ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 191/2023

15 Aprile 2023

Nelle Mani del Signore 

Di ritorno in Italia per le feste, Fabio Calè si accorge che Berlusconi è in terapia intensiva. Un suo amico medico, impegnato in un famoso ospedale capitolino, gli mostra un diario, riemerso dagli archivi di neurochirurgia e risalente al 2013, firmato da un inglese sconosciuto, apparentemente cresciuto in Italia e non digiuno di politica. E’ il racconto in presa diretta di un ricovero post-elettorale, nel contesto di un’Italia ancora berlusconiana e già populista, con una sinistra in disfacimento che pure sta per inaugurare un ciclo di governo, e una sanità pubblica che a modo suo funziona.

Di ritorno in Italia per le feste, ormai abituato al fatto che da qualche anno e per qualche anno ancora ogni settimana muore un pezzo di infanzia, poi adolescenza, ora gioventù, mi sono accorto molto tardi che un vero pezzo da novanta era finito in terapia intensiva, e il paese tutto trepidava nell’attesa dell’ennesimo miracolo o dell’ultimo saluto. E se 86 anni possono sembrare molti, s’ha da tenere a mente che gliene erano stati pronosticati 120. 

Ad ogni modo, parlandone con un amico medico impegnato in un famoso ospedale capitolino, viene fuori che proprio quella mattina gli era stato consegnato un diario, riemerso casualmente dagli archivi di neurochirurgia e risalente a dieci anni fa, firmato da un inglese sconosciuto, apparentemente cresciuto in Italia e non digiuno di politica. E’ pubblicato qui nella sua forma originale, con appena qualche taglio delle parti più sconnesse. E’ il racconto in presa diretta di un ricovero post-elettorale, nel contesto di un’Italia ancora berlusconiana e già populista, con una sinistra in disfacimento che pure sta per inaugurare un lungo ciclo di governo, e una sanità pubblica che a modo suo funziona.

Al momento della pubblicazione Berlusconi è ancora ricoverato, pare in condizioni stabili. Va da sè che gli si augura il meglio, fino ai 120 previsti e oltre; così come si augura all’autore misterioso di questo diario di non doversi sottoporre nuovamente a un intervento neurochirurgico, o almeno di non essere identificato. 

John Wilkinson jr

Nelle mani del Signore

Ciò che imparai nel Paese Reale: non desiderare il posto-letto d’altri e non nominare invano l’assistente del Primario. 

Lunedì 25 febbraio 2013, seggi chiusi.

E’ successo nel giro di pochi minuti. Il tempo di rendersi conto che quelle prime proiezioni sul Senato non erano uno scherzo o un errore e mi squilla il cellulare: è il policlinico Siamesi, c’è un posto-letto libero; sette giorni di ricovero e intervento, ma ho pochi minuti per decidere, e devo farmi ricoverare entro sera. Prendo tempo, penso alle alternative che dovevo considerare proprio dopo le elezioni, sapendo di avere sei mesi in lista d’attesa, e mi decido. Fattori che mi inducono a superare inutili tremori: recuperare tempo, visto che compio 40 anni tra un mese; la fatale coincidenza tra il ricovero e la sconfitta incombente. 

Il policlinico Siamesi non è un ospedale qualunque, non per me né per molti altri. E’ l’ospedale dei Papi, poiché fa un tutt’uno con la pia università. Io ci sono nato, mio padre ci è morto, e ci ho pure lavorato, come fixer di un network americano, ai tempi dell’agonia di Giovanni Paolo II. E ora che il suo successore si è dimesso, devo entrarci per il primo intervento della mia fin qui indubbiamente fortunata carriera sanitaria.

Terzo piano, ala N. Sono le nove, è tardi, non so nulla a parte il nome del dottore, ma presumo di dovermi recare al reparto di Neurochirurgia. E invece: Otorino-laringo-iatria Degenze. Non può essere. Faccio un giro, comincio a perdermi, torno alla base e domando informazioni alle infermiere. Vengo spedito al Pronto Soccorso, che mi respinge al mittente; l’infermiera si altera e prova a rimandarmi lì, poi telefona a qualcuno e mi invia al piano 11, Solventi 3. Mi spiega che sarò appoggiato lì per stanotte, poi reintegrato nel reparto di Otorino-laringo feat. Neurochirurgia spinale non appena possibile. Solventi 3 sta in Ginecologia disfunzionale, è qui che la mia ernia cervicale estrusa sul midollo dovrebbe trovare la sua prima accoglienza in vista della rimozione definitiva, ma l’infermiera non la pensa così e s’incazza quasi fossi responsabile di tutte le incongruenze della struttura. D’altra parte io, ormai in confusione, dico cose inutili o controproducenti e ometto informazioni essenziali. Mi scarica a Solventi 5, dove, tra decine di poster di neo-cittadini italiani felicemente ignari del debito pubblico, mi dicono gentilmente che quello di sicuro non è il posto per me, ma mi aiutano a tornare da Miss Solventi 3 con argomenti definitivi. 

Stanza singola con bagno, grande e pulita, fronte terrazzo dall’altro lato del corridoio, praticamente un fumoir privato con vista su Roma: mi illudo per un attimo di finire in un buco nero della burocrazia e non essere più trasferito dall’attico. 

Martedì.

Mi sveglio con il prelievo del sangue; poche ore mattutine di libertà, poi si comincia davvero. L’infermiere, simpatico ma di poche parole, apprezza la mia battuta sulla singola con bagno signorile e terrazzatissima e mi preannuncia sobriamente che siamo diretti verso “un altro mondo”: trasferimento alla casella di partenza, piano 3 ala N, stanza doppia, piccola ma con bagno, reparto trafficato. 

Il mio compagno di stanza si chiama G. Viene da Acerra, fa l’autotrasportatore. Somiglia parecchio a qualcuno, ma non riesco a individuare con precisione chi tra Checco Zalone, Adriano Celentano e Antonio Conte. L’infermiera è molto gentile, e mi assicura che la mia esigenza di avere dei permessi giornalieri per motivi di lavoro sarà rappresentata appena possibile al dottore, lo stesso che me ne aveva promessi a volontà. C’è la televisione, ed è sintonizzata su Canale5. Capirò presto che l’unica alternativa seriamente considerata da G. è Rai1. Ho trascorso la mia brava adolescenza nel segno di Italia1 e di una più generale teledipendenza, ma sono due decenni che non pratico e per me è come un incontro ravvicinato del terzo tipo. 

Poche ore dopo entra il prete, e il tutto assume l’aspetto di un disegno preciso. E’ un francescano pugliese – facile associarlo al padre Pio di Corrado Guzzanti, molto ingrassato e rubicondo, con naso aquilino e gote paffute; mi appare quasi distorto, come uno di quei personaggi di Elio Petri inquadrati da sotto. Sembra allegro, tarato su visite rapide, ma incuriosito non appena s’accorge che siamo destinati ad interventi neuro-chirurgici complessi. S’informa, anche perché G. gli fa capire che desidera davvero conforto, e fa il suo per tranquillizzarci: 

“Siete in ottime mani!”. 

G.: “Eh sì, padre, siamo nelle mani del Signore.”

“No no, siete nelle mani del Primario… cioè sì, certo, anche del Signore, ma vi assicuro che qui sono veramente bravissimi. Quant’è che aspetti figliolo?”

G. “Da Ottobre, Padre, quando ho fatto la visita privata.”

“Da Ottobre? E non hai cercato una scorciatoia?”

G. “…no Padre, non vorrei mai prendere il posto di un altro…”

“… ma non si tratta di questo… guarda che sto parlando di una cosa legalissima!”

G. “Padre, forse domani mi operano. Potrebbe confessarmi?”

“Ma no, stai tranquillo, cosa vai a pensare, c’è tempo, c’è tempo…”

G. “Padre, la prego, mi confessi.”

A quel punto, commosso da G. e convinto di aver capito più cose sul cattolicesimo in quei tre minuti che in mezza vita, intervengo io: “Padre, posso uscire se desiderate un po’ di privacy, non c’è problema.” Il prete è spiazzato, G. ringrazia e mi avvio, accompagnato da una frase che certifica il ritorno di ciascuno ai propri doveri: “Grazie figliolo, accosta la porta.”

Mi telefona l’amico F., ancora ignaro del ricovero, notizia che ritarda di poco il vero oggetto della conversazione: analisi del voto, soprattutto locale. I sottopanza dei signori delle preferenze hanno preso esattamente gli stessi voti dei loro padroni, mentre il partito ne perde a centinaia di migliaia. La scommessa dell’amico M., candidato contro i consiglieri uscenti, si giocava sulla speranza che la trasfusione di preferenze, con meno potere e tanta crisi, non riuscisse: persa.

Più tardi giunge il momento dell’ElettroCardioGramma, il secondo dei tre esami che giustificano un ricovero pre-operatorio destinato a durare 10 giorni, poi la cena. G. è fermamente determinato a vedere Il Camorrista, fiction di cui ignoravo l’esistenza, ma ha sbagliato giorno: su Canale 5 c’è Baarìa, che tra l’altro non ho visto. G. russa che è un piacere.

Mercoledì

Solo oggi, quando scopro che qui al piano 3, a differenza del piano 11, il caffè non te lo danno, capisco che il nome Solventi non è riferito alla chimica ma al conto in banca. Un nuovo dottore, un giovane meridionale magro, laconico e di pelo rosso, mi pone le stesse domande cui ho già risposto la sera prima, come dovrebbe risultare dalla cartellina che si porta appresso. Già che ci sono, ribadisco anche a lui la necessità di permessi per uscire, per impegni lavorativi ormai trapassati, e ricevo le solite assicurazioni.

“Bersani è morto, MORTO!”. E’ Grillo che parla, citato da un TG che interrompe la mia prima esperienza integrale di UnoMattina. G., cui non voglio chiedere cosa ha votato per non rovinarmi la sorpresa, ride. 

Poco dopo entra un infermiere, cerca me: “Lastra al torace, andiamo? Scusi la fretta, ma abbiamo un piccolo inconveniente per cui dobbiamo fare più toraci possibili entro le 15.” Non sarò io a negare il mio torace alla causa, anche perché, essendo l’ultimo esame di cui sono a conoscenza, riprende vigore la speranza di un permesso. Nel tragitto leggo un volantino che annuncia un evento di musica e poesia, allestito nella hall del Policlinico per quel pomeriggio, con Danilo Rea al pianoforte e Valerio Magrelli e altri poeti al microfono. Lastra al torace, concerto jazz e reading di poesia: cosa potrei volere di più? 

Telefonata dell’amico R., consapevole del ricovero, sull’analisi, anzi sulla reazione, al voto. La sua è lievemente emotiva: vuole occupare la federazione finchè non si dimettono tutti. Appena ne esco, propongo il concerto a G. e a sua moglie T., presenza fissa da mezzogiorno alle 18 ma non invadente, che gentilmente rifiutano, rapiti da La Vita in Diretta. E’ bello, il concerto, ma non fino al punto di costituire una giustificazione plausibile al fatto che mi commuovo. Torno in stanza, accolto dagli applausi del primo quiz della serata. Il modem portatile 2G che un cinico venditore ha rifilato a mia madre al posto delle care vecchie chiavette “che tanto ormai quasi non si fanno più” non funziona. Faccio avanti e indietro con il piano 11, sormontato da una rampa di scale che conduce alla cabina di pilotaggio dell’ascensore e dunque all’isolamento necessario per fumare. Mi telefona l’amica C., ignara del ricovero, per parlare delle elezioni. Quasi tutti i suoi amici, in particolare gli artisti, hanno votato Grillo. Pur sapendo di suscitarle un rigurgito di bile e ansia, le faccio presente che nello scenario post-elettorale un governo più o meno simile a quello appena stroncato dagli elettori è quasi inevitabile.

Venerdì.

Autoreclusione interrotta da pranzo con amico sconfitto, rientro in reparto con l’animo sollevato e quasi la sensazione di tornare a casa.

Sabato

Si parla di politica: amici al telefono, dal vivo. Preoccupazioni di G., certezza dell’intervento, firma su lista di morte. Telefonata a sorpresa di M.: l’estrema sinistra bolognese è dalla mia parte, posso annoverare tra i miei sostenitori inconsapevoli, oltre a JPII, anche Marco Ferrando. Non male.

Domenica

Relax, il mio quasi ex-capo al telefono, Napolitano uber alles. Mentre fumo fuori, sotto lo sguardo corrucciato di JPII piegato dal parkinson, vedo avvicinarsi un gruppo di ragazzi: sono volontari, una banda di donatori di abbracci; non riesco a scappare in tempo e non posso rifiutarmi. Ritorno e il corridoio è invaso da preghiere televisive… ma mica? Eh sì, è la mia stanza: sequenza interminabile di avemarie, doccia speciale, 90° minuto, passeggiata ottimista e scaramantica sotto le stelle, molte di più di cinque, con pensieri pro intervento come leva di sviluppo, autorealizzazione, amore per sé e per la vita. 

G. si lamenta, spasmi nervosi allo stomaco, o all’intestino; buscopan, implorazioni a Gesù. Mi scopro cattivo, perché quella sofferenza mi comunica tensione. Cerco di contenermi e nei limiti del possibile di essere d’aiuto, a differenza del personale che non se lo fila di pezza.

Lunedì

La giornata comincia male per G., con l’annuncio dell’assistente: non si erano capiti, o aveva sbagliato lui a non farsi capire. In ogni caso, l’intervento da fare è molto più lungo di quello equivocato, dunque salta, e tra poco passa il professore. G. reagisce con grande civiltà, ma è prostrato: prima l’attacco di gastrite, poi la delusione. Vorrebbe andarsene, adducendo la gastrite come elemento ostativo all’intervento, cerco di calmarlo.

Entra il Professore, è la prima volta che lo vedo. Mi nomina, non si presenta (deve essere una clausola segreta del giuramento d’Ippocrate), mi chiede se ho osservato il digiuno, se ne va seguito dagli assistenti, il primo dei quali si gira e mi scruta, come a saggiare il mio stato d’incazzatura o di sottomissione. Speravo in una scena sordiana, invece il primario ricorda un Aldo Moro invecchiato e silente.

Proseguo nel digiuno previsto, sigarette incluse, e non mi sento benissimo. Rimango barricato a letto per non cadere in tentazione, e l’ora fatidica si avvicina. Poi arriva. Poi passa. Un’ora e mezza dopo arriva la povera assistente: l’intervento lungo si è allungato, salto pure io. Peccato per il pranzo, c’era pollo arrosto. Cerca di giustificare la situazione per prevenire incazzature che non arrivano – io voglio solo catapultarmi a prendere il caffè e fumare. Garantisce che mercoledì sarò il primo in lista, e lo fa davanti a G., che era previsto prima di me. Ormai in confusione, promette di prodigarsi per farmi arrivare il pranzo. Nonostante la compassione indotta dal suo destino di front-office di un ospedale in ginocchio, corro al bar. 

Martedì.

Preparazione all’intervento, visite. T. porta a G. un rosario particolarmente pregiato, poi si gira e mi chiede se sono credente. Rispondo onestamente. “E io te lo regalo lo stesso!”, sicchè mi ritrovo anche io col mio crocifisso, non più escluso, alieno tra normali, ma malato tra i malati. Infatti lo accetto e la ringrazio.

Mercoledì.

Interventi: prima G., poi io. Ma quant’è buono il Valium: avevo ragione sul mio tabù per pasticche e psicofarmaci. Anestesista simpatica ma animalesca nella ricerca di una vena purchessia. Risveglio su barella condotta da amici, assistente con pollice alzato, mi sento fin troppo bene. Dopo un pò mi ricordo le prospettive improbabili ma funeste che ho cercato di rimuovere e reprimere negli ultimi giorni, e sorrido muovendo le gambe; più tardi anche un’erezione spontanea giunge a celebrare il buon esito dell’intervento.

Giovedì.

Non mi sento tanto bene: comincio ad apprezzare il collare, i dolori, e soprattutto la soglia del dolore di G.: troppo bassa per i miei gusti. Mi bombardo di musica separandomi da un mondo reale che non m’appassiona più come prima. 

G. è stravolto: non che prima fosse un leone nell’affrontare la malattia, ma adesso sembra un bambinone abbandonato. Abbandonato ma sincero – sua moglie confida a mia madre che quando si sono sposati lui l’ha avvisata: ti sei presa un figlio. Quando rimaniamo soli, capisco che a me tocca la parte del fratello maggiore. Avevo fatto appena in tempo ad intossicarmi di tv, ed ora più niente perché gli fanno male gli occhi; non posso accendere la luce, dunque leggere per addormentarmi, e infatti non mi addormento. Arriva un nuovo paziente: lettiga che sferraglia nella notte, urla disumane provenienti da non so quale patologia, insostenibili fobie di G. Io che giudicavo scarsa la sua soglia del dolore, non avevo fatto i conti con la mia. Come al solito, oltre una certa quantità di insonnia divento un animale, bestemmio, sbrocco. 

Venerdì

Rientro in me, alleviato dalla prospettiva di uscire il giorno dopo. Mi sento buono, così buono che quando arriva l’amico P. mi butto a chiacchierare di calcio, anche per evitare che si tocchi l’argomento elezioni. 

Rientro e trovo G. leggermente più in forma. Gli dispiace che io vada via: ci siamo affezionati, ha paura di trovarsi con un coinquilino meno socievole. Quando arriva l’infermiera per somministrarci l’antibiotico, il TG1 riporta notizia di un Berlusconi furente, che annuncia la sua manifestazione per la legalità. Mi esce spontaneo un commento: “Beh, proprio la legalità no.” G. concorda, ma l’infermiera interviene: non che lo difenda apertamente, ma rievoca la performance da Santoro, la sedia di Travaglio spolverata col fazzoletto, ride con Silvio e deride Santoro, mi chiede se ho apprezzato. “Assolutamente sì, certo si erano messi d’accordo, ma come al solito lui…” “E’ stato più furbo! Non c’è niente da fare, è il più bravo, non lo batte nessuno.” Rimango silente: dice più o meno le stesse cose che dico io quando lascio le briglie sciolte al mio lato estetizzante, ma ho la sensazione che lei, a differenza di me, lo abbia votato e gli sia riconoscente proprio perché la fa ridere, la intrattiene. E’ anche questo voto di scambio? O sono io a venir meno ai miei doveri, ridendo grazie a lui e non votandolo mai?

Ma non c’è tempo per ragionamenti involuti e impregnati del solito pessimismo antropologico. C’è il Clan dei Camorristi su Canale 5, e G. stasera ha voglia di tirare tardi, come suo figlio e come me. Quando i bambini salutano il figlio del bravo lavoratore assassinato dai camorristi per non avere abbassato lo sguardo di fronte al guappo, e lo riempiono dei loro giocattoli, mi commuovo come ogni bravo telespettatore. 

Schede e storico autori