«Tra populismo e politica sociale», Il Messaggero, 16 gennaio 1977 (ripubblicato in Federico Caffè. Un economista per il nostro tempo, a cura di G. Amari e N. Rocchi, Ediesse, 2009, pp. 188-189
Dispongo di un’imponente raccolta di notizie, tratte da varie fonti, cui ho dato il titolo provvisorio di: L’Italia degli emarginati. Per quanto il materiale sia di estremo interesse e di pregnante significato, penso che non avrò mai il tempo e la volontà per trarne il libro che desidererei. Contrapporre, cioè, l’Italia quale è e quale la si vuole far apparire. Documentare, con inequivocabile evidenza, che il trentennio che abbiamo sprecato, dal 1947, non costituisce una fase di progressivo «inceppamento» del mercato ma di crescente «benevola negligenza» nei confronti di ben noti «fallimenti» del meccanismo di mercato.
Le intenzioni iniziali, di certo, erano esplicite e l’espressione con la quale designare il nostro aggregato civile era stata già coniata: «lo stato sociale moderno». Se c’è una raccolta imponente di studi da cui risulti posto in piena evidenza il «grado di monopolio» dell’economia italiana è quella predisposta o pubblicata a cura della Commissione economica per il Ministero della Costituente, presieduta dal professor Giovanni Demaria. Il nome di Emanuele Rienzi, che forse non dice nulla ad alcuni impegnati ma piuttosto distratti giovani animatori di autorevoli periodici progressisti, andrebbe invece degnamente ricordato, proprio per la paziente e consapevole lucidità con cui fornì l’ineccepibile documentazione statistica della entità di questo grado di monopolio nella economia italiana. Pure non abbiamo mai avuto una qualsivoglia legislazione antimonopolistica, che sarebbe stata sempre preferibile alla mancanza di qualsivoglia legislazione.
Successivamente, vi sono state imponenti inchieste parlamentari sulla disoccupazione e sulla miseria. Quale seguito hanno avuto nell’azione concreta di governo? Se si riconosce che il garantismo crescente (sul piano del mercato del lavoro) e l’assistenzialismo clientelare (sul piano che genericamente possiamo indicare della indigenza) sono state strade sbagliate, occorre riconoscere, con pari integrità intellettuale, che non sono mai state imboccate le vie per l’attenuazione, sia pure graduale, dei fondamentali «fallimenti» del meccanismo di mercato.
La letteratura che esiste al riguardo è ormai imponente e basterà far cenno ai «fallimenti» più vistosi che, in certo senso incorporano gli altri. Vi è il fallimento che trae origine dalle varie forme di costi sociali ed è ben noto che il nostro Paese è stato designato da equanimi osservatori stranieri come il paradiso degli inquinamenti. Vi è il fallimento del mercato nel fornire sufficiente capacità di occupazione e, soltanto chi non abbia nozione di cosa significhi la «fattibilità» degli orientamenti di politica economica può avere imboccato il vicolo cieco di condizionare l’impegno di una politica della occupazione a «prezzi politici» che in concreto avrebbe significato la disgregazione del movimento sindacale.
Quanto al fallimento del mercato, per effetto della sua incapacità a porre argine alla «distribuzione arbitraria ed iniqua delle ricchezze e dei redditi», per dirla con Keynes, esso è troppo macroscopico nel nostro paese, perché sia necessario insistervi. Né l’assetto fiscale ha contribuito in qualche modo a porvi rimedio.
Ora, se l’affermazione dell’esigenza di eliminare gli ingiustificati «inceppi» al funzionamento del mercato fosse accompagnata dal contestuale riconoscimento di questi suoi persistenti «fallimenti» funzionali (parlo della pura e semplice presa d’atto della loro gravità, non della loro eliminazione che ovviamente richiederebbe tempo) , sarebbe significativo fare appello a uno sforzo comune per il superamento delle difficoltà odierne del Paese. Ma, se con l’appello al «mercato» e alla sua «impresa», si vuol eludere un esplicito e responsabile atto di accusa del rovescio della medaglia, gli sforzi saranno inevitabilmente orientati nel senso dei rispettivi convincimenti, anche nell’ambito della variegata professione degli economisti.
Oggi non si può, come se niente fosse, richiedere atti di fede nel «mercato», dopo un trentennio di delusioni, dovute alla mancanza di ogni serio proposito di porre riparo a quei conosciutissimi guasti che ne fanno una bilancia fallace.
«Gli equivoci di una campagna polemica. L’assistenza negata», Rinascita, n. 26, 13 luglio 1985 (Ripubblicato in Federico Caffè. Un economista.., cit., pp. 710-11).
Tra i provvedimenti adottati negli Stati Uniti d’America, per contenere le spese di carattere sociale, vi è la riduzione di un sussidio di cui beneficiano le donne con i figli a carico ed abbandonate dal padre di questi ultimi, riduzione che viene applicata qualora le donne in parola riescano a conseguire qualche entrata aggiuntiva con il lavoro nero. All’atto dell’adozione di questa misura, si affermò che le beneficiarie del sussidio avrebbero optato per l’importo integrale di questo, anziché per la continuazione del lavoro nero. E’ accaduto il contrario ed è stato il lavoro nero ad aumentare, man mano che il reddito si riduceva. Ma la congettura è di per sé rivelatrice di una mentalità del tutto analoga a quella che indusse, nelle più remote leggi a favore dei poveri, a imporre che questi abitassero in apposite case che costituivano di per sé l’indicazione esplicita di una condizione sociale degradante.
Il passato più oscurantista rivive in molti modi. Così, quando si teme che l’elevatezza del sussidio di disoccupazione (un pericolo inesistente in Italia) possa costituire un disincentivo all’accettazione di un ragionevole posto di lavoro si dà prova, con scarse varianti, della stessa mentalità. Che la gente miri a ottenere un lavoro, che abbia compiuto migrazioni bibliche per procurarselo, che l’attaccamento al posto di lavoro in attività dette declinanti derivi dalla chiara consapevolezza della mancanza di alternative, sono verità altrettanto evidenti quanto trascurate con un’alzata di spalle. Questo, del resto, non costituisce un fatto nuovo. Già in pieno regime corporativo, un coraggioso economista italiano, Giovanni Demaria, affermava che una intera ed integra vita di studio non era sufficiente a combattere il prevalente conformismo. Non vi è alcuna ragione per attendersi qualcosa di diverso nel periodo neo-corporativo che viviamo. Tuttavia, gli esempi di Demaria e di Alberto Breglia stanno ad ammonire che il fatto che alcune idee siano dominanti non costituisce un motivo per non assoggettarle a un severo vaglio critico.
Troppo spesso il timore di non seguire le mode correnti ha portato a contestare, senza le necessarie qualificazioni, l’assistenzialismo. In un paese in cui «gli anziani a digiuno bloccano Boccea» (un quartiere romano), è l’assistenzialismo che è da porre in discussione, oppure il modo in cui vengono fatte valere istanze pur giustificate di «miglioramento economico» del personale addetto agli anziani stessi? Riforme coraggiose occorrono, ma non nel senso di porre argine all’egualitarismo, alle misure assistenziali, alle pensioni di invalidità e di vecchiaia. Le molteplici forme di assistenzialismo costituiscono un’eredità intellettuale che ci viene da H. Sidgwick, A. Marshall, A.C. Pigou, W. Beveridge. Ripudiare questa eredità intellettuale (che non ha nulla a che fare con le politiche keynesiane) significa rinunciare a tutto ciò che di meritorio è stato realizzato sul piano di un riformismo penetrante e non meramente di facciata. Quello che appare inaccettabile, con riguardo alle critiche allo Stato garante del benessere, è che esse non vengono rivolte ai possibili abusi, alle evidenti inefficienze, ma all’assistenzialismo in sé, come se si trattasse di una degenerazione dell’assetto sociale. Dovrebbe essere chiaro che esiste un inevitabile gioco delle parti. Se, nell’imitare le lamentazioni comuni alla saggezza convenzionale, le forze progressiste vanno alla ricerca di nuove aggregazioni, di nuovi «blocchi storici», occorre un’attenta analisi di ciò che acquistano e di ciò che perdono.
Chi ha parecchi decenni di esperienza vissuta alle spalle ha dovuto inghiottire parecchi rospi: la monarchia di Salerno, la distruzione politica di Parri, la fine del Partito d’Azione, la svolta del 1947, subita con rassegnazione più che con indignazione. Forse, inconsciamente, il subire significava non voler estraniarsi malgrado tutto, dalla vita politica e sociale del Paese. Ma oggi, per le persone della mia generazione, l’aver subito non significa disposizione a subire ulteriormente.
La prospettiva di vita intellettuale valida che mi rimane è troppo limitata perché sia disposto a considerare vacui ideali a mio avviso irrinunciabili, quali l’egualitarismo, l’assistenzialismo, lo Stato del benessere. Se il mantenere vivi questi ideali, e non saper convertirsi ad attribuire importanza alla professionalità significa essere un cattivo serpente incapace di cambiar pelle, non resta che prenderne atto e lasciare le cose a questo punto. Ogni auspicabile guadagno di efficienza richiede, a mio avviso, una riaffermazione senza equivoci dei principi sui quali si fonda lo Stato del benessere. Non la sua crisi ci porta oggi a considerare gli indici di malessere, ma il fatto di aver sempre trovato argomenti per non realizzare in pieno una garanzia valida del benessere sociale, o per ridimensionare quel tanto che era stato faticosamente ottenuto. Una nuova epoca di scelte si apre: ma esse non può comportare opportunistici arretramenti, bensì ferma fedeltà agli ideali del progressismo riformatore: siano o meno essi «vendibili» sul mercato delle idee correnti.
Estratto da «I limiti della politica economica», Intervento alla XXIV riunione della Società Italiana degli Economisti, Roma 10-11 novembre 1983 (Ripubblicato in Federico Caffè. Un economista.., cit., p. 702).
Quando si considera l’intervento pubblico come dovuto alla «presunzione di sapere» mi sembra che si trascuri che, in alcuni casi, sappiamo anche troppo e siamo riluttanti o lenti nell’agire. Basta pensare, ad esempio, agli infortuni su lavoro, che mi inducono a considerare tutt’altro che superate le categorie dei costi sociali e di esternalità dannose, non eliminabili con accordo tra le parti. Del resto è stato giustamente rilevato che anche il non intervento non implica assenza di politica economica, ma una sua configurazione particolare.
Una notazione finale intenderei fare su una certa sovrapposizione che, a mio avviso, si è determinata tra il consigliere del principe e lo studioso dei problemi di politica economica. Si tratta di due posizioni del tutto distinte E’ inutile che, di fronte a un pubblico così qualificato, io mi riferisca alle precisazioni di Morgenstern, di Meade, di Tinbergen e ai loro contributi alla metodologia della politica economica. Consigliere del principe è una persona che deve dare dei pareri particolari e non ha niente a che fare con il teorico della politica economica che ha compiti di analisi sistematica dei problemi e metodi di politica economica.
Con una auspicata inversione del titolo di questo convegno, mi auguro che dalla discussione risultino valorizzate le potenzialità della politica economica, non già soltanto i suoi limiti. Forse vi è un sottostante interesse corporativo, essendo io insegnante della disciplina. Ma mi sembra che il molto che occorrerebbe fare sul piano dell’intervento pubblico, nelle sue forme di intervento quantitativo, qualitativo e di riforma, sorpassi di gran lunga le pur in astratto legittime preoccupazioni per il non agenda.