I temi della crescita delle diseguaglianze e della povertà al lavoro sono sempre più al centro del dibattito pubblico italiano. Sono sicuramente due fenomeni rilevanti alla luce delle evidenze disponibili, ma è utile sottolineare alcune peculiarità di questi problemi.
L’aumento delle diseguaglianze e della povertà da lavoro potrebbero sembrare due falsi miti ad un primo sguardo superficiale, osservando le dinamiche occorse durante l’ultimo decennio tra quei circa 15 milioni di individui che accedono ad almeno un rapporto di lavoro subordinato nel settore privato nel corso dell’anno. La Figura 1 mostra l’andamento dei salari nominali per giornata lavorata in proporzione rispetto al 2006, calcolati come equivalenti a tempo pieno. Questa statistica tiene conto del fatto che alcuni lavoratori sono assunti con contratti part-time ad orario ridotto, e che le giornate lavorate in questi casi possono non essere intere, ma vanno riportate ad un ammontare equivalente a tempo pieno usando appositi coefficienti di trasformazione ricavabili dai dati INPS. Per meglio comprendere anche la dinamica dei salari reali, ho sovrapposto la crescita cumulata del tasso d’inflazione calcolato dall’ISTAT lungo lo stesso arco temporale.
Figura 1: Evoluzione salari giornalieri nominali e prezzi
Questo grafico mostra tre fatti apparentemente in contraddizione con i citati problemi della crescita della povertà da lavoro e delle diseguaglianze. Primo, il salario corrisposto per una giornata di lavoro è cresciuto in modo abbastanza consistente in termini nominali. Secondo, questa crescita è stata più rapida della crescita dei prezzi, quindi i salari per giornata di lavoro sono aumentati anche in termini reali tra il 2006 e il 2021. Terzo, i salari per giornata di lavoro sono aumentati più velocemente nella coda bassa della distribuzione (al 10mo percentile) rispetto alla coda alta (al 90mo percentile). In altre parole, le diseguaglianze nei salari unitari si sono ridotte tra il 2006 e il 2021.
Prima di mostrare come un simile andamento dei salari unitari possa conciliarsi con un problema effettivo di maggiori diseguaglianze e povertà lavorativa, vale la pena approfondire ulteriormente quali sono state le dinamiche di alcune potenziali determinanti delle retribuzioni giornaliere. La Figura 2 sovrappone all’evoluzione dei salari giornalieri l’evoluzione dei salari contrattuali nominali stabiliti nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e l’evoluzione della produttività nominale per giornata lavorata a livello nazionale. La prima serie storica è stata da me ricostruita (cfr. “The Employment Effects of Collective Bargaining,” LaboR working paper 184, 2022) a partire dai CCNL, copre circa il 75% dei salari contrattuali che si applicano ai lavoratori dipendenti del settore privato, ed è calcolata pesando ciascun contratto in base al numero di lavoratori che copre. La seconda serie è invece derivata dall’ISTAT e, essendo calcolata al livello dell’intera economia, tende a sottostimare leggermente l’effettiva produttività del settore privato.
Figura 2: Evoluzione salari contrattuali e produttività nominali
Si può notare dalla Figura 2 che l’andamento dei salari contrattuali segue abbastanza fedelmente quello dei salari giornalieri effettivi. Stabilire se i minimi tabellari abbiano avuto la capacità di influenzare la crescita nei salari effettivi richiede la costruzione di un controfattuale, per verificare se l’aumento degli stipendi osservato a seguito di un rinnovo contrattuale sia superiore a quello che avrebbe altrimenti avuto luogo. Nel mio lavoro prima richiamato, utilizzando la variabilità nelle tempistiche e nell’entità dei rinnovi tra contratti diversi per costruire un’analisi controfattuale, ho mostrato come i salari contrattuali abbiano un’effettiva influenza positiva sui salari giornalieri, con un’elasticità intorno allo 0,4. Utilizzando questo parametro, e ignorando i problemi di parziale copertura del campione dei salari contrattuali rispetto alla popolazione dei lavoratori dipendenti, un calcolo molto approssimativo suggerisce che poco più della metà della crescita dei salari mediani osservata tra il 2006 e il 2018 non si sarebbe verificata senza la crescita dei salari contrattuali. La contrattazione collettiva avrebbe quindi contribuito in modo abbastanza sostanziale alla crescita dei salari effettivi.
L’altro elemento che emerge dalla Figura 2 è che la produttività, durante lo stesso periodo, non è cresciuta in modo altrettanto rapido rispetto ai salari. Dal momento che questo indicatore si può interpretare come la “dimensione della torta” che lavoratori e imprese possono spartirsi, possiamo concludere che la crescita salariale effettiva è stata superiore a quanto ci si sarebbe potuti aspettare osservando la crescita della ricchezza derivante dalla produzione.
Dicevamo all’inizio di questo articolo che l’Italia è afflitta da un problema di diseguaglianze crescenti e povertà lavorativa. Come si conciliano queste tendenze con l’andamento dei salari giornalieri fin qui illustrato? La Figura 3 mostra la crescita dei redditi annuali, misurata sulla stessa popolazione di lavoratori subordinati del settore privato presa in considerazione per il calcolo dei salari giornalieri. Il reddito annuale è semplicemente la somma di quanto si è guadagnato durante l’anno, calcolata senza tener conto di quanto tempo ciascun individuo abbia lavorato. Emerge qui chiaramente come la povertà lavorativa sia aumentata, con un crollo dei redditi annuali reali intorno al 40% al 10mo percentile. Anche le diseguaglianze sono aumentate, non tanto per una crescita nei redditi alti particolarmente marcata (al 90mo percentile l’andamento è stato abbastanza in linea con l’inflazione), quanto piuttosto per il crollo dei redditi nella parte bassa della distribuzione.
Figura 3: Evoluzione redditi annuali e prezzi
Dal raffronto tra la Figura 1 e la Figura 3 emerge chiaramente come le diseguaglianze e la povertà, tra chi accede ad almeno un contratto da dipendente privato nel corso dell’anno, siano un problema di redditi da lavoro complessivi. Il reddito complessivo è composto da due elementi: quanto si guadagna per ogni giornata lavorata, e quante giornate equivalenti a tempo pieno si riescano a lavorare nel corso dell’anno. Chiaramente, il secondo elemento è quello che ha trainato il crollo nei redditi annuali illustrato nella Figura 3. Questa ipotesi è confermata dalla Figura 4, che mostra l’andamento medio delle giornate equivalenti a tempo pieno lavorate per anno, e la stessa media calcolata tra chi si trova nel quartile più povero dei redditi da lavoro annuali. Le giornate lavorate nel corso dell’anno sono diminuite di circa il 10% in media, e di più del 30% nel quartile dei lavoratori più poveri.
Figura 4: Evoluzione giorni di lavoro medi nell’anno
Alla luce di queste evidenze, possiamo concludere che la povertà lavorativa è un problema legato al fatto che la quantità di lavoro subordinato si è andata riducendo, generando rapporti di lavoro più discontinui e una maggiore incidenza di contratti ad orario ridotto. A questo proposito, vale la pena sottolineare che la disoccupazione è cresciuta di 4 punti (con picchi anche maggiori) e che il tasso di disoccupazione giovanile si è sempre attestato ben al di sopra del 20% nel corso degli ultimi 10-15 anni. Inoltre, secondo alcuni studi, la dinamica dei salari contrattuali, generalmente positiva e poco legata alla produttività, avrebbe in parte aggravato le perdite occupazionali, contribuendo addirittura al problema dei bassi redditi (cfr. Boeri, Ichino, Moretti e Posch, “Wage Equalization and Regional Misallocation: Evidence from Italian and German Provinces,” Journal of the European Economic Association, 2021; Fanfani, “The Employment Effects of Collective Bargaining,” LaboR working paper 184, 2022).
Il problema della povertà lavorativa non si può affrontare con una generica retorica che denuncia l’assenza di tutele per i lavoratori, soprattutto se questa retorica viene utilizzata in modo indiscriminato. Chi è riuscito ad accedere ad un contratto di lavoro subordinato ha potuto godere di condizioni economiche che sono leggermente migliorate nel corso del tempo, a dispetto dei periodi di recessione che si sono susseguiti negli ultimi quindici anni. Vi è sicuramente un problema di tutele lavorative, ma questo problema riguarda principalmente chi non riesce ad accedere a lavori continuativi e chi ricade nella cosiddetta “zona grigia” del lavoro atipico o non dichiarato, due categorie che spesso coincidono.
Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che il crollo nelle giornate lavorate dai dipendenti privati sia stato compensato in parte da una crescita nelle giornate non dichiarate e corrisposte fuori dalla busta paga. Inoltre, non si può dimenticare che il mondo del lavoro è composto da tante figure con inquadramenti professionali atipici, come le finte partite IVA, che sono escluse dal sistema di tutele pensato per i lavoratori subordinati. In questo contesto, occorre pensare sia a “come” si possano estendere delle tutele a chi ricade in questa “zona grigia”, ma occorre anche porsi il problema di “quali” tutele si possano effettivamente estendere.
In particolare, occorrerebbe uno sforzo delle parti sociali tradizionalmente più rappresentative per comprendere meglio il fenomeno del lavoro atipico. Ciò può esser fatto solo con un’analisi ed un lavoro di rappresentanza condotto a livello capillare, per arrivare alla formulazione di proposte sindacali innovative, ritagliate su quella che è l’effettiva realtà dei lavoratori atipici, e che puntino a miglioramenti sostenibili, graduali e monitorabili delle loro condizioni.
Non sembra particolarmente efficace adottare un’impostazione soltanto sanzionatoria, soprattutto se ci si limita a proclamare un’ortodossia in base alla quale gli unici contratti di lavoro sono quelli tradizionali, anche se sempre meno diffusi, e in cui si guarda con diffidenza perfino al legislatore laddove tenti di proporre interventi che chiariscano e semplifichino il quadro delle tutele per i lavoratori (si pensi al destino delle leggi sul salario minimo universale o sulla rappresentanza sindacale). Inoltre, alcune iniziative sindacali atipiche, come quella UGL della stipula di un contratto collettivo cosiddetto “pirata” a tutela dei riders, non possono esser derubricate in un’ottica esclusivamente negativa. Per questa categoria di lavoratori, il contratto UGL è oggi di gran lunga il più diffuso, ed è comunque riuscito a introdurre un miglior quadro di tutele per una categoria che di fatto era precedentemente scoperta dal tradizionale sistema contrattuale.
Generalizzando queste riflessioni, possiamo dire che il sistema di relazioni industriali dovrebbe evolversi in una direzione più decentrata, vista la progressiva erosione della rappresentatività dei tradizionali organi sindacali e datoriali di livello settoriale. Il decentramento non va però inteso nel tradizionale senso del termine, limitandosi ad un generico obbiettivo di distribuzione della ricchezza là dove la contrattazione settoriale non fosse abbastanza generosa. Contrattare a livello decentrato significa investire sulle rappresentanze sindacali locali e aziendali, consentendo deroghe (potenzialmente anche verso il basso) per i trattamenti economici, scommettendo sull’idea che un sindacato aziendale o locale sia in grado di stabilire con più efficacia le priorità a vantaggio dei lavoratori. Ad esempio, se un sindacato aziendale lo ritenesse prioritario, perché non consentirgli di contrattare garanzie occupazionali e condizioni di lavoro migliori in cambio di trattamenti economici un po’ al di sotto dei livelli settoriali? La contrattazione decentrata (idealmente coadiuvata da leggi a garanzia del rispetto di obblighi minimi universali in capo ai datori di lavoro) sarebbe una scommessa che troverebbe valide motivazioni anche nella teoria economica, in base alla quale il sindacato potrebbe instaurare una “contrattazione (più) efficiente” là dove fosse messo in grado di incidere non solo sul livello dei trattamenti economici, ma anche sulle garanzie occupazionali (cfr. MaCurdy e Pencavel, “Testing between Competing Models of Wage and Employment Determination in Unionized Markets,” Journal of Political Economy1986).
Esiste infine una seconda (ma ancora più importante) leva sulla quale si dovrebbe agire per aumentare i redditi da lavoro: quella della crescita economica, dell’aumento della produttività e (alla luce delle recenti dinamiche) della lotta all’inflazione. In particolare, il terzo attore delle relazioni industriali, lo Stato, dovrebbe promuovere un quadro di regole, incentivi e interventi focalizzati su questi obbiettivi. Tuttavia, trattandosi di un tema ben più articolato e complesso di una “semplice” riforma del sistema delle relazioni industriali, è meglio tralasciarlo in questa sede.
*Questo articolo sintetizza l’intervento al Workshop CIRET “Il mercato del lavoro italiano dopo il Covid” avvenuto il 27 marzo, presso Sapienza Università di Roma, in occasione del 38mo anniversario dell’uccisione di Ezio Tarantelli.