ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 199/2023

14 Settembre 2023

La BCE, l’inflazione, l’Italia

Roberto Tamborini a proposito della stabilità dei prezzi ribadisce che essa è una priorità della BCE, ma osserva che il risultato non dipende solo dalla BCE, né per la Zona Euro nel complesso né tanto meno per ciascun paese. La cooperazione tra BCE e governi può rendere la disinflazione più efficace e meno costosa per ciascuno. Il governo italiano, con un'inflazione maggiore della media, ha meno di altri motivi per contestare la strategia della BCE, mentre ha più di altri spazio di manovra per contribuire ad imbrigliare i fattori nazionali dell'inflazione.

Come largamente previsto, il 27 luglio scorso il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) ha deciso un nuovo aumento del tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento principale (ORP), il tasso centrale della politica monetaria della Zona Euro (ZE). Si è trattato del nono rialzo in dodici mesi, che porta il tasso ORP al 4,25%, uguagliando il valore raggiunto esattamente quindici anni fa, nel luglio del 2008 quando il tasso d’inflazione era del 4,1% e si stava sviluppando la tempesta perfetta della finanza mondiale. Resiste, per ora, il massimo storico del 4,75% conseguito nell’ottobre del 2000, con il tasso d’inflazione al 2,5%. Ricordare i due precedenti picchi storici è utile per mettere in prospettiva l’intonazione attuale della politica monetaria. 

Ci saranno altri aumenti già in settembre? Nel comunicato di annuncio del provvedimento di luglio, la BCE ha spiegato che “l’inflazione continua a diminuire, ma ci si attende tuttora che rimanga troppo elevata per un periodo di tempo troppo prolungato (…)”. Detto che le proiezioni dell’inflazione sono al ribasso e che le aspettative rimangono ancorate al valore obiettivo del 2%, sia il livello che la persistenza della inflazione di fondo (core inflation) al netto di materie prime, energia e alimentari all’ingrosso sono stati ritenuti meritevoli di un prolungamento della fase restrittiva.

Due sono le questioni in campo per prevedere le mosse future della BCE. La prima è se proseguire con gli aumentidel tasso ORP oppure se mantenerlo ad un livello elevato più a lungo. La seconda questione è fino a che punto la sola politica monetaria sia efficace per piegare il tipo d’inflazione che si è sviluppata in Europa.

In un recente intervento pubblico Fabio Panetta (Milano, 3 agosto), membro uscente del Consiglio direttivo designato dal governo alla guida della Banca d’Italia, ha ribadito quanto già dichiarato da altri esponenti della BCE, ossia la consapevolezza che il processo disinflattivo richiede tempo e presenta rischi di effetti collaterali negativi sulla stabilità finanziaria e l’attività economica. Essere consapevoli di tali rischi non significa rinunciare a riportare l’inflazione al suo valore obiettivo, ma che nella calibrazione delle decisioni future non possono essere ignorati del tutto come vorrebbero gli estremisti della dottrina della credibilità. 

Queste considerazioni, condivise da molti analisti indipendenti, fanno pensare che in questa fase l’opzione di tenere i tassi di riferimento al livello attuale o poco più fino alla completa normalizzazione dell’inflazione sia preferibile a quella di continuare con la loro escalation, a cui dovrebbe seguire poi una rapida correzione al ribasso. Questa linea sembra fare capolino nel comunicato della BCE di luglio, laddove si afferma che “le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di interesse di riferimento della BCE siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario a conseguire un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2% nel medio termine” (corsivo mio).

Come sempre, ciascuna opzione presenta pro e contro, e non è il caso di entrare nei dettagli in questa sede. Merita però di essere menzionato uno degli argomenti a favore dei tassi “alti e fissi”. E’ noto che la politica monetaria sviluppa i propri effetti sull’economia con un certo ritardo, stimato tra i quattro e i sei trimestri. E’ pure noto che la dinamica dei prezzi dei beni di consumo finale è sfasata rispetto a quello delle materie prime energetiche e non, cioè accelera dopo e decelera dopo. Queste regolarità empiriche trovano sostanziale conferma nei dati che stiamo osservando dalla seconda metà del 2021. La conseguenza è che la banca centrale deve evitare il notorio problema della doccia. Se aumentiamo l’acqua calda o fredda senza tener conto del tempo necessario affinché la doccia eroghi la giusta miscela otterremo continuamente acqua troppo calda o troppo fredda senza mai raggiungere la temperatura ottimale. E quindi raccomandabile mantenere la regolazione del tasso d’interesse costante per tutto il tempo necessario affinché si manifestino i suoi effetti, piuttosto che reagire troppo rapidamente e troppo bruscamente alla “temperatura dei prezzi” del momento.

La scelta della strategia su come regolare i tassi d’interesse s’intreccia naturalmente con la seconda questione, relativa all’efficacia della sola politica monetaria. In primo luogo, è stato ampiamente evidenziato, e riconosciuto dalla BCE, che l’aumento dei tassi d’interesse non è la terapia giusta in presenza degli importanti fattori inflattivi “dal lato dell’offerta” presenti nella ZE. Il fatto (presunto) che questi fattori si stiano attenuando non è una buona ragione per ignorarli.  

In secondo luogo, la BCE, rispetto alle altre banche centrali nazionali, deve fronteggiare la sua “croce originaria” d’essere l’autorità monetaria di un vasto gruppo di paesi eterogenei sia sotto il profilo delle strutture economiche sia sotto quello dei meccanismi di reazione alla sue decisioni di politica monetaria – one size doesn’t fit all

Per rimanere nel solo ambito dell’inflazione, riassumo alcuni fatti stilizzati da tenere a mente (cfr. Gern, Sonnenberg, Stoltzenburg, 2022) . 1) L’ingresso nella ZE ha favorito la convergenza dei tassi d’inflazione nazionali, ma con una persistente eterogeneità (misurata dalla deviazione standard rispetto alla media), di entità non trascurabile, 2) l’eterogeneità è aumentata con l’allargamento della ZE ai paesi più piccoli (prima col passaggio da 12 a 16, poi da 16 a 19), 3) l’eterogeneità aumenta nei periodi di maggior inflazione, come quello in corso. Ci sono tutti gli ingredienti per contrasti politici tra i paesi per i quali Francoforte è troppo severa e quelli per i quali lo è troppo poco. Il governo italiano ha già mandato segnali di nervosismo dal primo fronte. Si tratta di esternazioni a favore della componente più euroscettica e sovranista del suo elettorato o si profila un conflitto più sostanziale?

Figura 1: Variazioni percentuali annuali del PIL e dell’IAPC rilevate trimestralmente in Italia e nella ZE, 2021-23.

Fonte: Eurostat

     Per capirlo occorre valutare l’evoluzione dell’economia italiana rispetto alla ZE nel corso della fase inflattiva post-Covid iniziata nel 2021. Per quanto riguarda le due variabili macroeconomiche principali, la figura 1 mostra le variazioni annuali del PIL e dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) rilevate trimestralmente in Italia e nella ZE. L’andamento di entrambi in Italia è sostanzialmente allineato a quello nella ZE, e denota chiaramente una tendenza “stagflattiva”, ossia l’accelerazione dell’inflazione accompagnata dal progressivo rallentamento dell’attività economica. Tuttavia, nel corso del 2022 e della prima parte del 2023, il passo italiano sia del PIL che dell’inflazione è stato un po’ più sostenuto che nel resto della ZE.

Un riscontro di questo quadro è fornito dalla dinamica del tasso di disoccupazione nella figura 2. Dal terzo trimestre del 2021 la disoccupazione è in calo rispetto all’anno precedente sia nella ZE che, in misura più pronunciata, nel nostro paese, sebbene il fenomeno tenda ad esaurirsi. Secondo l’ultima rilevazione Eurostat del giugno 2023 i disoccupati erano il 6,5% della forza lavoro nella ZE e il 7,4% in Italia, rispettivamente 0,2% e 0,7% in meno rispetto a giugno 2022. 

Figura 2. Differenza sull’anno precedente del tasso di disoccupazione trimestrale  in Italia e nella ZE, 2021-23.

Fonte: Eurostat

Come naturale, nei mesi scorsi il governo non ha mancato di mettere in risalto la miglior performance italiana quanto a PIL e disoccupazione, ma purtroppo del quadro fa parte anche un tasso d’inflazione più elevato. Quindi la prima conclusione che possiamo trarre dai dati è che l’Italia non si presenta come un paese per il quale l’abito di taglia unica confezionato dalla BCE risulta particolarmente stretto. Ovviamente le conseguenze della restrizione monetaria sono impopolari, ma a lungo andare lo sono anche le conseguenze dell’inflazione, e logica vuole che il costo della disinflazione sia più giustificabile, e nel contempo più sopportabile, per le economie che, come quella italiana, “stanno sopra la media” sia dell’inflazione che dell’attività economica. 

Infine, giova una breve digressione sul perché l’economia italiana si trovi “sopra la media”. Le cause sono molteplici, ma in prima istanza si può partire da quanto si legge in un qualunque manuale di Economia. Quando i prezzi di mercato a cui le imprese riescono a vendere ciò che producono corrono più veloci dei salari che esse pagano si determina un “gapsalariale”, ossia una riduzione (involontaria) del costo del lavoro in termini reali. Ciò può tradursi in un aumento dei margini di profitto o in un incentivo ad aumentare la domanda di lavoro o entrambi. 

E di gap salariale c’è abbondante evidenza, sia nei dati statistici che nella vita quotidiana delle famiglie dei lavoratori dipendenti (non a caso, i pochi soggetti rimasti in Italia a non poter decidere il prezzo di ciò che vendono). La figura 3 riporta l’andamento trimestrale del gap salariale nella ZE e in Italia, misurato come differenza (negativa) tra variazione del costo monetario medio del lavoro e tasso d’inflazione dei beni finali. 

Figura 3. Percentuale di gap salariale nella ZE e in Italia, 2021-23

Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, Indice del costo del lavoro medio e IAPC

Dunque, proprio come insegna il manuale, l’Italia è sopra la media per crescita del PIL e posti di lavoro in quanto è sopra la media per inflazione e gap salariale. Il manuale insegna altre due cose utili da sapere, che sono presenti nei dati. La prima è che il gap salariale equivale ad una perdita di potere d’acquisto dei lavoratori, il che genera, indipendentementedalla politica monetaria, un freno ai consumi e alla dinamica della produzione (R. Tamborini, 2023). La seconda è che ilgap salariale tende a ridursi nella misura in cui i salari prima o poi recuperano il terreno perduto. A quel punto rimane solo l’inflazione sopra la media, ma scompaiono dalla classifica la crescita del PIL e dei posti di lavoro. E così, già i dati rilasciati da Istat e Eursotat in questi mesi estivi hanno raffreddato gli entusiasmi per il nuovo mircolo italiano.          Brevi conclusioni. La stabilità dei prezzi è una priorità della BCE, ma il risultato non dipende solo dalla BCE, né per la ZE nel complesso né tanto meno per ciascun paese. La cooperazione tra BCE e governi può rendere la disinflazione più efficace e meno costosa per ciascuno. Il governo italiano ha meno di altri ragioni per contestare la strategia della BCE, mentre ha più di altri spazio di manovra per contribuire ad imbrigliare i fattori nazionali dell’inflazione. Alcune recenti ostentazioni d’interventismo sui prezzi di singoli prodotti sensibili per l’opinione pubblica non sono la strada giusta. Come già spiegato su un precedente Menabò (Boitani e Tamborini, n. 192, 2023) la strada maestra richiede, da un lato una regolazione più incisiva dei settori dove più ampio è il potere di mercato di trasferire i costi sui prezzi e di determinare il margine di profitto, dall’altro la reintroduzione della concertazione tra governo e parti sociali con lo scopo di prevenire il gioco del cerino tra imprese e lavoratori e conseguire una distribuzione equa dei costi e dei benefici della disinflazione.

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