. Alle primarie fondative del 2007 che hanno incoronato Veltroni segretario, si erano presentati circa 3 milioni e mezzo di votanti. Si è passati da quella cifra ai 3 milioni del 2009 (Bersani segretario), ai 2 milioni e 800 mila del 2013 (Renzi segretario), al milione e 800 mila del 2017 (sempre Renzi segretario), al milione e 500 mila del 2019 (Zingaretti segretario), al milione e 100 mila di questa tornata. Un calo costante, che non sembrerebbe riconducibile a qualche specifico momento di rottura, nella logica del breve periodo mai ritenuto preoccupante ma, in una logica di lungo periodo, piuttosto impressionante: degli elettori iniziali, ne sono rimasti solo 3 su 10. 

Anche il dato degli iscritti è stato in costante calo dal momento della fondazione del PD. Pur con qualche oscillazione, si è passati dagli 800 mila iscritti del 2009 ai 500 mila del 2012, ai 400 mila del 2016, ai 320 mila del 2021, e, secondo stime non ufficiali riportate da Repubblica, ai circa 200 mila al momento del recente congresso. Insomma, questo congresso non ha frenato il drenaggio negli iscritti né invertito il declino nella partecipazione alle primarie. Forse ha cambiato, in parte, la composizione degli elettori con un aumento del numero dei giovani e delle donne – ce lo diranno i dati nelle prossime settimane – ma il trend complessivo risulta confermato. Dalla nascita del PD, per dirla nei termini di Albert Hirschman, la exit ha prevalso.

Questa exit, sia nella forma di non rinnovo della adesione formale che del non voto alle primarie, segnala senza dubbio insoddisfazione rispetto all’operato della dirigenza del PD. Come segnale di insoddisfazione, dovrebbe teoricamente spingere il partito a reagire per cercare di invertire la rotta reputata insoddisfacente dai suoi simpatizzanti. Hirschman ritiene, però, che in ambito politico la exit svolga una funzione secondaria. Infatti, in sistemi multipartitici, un eccesso di vicinanza del partito stesso a altri partiti tanto quanto una sua lontananza eccessiva rendono la prospettiva della exit non molto efficace come segnale di insoddisfazione. Questo perché il dirigente politico sa bene che l’elettore si indirizzerà verso alternative politiche ‘vicine’  che, peraltro, risulteranno, al momento decisivo delle elezioni, alleate del proprio partito. In assenza di queste alternative, l’elettore tenderà a rimanere fedele al partito per non avvantaggiare gli avversari. Questa dinamica è quella che ha permesso al PD di rimanere al governo per ampi intervalli di tempo negli ultimi 10 anni nonostante il suo declino in termini elettorali e di simpatizzanti. 

Quindi, nonostante la capacità espressiva della exit, il suo spazio di efficacia, nella pratica, appare ridotto. Per Hirschman (M. Franzini, E. Levi, “Exitvoice e declino dei partiti tradizionali in Italia”, Parolechiave, 26(2), 2018) sarebbe preferibile la voice, che lui descrive come capacità di “far perdere il sonno ai dirigenti”. Considerando che sia la Schlein sia Bonaccini rivendicavano una discontinuità con le precedenti segreterie, quel milione di voti che nell’insieme hanno ricevuto si possono considerare una modalità di espressione della voice. Eppure nel Partito Democratico la exit ha sempre prevalso, da ultimo anche in queste primarie, e questo nonostante la sua natura subottimale. Come si spiega questo apparente paradosso? Hirschman, su questo, tace, non da ultimo perché la sua analisi aveva per oggetto gli anni ’60, in cui il problema era opposto rispetto a quello attuale, cioè ri-accogliere nell’alveo democratico sacche di radicalismo serpeggianti nella società.

Per spiegare questo apparente paradosso, si può ipotizzare che la personalizzazione della politica, per le dinamiche che ha impresso alla vita dei partiti, abbia nel corso degli anni spinto i simpatizzanti del PD prevalentemente verso la exit. Aggiungeremo un ulteriore motivo, sempre preso da Hirschman, che giustifica perché la exit non abbia aiutato un inversione di rotta: la lealtà degli aderenti.

Il punto di partenza di questa analisi è un fatto ben noto: la personalizzazione della politica. Da circa 30 anni, infatti, si vota il leader piuttosto che il partito. Molti studiosi, ormai da anni, parlano di “democrazia del pubblico” (B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Calmann-Lévy, 1995) e, anche nelle recenti analisi sui partiti populisti, la figura del leader risulta centrale (B. Moffitt, The global rise of populism: Performance, political style, and representation, Stanford University Press, 2016; I. Diamanti e M. Lazar, Popolocrazia, Laterza, 2018). 

Il capo politico di un partito si propone direttamente ai suoi elettori e li mobilita permanentemente con la comunicazione politica. La sua personalità diventa un tutt’uno, spesso fino al punto di sostituirla, con la linea politica che propone. In questa logica, ad esempio, Elly Schlein viene votata non tanto per le proposte che ha presentato e per la visione politica che incarna, quanto perché è donna, giovane, nuova, fresca, intelligente, di sinistra, ecc. In sintesi, una simbologia collegata al profilo personale e a quello che essa promette in termini di ribaltamento di significato rispetto all’esistente più che una linea politica. In tutti i partiti, questo accentramento di significato nella figura del leader non è risultato neutro rispetto alle forme di partecipazione, organizzazione e decisione interna ai partiti stessi. 

Infatti, nella logica di questa personalizzazione, sono stati numerosi, negli ultimi anni, i tentativi da parte dei leader di ridurre la voice interna per apparire più forti di fronte agli elettori e avere le mani più libere sulle alleanze e sulla formazione delle liste. Esempi lampanti in questi anni sono stati il Rosatellum con le sue liste bloccate e la chiusura dei quotidiani di riferimento, non sostituiti da equivalenti strumenti digitali. Inoltre, vi sono stati molti esempi di exit di minoranze interne, spesso velatamente incoraggiate dai leader di turno, senza contare il proliferare di liste civiche che ne sono l’equivalente nelle elezioni locali.

 Sia l’exit delle minoranze interne che le liste civiche svolgono una funzione utile per il leader nell’epoca della personalizzazione della politica, perché offrono alternative vicine su cui canalizzare lo scontento e. allo stesso tempo, allontanano i membri del partito più inclini alla voice. Un altro indicatore in questo senso è il numero esagerato di componenti gli organi direttivi dei partiti. Nel PD, ad esempio, sappiamo che fino allo scorso congresso la Direzione politica aveva 217 membri e l’assemblea circa 2.000. Decisamente troppi perché il dibattito in quelle sedi potesse essere poco più di una vetrina. Le decisioni sono state prese sempre più dal leader insieme alle correnti politiche alleate piuttosto che dagli organismi collegiali, che, in realtà, non hanno svolto neanche più una funzione di controllo: in questo senso, la voice delle minoranze interne che arrivava al leader tramite la rappresentanza negli organismi dirigenti è stata del tutto sostituita dalle elezioni primarie. Il problema è che le primarie stesse sono state più momenti di scelta e legittimazione della leadership che non occasioni di confronto sulle idee. Al fondo, probabilmente, si è affermata la convinzione nel PD che un rapporto non mediato con gli elettori, che passi attraverso gli strumenti social e la televisione, sia oggi più efficace di uno mediato da una faticosa struttura di partito. Rimangono, come residuo di voice, le sporadiche dichiarazioni degli esponenti della minoranza sui quotidiani o nei social media, per quanto anche esse, per l’immagine negativa che offrono del dibattito interno al partito, potrebbero aver accentuato l’exit dei simpatizzanti.

Questo spiega cosa abbia provocato un eccesso di exit nel PD rispetto alla voice, ma spiega solo parzialmente perché l’exit stessa sia rimasta inefficace. Abbiamo già affrontato il tema della inefficacia in relazione alle possibili alternative elettorali. Esiste anche un’altra spiegazione, più indiretta: la presenza di un ampio bacino di aderenti estremamente leali. Hirschman ha sostenuto che quando la decadenza raggiunge livelli molto elevati gli aderenti più leali, che nel partito hanno effettuato consistenti investimenti, possono iniziare a temere che il loro abbandono provochi un ulteriore peggioramento e perciò possono astenersi dal praticare l’exit, che così rallenterebbe. 

Più esplicitamente, essi possono temere che l’ulteriore perdita di consensi porti il proprio partito, già in declino, alla scomparsa con vantaggi, almeno nel breve periodo, degli avversari politici. L’ipotesi che vi sia un ampio bacino di aderenti leali appare realistica nel caso dei partiti politici e del PD. Peraltro, lo stesso Hirschman osserva che molti aderenti leali possono essere, in realtà, opportunisti che mirano a ottenere benefici diretti dalla leadership del partito. Se il numero di aderenti leali è alto, la exit sarà più debole e più debole sarà anche l’incentivo dei dirigenti a reagire; di conseguenza il declino si aggraverà e diventerà persistente. Dunque, un comportamento ragionevole da parte degli aderenti potrebbe contribuire al declino dei partiti.

In conclusione, tiriamo tutti un sospiro di sollievo per i risultati delle primarie, ma ricordiamo che il tema di fondo per il PD e non solo, riaffermato dalle primarie stesse, è ricostruire le condizioni per la voice, provando in primis ad abbattere il leaderismo e poi a riaprire spazi di elaborazione collettiva. Per il momento, i primi segnali della nuova segreteria non vanno in questa direzione. La Direzione nazionale del PD sotto la segreteria di Elly Schlein è passata da 217 a 175 membri: decisamente ancora troppi perché la voice possa ricostituirsi efficacemente in quella sede. La Segreteria politica a 20 membri non sembra poter supplire, soprattutto in ragione della sua scarsa rappresentatività in termini di pluralismo interno al partito. Basti notare, a questo proposito, che la minoranza può contare solo su 5 membri e che alcune mozioni politiche, fra cui quella che al congresso sosteneva Gianni Cuperlo, non esprimono alcuna rappresentanza in quella sede. Non da ultimo, le modalità con cui è stata costituita – su nomina diretta della Segretaria previa consultazione con le correnti e senza legittimazione dalla Direzione politica – e con cui è stata annunciata – attraverso una diretta social – non depongono a favore di un ripensamento nella direzione di una minore personalizzazione della politica.

Ricordiamo, infine, che per Hirschman voice non è pura protesta o mobilitazione, quanto possibilità di esprimere pubblicamente in forma dialogica le criticità individuate nel proprio partito di riferimento e avere la possibilità di coordinarsi con altri per esprimere un punto di vista rigenerativo. Per Hirschman, la voice è l’atto creativo di chi è impegnato nella politica (e del consumatore nel mercato) ed è l’unico modo per non disperdere un capitale.

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