Il 16 marzo, con il disegno di legge delega, ha preso forma la riforma fiscale del governo Meloni. In questo testo sono contenuti i principi generali a cui dovranno far riferimento tutti i decreti delegati necessari per realizzare la riforma.
Tra i punti principali affrontati dal disegno di legge delega vi è il cambiamento della struttura delle aliquote dell’Irpef. In cinque anni è previsto, infatti, il superamento della tassazione per scaglioni e la sua sostituzione con una tassazione ad aliquota unica. La riforma prevede inoltre la diminuzione dell’Ires per le imprese che scelgono di investire, la sostituzione dell’Irap con una sovraimposta sui profitti, la rimodulazione di alcuni meccanismi dell’IVA e delle imposte sui consumi e la semplificazione dei sistemi sanzionatori.
All’articolo 5 del disegno di legge delega, tra i principi generali individuati dal governo, troviamo il perseguimento dell’equità orizzontale tra i contribuenti. A tal fine vi sono alcune specifiche prescrizioni. Tra queste, ci si preoccupa, ad esempio, della disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti e pensionati in relazione alle detrazioni per fonte di reddito concesse, auspicandone un allineamento. Per eliminare l’attuale disparità di trattamento tra lavoratore autonomo – a cui è consentito di portare in deduzione i costi sostenuti per la propria attività – e lavoratore dipendente, si prospetta la possibilità per il lavoratore dipendente di fruire della deduzione (anche in misura forfettaria) delle spese sostenute per la produzione del reddito, come ad esempio le spese di trasporto. Si prevede anche di inserire nel reddito complessivo rilevante ai fini delle detrazioni per fonte di reddito anche i redditi soggetti a tassazione sostitutiva dell’Irpef, escludendo però i redditi di natura finanziaria. Ciò permetterebbe di non discriminare i contribuenti in base ad alcune tipologie di reddito.
Tuttavia, la delega conferma di voler mantenere l’attuale distinzione tra redditi da lavoro autonomo e redditi da lavoro dipendente. I primi sono infatti tassati al 15% sotto una data soglia di fatturato e ai secondi è applicata la tassazione ordinaria Irpef. Inoltre, è prevista anche l’implementazione di una flat tax sugli incrementi di reddito. Quest’ultima opzione è curiosamente presentata come una di quelle favoriscono l’equità orizzontale. È possibile mostrare come l’equità orizzontale venga palesemente violata sia nel caso della flat tax per gli autonomi, che nel caso della flat tax incrementale.
L’iniquità orizzontale con la flat tax per gli autonomi. Consideriamo un soggetto che ha un reddito da lavoro autonomo che consegue un fatturato al netto dei contributi sotto gli 85.000 euro (l’ultima Legge di Bilancio ha portato la soglia per applicazione dell’aliquota unica per i lavoratori autonomi al 15% da 65.000 a 85.000 euro). Questi paga un’imposta del 15% sul suo reddito al netto dei contributi (5% se nei primi cinque anni di attività). Ciò vuol dire ad esempio che un professionista con un fatturato di 80 mila euro all’anno, a cui, applicando l’attuale coefficiente di redditività (78 per cento) previsto dalla legge, corrisponde un reddito di 62.400 euro, viene tassato con un’aliquota del 15%. Un lavoratore dipendente con lo stesso reddito al netto dei contributi è invece tassato applicando al suo reddito le aliquote dei vari scaglioni di reddito Irpef. Il lavoratore autonomo con la flat tax al 15% pagherebbe un’imposta di 9360 euro, mentre il lavoratore dipendente pagherebbe circa 18.000 euro. Ovvero il 29% del suo reddito contro il 15% del lavoratore autonomo.
L’osservazione che viene spesso fatta di fronte a questi numeri è che i lavoratori autonomi pagano tutti i contributi previdenziali, mentre i lavoratori dipendenti pagano normalmente il 10% circa dei contributi previdenziali e il resto è a carico del datore di lavoro. Questo è vero ma, in un mercato dove c’è un ragionevole livello di concorrenza, un’impresa è disposta a pagare una remunerazione lorda al lavoratore autonomo più elevata di quella del lavoratore dipendente, visto che nel primo caso non paga i contributi, che sono tutti a carico del lavoratore e nel secondo caso invece paga il 75% dei contributi e il restante 25% è pagato dal lavoratore. Alla fine, dopo che vengono pagati i contributi, la retribuzione netta del lavoro è pressoché identica nei due casi.
L’unica soluzione a questo conflitto tra lavoro autonomo e lavoro dipendente prospettata dalla legge delega, che comunque avrebbe luogo a fine legislatura, consiste nella estensione della flat tax a tutti i contribuenti. Ma veramente è credibile pensare che l’Italia potrà avere un’imposta sul reddito delle persone fisiche con un’aliquota al 15% per tutti i contribuenti, comprensiva di detrazioni o deduzioni?
Se sì, bisognerebbe però anche dire dove si intende trovare le risorse: un sistema del genere è stato mostrato essere finanziariamente insostenibile (Baldini e Rizzo, 2018). La proposta avanzata dalla Lega, infatti, produrrebbe una diminuzione del gettito Irpef di 58 miliardi. Si noti che uno degli argomenti a favore dell’introduzione della flat tax con un’aliquota molto più bassa di quelle oggi in vigore sugli scaglioni più alti è che farebbe emergere base imponibile finora nascosta da evasione o elusione. La relazione annuale sull’evasione del ministero dell’Economia e Finanze stima una perdita di gettito Irpef da evasione di circa 38 miliardi. Nell’ipotesi più rosea in cui si potessero recuperare tutti, mancherebbero ancora 20 miliardi. La crescita, quindi, di base imponibile complessiva che garantirebbe un gettito pari a quello odierno dovrebbe essere del 45 per cento, una variazione impossibile nel giro di pochi anni.
L’iniquità orizzontale della flat tax incrementale. Nella delega si propone l’introduzione della flat tax incrementale per i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti. Questa dovrebbe beneficiare molto i lavoratori dipendenti, visto che alla gran parte degli autonomi è stata concessa la flat tax al 15%. Secondo quanto dice la delega se un lavoratore dipendente nel 2022 guadagna 32.000 euro e nel 2023 il suo stipendio lordo diventa 33.000, nel 2023 verrà tassato con il sistema attuale di scaglioni Irpef su 32.000 euro e con un’unica aliquota al 15% su 1.000 euro. È stato a suo tempo dichiarato dal viceministro Leo che questo tipo di tassazione rappresenta “uno stimolo, temporaneo ancorché decisivo, ad alzarsi dal divano, a darsi da fare […]”. Verifichiamo con due esempi numerici qual è il risparmio di imposta implicato dall’applicazione della flat tax incrementale che stimolerebbe i lavoratori ad aumentare i propri redditi.
Utilizziamo i dati ISTAT relativi alle retribuzioni contrattuali dei dipendenti nella Pubblica Amministrazione, che sono più di 3,2 milioni, e che nell’immaginario collettivo sono quelli più accusati di “prendersela comoda”. Consideriamo le retribuzioni contrattuali medie del 2021 di dirigenti e impiegati e applichiamo l’imposta incrementale alle due categorie. Il reddito medio per un dirigente pubblico nel 2021 è di 69.000 euro, mentre per un impiegato è di 28.000 euro. Prudenzialmente, ipotizziamo nel 2022 un incremento di reddito pari alla media degli ultimi tre anni, che corrisponde a 1.250 euro per il dirigente e a100 euro per l’impiegato. L’Irpef netta calcolata con l’attuale sistema nel 2022 sui redditi incrementati risulta per il dirigente di 21.358 euro e per l’impiegato di 4.754 euro. Nel 2022 applicando il 15% all’incremento di reddito annuale, il dirigente paga 21.008 euro e l’impiegato paga 4.734 euro. Troviamo quindi per il dirigente una diminuzione di imposta di 350 euro e per l’impiegato una diminuzione di imposta di 20 euro. Si registra quindi una esigua diminuzione della pressione fiscale sul dirigente pari a 0,5 punti percentuali e ancor più esigua sull’impiegato, pari a 0,07 punti percentuali. Si tratta di risparmi di imposta molto contenuti, tanto che francamente si fatica a pensare che possano incentivare comportamenti finalizzati ad incrementare il reddito del contribuente.
Curiosamente, nella delega, la flat tax incrementale è indicata come uno strumento che persegue l’equità orizzontale, tuttavia questa sarebbe in realtà violata. Infatti, due individui che hanno lo stesso reddito complessivo, ma uno ha avuto un aumento di reddito e l’altro no, sarebbero trattati in modo differente. Ad esempio, ipotizziamo un lavoratore dipendente con un reddito imponibile di 30.000 euro, sia nel primo anno, che nel secondo anno, ed un altro lavoratore dipendente con un reddito imponibile di 25.000 euro nel primo anno e di 30.000 nel secondo. Nel secondo anno entrambi i contribuenti avrebbero un reddito identico, ma il primo pagherebbe 5400 euro di Irpef e il secondo 4580 euro. Questa differenza di trattamento è ancora più ingiustificata se si pensa al fatto che l’aumento di reddito, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, potrebbe essere dovuto semplicemente al fatto che vi sono alcune categorie a cui è stato rinnovato il contratto di lavoro collettivo e ad altre no.
Le iniquità analizzate devono essere seriamente affrontate dai decreti delegati che seguiranno la legge delega, se si vuole realmente rispettare il principio ribadito nella stessa legge di equità orizzontale: ovvero, soggetti che guadagnano lo stesso ammontare di reddito devono essere trattati in modo uguale a prescindere dalla natura dei loro redditi.