ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 199/2023

14 Settembre 2023

Una nota sulle metodologie di calcolo dei redditi bancari

Riccardo Zolea esamina la metodologia di calcolo del valore aggiunto del settore finanziario tramite i dati di contabilità nazionale e ne rileva i limiti nel rappresentare correttamente la profittabilità del settore bancario. Zolea sostiene che concepire questo settore come un settore produttivo con caratteristiche particolari potrebbe risolvere il problema e le statistiche della Banca d’Italia sembrano coerenti con questa concezione. Zolea osserva inoltre che quella metodologia sembra basata su una concezione esogena dell’offerta di moneta, oggi sempre più criticata.

Il metodo migliore per calcolare i redditi finanziari è sempre stato un argomento problematico. Il System of National Accounts (SNA) utilizza una particolare metodologia basata sul concetto di Servizi di Intermediazione Finanziaria Indirettamente Misurati (SIFIM). Il glossario ISTAT descrive i SIFIM nella maniera seguente:

“servizi offerti dal sistema creditizio che non hanno un prezzo esplicito, ma che vengono remunerati indirettamente tramite lo spread tra tassi attivi e passivi e che vengono allocati ai settori utilizzatori finali, come previsto dal Regolamento del Consiglio Ue n. 1889/2002. Pertanto i consumi di SIFIM delle Amministrazioni pubbliche sono inclusi nei consumi intermedi, determinandone un innalzamento di pari ammontare. D’altro canto, gli interessi attivi sono aumentati della componente riclassificata come SIFIM nei consumi intermedi- ottenuta come differenza tra gli interessi attivi effettivamente percepiti sui depositi e gli interessi di riferimento- e gli interessi passivi sono ridotti anch’essi della componente riclassificata come SIFIM – ottenuta come differenza tra gli interessi di riferimento e gli interessi effettivamente pagati sui debiti. […] “

Per comprendere meglio come vengono calcolati i SIFIM è opportuno riprendere l’analisi di Bazot (Journal of the European Economic Association, 2017), pag. 126 (traduzione propria):

“I SIFIM sono quindi calcolati come segue: SIFIM = (rL-r)L + (r-rD)D dove L è l’ammontare dei prestiti, D l’ammontare dei depositi, rL il tasso sui prestiti, rD il tasso sui depositi e r il tasso di riferimento utilizzato per valutare il costo di rifinanziamento delle banche, spesso il tasso interbancario. Il primo termine del calcolo dei SIFIM misura il servizio di erogazione del credito, mentre il secondo termine misura il servizio di gestione dei depositi.”


Pertanto, il valore aggiunto del settore finanziario è calcolato come la somma delle commissioni e dei SIFIM; da questa somma vengono poi sottratti i consumi intermedi delle banche. I conti nazionali, quindi, non tengono conto dei redditi netti da capitale e da titoli.

Come sottolineano Fournier e Marionnet (Bulletin de la Banque de France, 2009), il valore aggiunto calcolato dai SIFIM su dati francesi tra il 1995 e il 2008 è significativamente inferiore al reddito bancario netto calcolato dai dati bancari. Zolea (Munich Personal RePEc Archive, 2023) fa un’analisi simile sui dati italiani nel periodo successivo alla crisi del 2008 e i risultati sono opposti: il reddito bancario netto – calcolato dai dati della Banca d’Italia – è drasticamente inferiore al valore aggiunto calcolato dai dati di contabilità nazionale. Una delle ragioni è che i dati di contabilità nazionale non tengono conto dei crediti deteriorati e delle sofferenze, le principali voci di perdita per una banca. Per cercare di utilizzare dati più affidabili Fournier e Marionnet (Bulletin de la Banque de France, 2009) propongono una tabella di transizione tra i due metodi di misurazione. Bazot (Journal of the European Economic Association, 2017) suggerisce di utilizzare i dati OCSE, mentre Zolea (Munich Personal RePEc Archive, 2023) preferisce i dati di Mediobanca e della Banca d’Italia per calcolare il tasso di profitto bancario.

Oltre ai problemi empirici riguardanti la precisione dei dati di contabilità nazionale, si rilevano anche delle questioni teoriche piuttosto rilevanti che rendono problematico questo approccio: è chiaro che questo metodo di calcolo del valore aggiunto finanziario e bancario si basa sulla teoria della moneta esogena (criticata ormai anche da molti banchieri centrali). In breve, questa impostazione suppone che la quantità di moneta nel sistema dipenda dall’offerta della banca centrale. Quest’ultima, infatti, determina la base monetaria concessa alle banche e, tramite il moltiplicatore dei depositi, anche la quantità totale di moneta nel sistema. Il meccanismo del moltiplicatore dei depositi si basa sull’idea che le banche prestino i depositi (e le riserve), fungendo esse da intermediario fra soggetti in deficit e in surplus di risparmi. L’idea alla base dell’approccio dei dati di contabilità nazionale è appunto che le banche siano puri intermediari, che giocano sulla scarsità di informazioni del pubblico. Questa sembra essere l’applicazione pratica del cosiddetto modello (mainstream) di Klein-Monti. Infatti, come si evince dalla spiegazione di Bazot (Journal of the European Economic Association, 2017), il SNA considera l’attività bancaria come una pura intermediazione, che trova un guadagno sia nel servizio dei depositi che in quello dei prestiti, e tale guadagno è calcolato in entrambi i casi rispetto al tasso interbancario.

Poiché tramite i dati di contabilità nazionale si calcola il PIL, sommando il valore aggiunto della finanza a quello di tutti gli altri settori, il calcolo del PIL è influenzato dall’approccio (non corretto) della moneta esogena, sia per quanto riguarda la finanza sia per quanto riguarda i costi finanziari del settore produttivo (reale). È quindi interessante sviluppare una critica secondo la teoria della moneta endogena, che descrive in maniera migliore il funzionamento del settore finanziario (si consiglia sul tema Lavoie, Post-Keynesian Monetary Theory, 2020), nonché riflettere su alcune alternative all’approccio seguito dal SNA. Riassumendo molto, secondo l’approccio della moneta endogena la quantità di moneta nel sistema dipende interamente dalla domanda in quanto le banche accolgono tutta la domanda del pubblico (mentre la banca centrale accoglie interamente la domandi di riserve da parte delle banche). Secondo questa impostazione le banche non prestano i depositi (e men che meno le riserve), ma creano i depositi come proprie passività ogniqualvolta elargiscono un credito. Ne risulta quindi che le banche non necessitano di risparmi pregressi per effettuare il credito (per un breve approfondimento delle teorie della moneta endogena e della moneta esogena si veda questo contributo sul Menabò).

Come chiarisce Stauffer (28th General Conference of the International Association for Research in Income and Wealth, 2004), pag. 6 (traduzione propria):

“Nell’ottica della contabilità nazionale, gli interessi guadagnati dai prestiti non possono essere un pagamento per la produzione delle banche. Di norma, gli interessi sono considerati un reddito, non una produzione. Il fatto che molti dei servizi forniti dalle società finanziarie abbiano un prezzo implicito ha comunque trovato spazio nei conti. […] La produzione non è definita come fornitura di finanziamenti, ma come intermediazione finanziaria la cui specificità è una funzione di “trasformazione” e una funzione di “assunzione di rischio”. Non vengono identificati servizi particolari”.

Una possibile soluzione a questo duplice problema, empirico e teorico, potrebbe essere quella di considerare le banche (“tradizionali” o anche definite “commerciali”) come qualcosa di più simile alle industrie produttive (Zolea, Review of Political Economy, 2023). La creazione di moneta nella teoria della moneta endogena è più simile a un processo produttivo che a una pura attività di intermediazione: le banche creano prestiti senza bisogno di fondi precedenti, rispettando determinate regole, e questa creazione potrebbe essere assimilata ad un processo produttivo. I depositi possono essere considerati un input del settore bancario insieme al rifinanziamento della banca centrale (e ai fondi ricevuti sul mercato interbancario), mentre i prestiti sono l’output. Zolea (Review of Political Economy, 2023) chiarisce che considerare i depositi come un input non implica che essi debbano essere preesistenti alla creazione del credito: i depositi sono dunque necessari, ma non devono essere anticipati per avviare un’attività bancaria; da notare inoltre che l’analisi differisce molto prendendo in considerazione il sistema bancario nel complesso oppure il funzionamento della singola banca. Questa concezione è completamente differente da quella mainstream di pura intermediazione. In quest’ultimo caso infatti la banca funge solo da intermediario fra soggetti in attivo e in passivo, prestando fondi già esistenti. Al contrario, se si ipotizza che la banca crea credito ex novo, si sottintende una sorta di processo produttivo che non necessita di fondi preesistenti. In entrambi i casi viene prestato un servizio, ma nel secondo si ha una concezione molto più simile a quella del processo produttivo.

Il settore bancario può dunque essere considerato come un’industria che produce servizi finanziari, in particolare prestiti. Per l’esattezza, i nuovi prestiti sono un flusso, mentre i prestiti precedenti sono uno stock, e gli interessi sui prestiti sono pagati sullo stock. Si potrebbe quindi asserire che le banche producono il servizio di rendere disponibile nuovo capitale per il sistema finanziario (riprendendo così anche l’analisi della finanza del III libro del Capitale di Marx). Il concetto è simile a quello dell’affitto di un immobile: in questo caso il servizio è costituito dall’opportunità di utilizzare e usufruire dell’immobile, per chi ha preso denaro in prestito dalla banca è costituito invece dall’opportunità di usare il capitale nella produzione (o nel consumo, nel caso per esempio di un prestito al consumo, oppure nell’acquisto di un immobile, qualora si parli di un mutuo).

Non è questione semplice dare una risposta definitiva al problema della contabilizzazione del valore aggiunto del settore finanziario nel PIL, ma è un tema di grande interesse che si presta a stimolanti discussioni. Considerare le banche come un settore produttivo e non come un puro intermediario potrebbe essere un buon modo per andare a fondo nella questione. Inoltre, qualora l’obiettivo sia analizzare il settore bancario e finanziario, appare abbastanza certo che i dati forniti dalle banche centrali siano quelli più adeguati. Infatti, la contabilità fornita dalla banca centrale è basata direttamente sui bilanci aggregati delle banche (per finalità di vigilanza) e considera dunque anche i redditi netti da capitale e da titoli, a differenza della contabilità nazionale. L’utilizzo dei bilanci aggregati permette di superare l’utilizzo dei SIFIM e dunque anche il problema teorico legato all’approccio della moneta esogena. Ne risulta che i dati, oltre a essere più precisi, rispecchiano maggiormente il reale funzionamento dell’attività bancaria e rispondono maggiormente ad una concezione del settore bancario come un’attività in qualche modo “produttiva”, con input e output più facilmente identificabili.

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