Il dibattito sul reddito minimo in Italia è ritornato al centro dell’attenzione negli ultimi tempi, in seguito all’abrogazione del Reddito di Cittadinanza (RdC) da parte del governo Meloni. L’ obiettivo di questo articolo è quello di arricchire il dibattito sul reddito minimo nel nostro paese proponendo un’analisi degli sviluppi recenti in Norvegia, basato sui risultati di un nostro recente studio (cfr. Iacono e Smedsvik; Invisible sanctions: micro-level evidence on compulsory activation for young welfare recipients, Journal of Social Policy, 2023).
Il reddito minimo in Norvegia (økonomisk sosialhjelp – aiuto sociale economico) è una misura di lunghissima durata dato che è in vigore nella forma attuale dal 1965 (sostituendo precedenti misure di contrasto alla povertà). La sua organizzazione e la relativa spesa sono responsabilità principalmente delle amministrazioni comunali, mentre lo stato centrale si limita a definire delle soglie minime per i trasferimenti, a cui i comuni devono conformarsi.
Nonostante le politiche sociali e di welfare di questo paese scandinavo abbiano storicamente presentato elementi di universalità, il reddito minimo norvegese è selettivo, destinato esclusivamente ai beneficiari in condizioni di povertà economica e patrimoniale. Esso prevede una dettagliata valutazione delle risorse finanziarie da parte delle autorità locali, ha un carattere temporaneo ed è generalmente accettato sia a livello politico che nel dibattito pubblico. Il dibattito in Norvegia su questa misura si concentra, invece, sulle disparità regionali nei livelli del trasferimento, sulle condizioni per l’attivazione lavorativa e sulle sanzioni in caso di inadempienza.
Anche in Norvegia, come è accaduto in Italia e in altri paesi europei a partire dagli anni ’90, sono stati introdotti requisiti di attivazione lavorativa in numerose misure di welfare che in passato erano prive di tali condizioni. Nel contesto norvegese, il reddito minimo è stato modificato allo scopo di ridurre la dipendenza dei beneficiari dal trasferimento, trasformandolo idealmente in un intervento a breve termine per contrastare la povertà. L’accesso a questa misura è consentito solamente dopo l’esaurimento di altre fonti di reddito o trasferimenti, e dopo l’eventuale liquidazione del patrimonio restante.
Limitatamente ai beneficiari sotto la soglia dei 30 anni, il precedente governo (primo ministro Erna Solberg, coalizione di centro-destra) ha introdotto dal 2017 l’obbligo per i comuni di richiedere ai beneficiari almeno la partecipazione ai corsi di formazione (oppure la dimostrazione di aver cercato attivamente un impiego). Prima del 2017, alcuni comuni avevano volontariamente introdotto l’attivazione obbligatoria, mentre altri avevano mantenuto un regime in cui l’assenza di attivazione non comportava conseguenze. Questa variazione a livello di municipalità viene dunque eliminata dal 2017 in poi su scala nazionale.
Dal 2017, per i residenti di tutti i comuni del paese, nel caso non vi sia attivazione, il case worker (assistente sociale) comunale può discrezionalmente ricorrere ad una sanzione economica, ovvero la riduzione o sospensione del trasferimento. Il termine discrezionalmente è decisivo, nel senso che mentre l’attivazione a carico del beneficiario è obbligatoria per evitare il rischio di sanzione economica e riduzione del trasferimento, quest’ ultima non è obbligatoriamente imposta, rimanendo dunque a discrezione del case worker sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica del beneficiario e della famiglia in questione. In ogni caso, questa riforma mira a contrastare la passività lavorativa, potenziando gli incentivi economici all’attivazione.
Nello studio menzionato in precedenza, ci siamo avvalsi del fatto che solo alcuni comuni avevano introdotto l’attivazione obbligatoria precedentemente alla riforma del 2017, mentre i restanti comuni norvegesi sono stati utilizzati come gruppo di controllo. L’informazione sull’utilizzo o meno dell’attivazione obbligatoria in ogni singolo comune ci è stata resa disponibile da una survey del NAV (corrispettivo dell’INPS in Norvegia).
Intuitivamente, ci saremmo aspettati che per i residenti (sotto i 30 anni) dei comuni nei quali veniva praticata l’attivazione obbligatoria con rischio di sanzione, l’assenza di attivazione portasse a una riduzione dei trasferimenti per i beneficiari. Tuttavia, nonostante abbiamo analizzato con precisione lo stato occupazionale e l’importo del trasferimento (valori medi giornalieri) per i beneficiari, non siamo stati in grado di rilevare alcuna differenza significativa nella relazione tra trasferimento e stato lavorativo per i beneficiari dei comuni con attivazione obbligatoria rispetto a quelli del gruppo di controllo. In altre parole, essere in uno status lavorativo passivo non ha comportato una riduzione del trasferimento per i residenti dei comuni dove è stata introdotta l’attivazione obbligatoria, rispetto ai residenti nel gruppo di controllo.
Nella sostanza, confermando alcuni precedenti studi qualitativi (basati su interviste agli operatori sociali delle amministrazioni NAV), possiamo concludere che nella pratica del caso norvegese le sanzioni sul reddito minimo non vengono effettivamente applicate, rappresentando quindi una minaccia teorica ma non concretamente realizzata. Dalle interviste condotte con gli operatori coinvolti, emerge la spiegazione: la difficoltà da parte loro a comminare sanzioni o riduzioni del trasferimento a individui e famiglie già in una situazione di grave disagio economico.
Questa evidenza suscita diverse questioni: perché prevedere a livello normativo delle sanzioni che poi non vengono applicate, vista la loro discrezionalità? Perché i case-worker tendono ad evitare l’applicazione di sanzioni economiche quando vengono a contatto con i beneficiari? Quali misure per incentivare l’attivazione lavorativa possono messere in atto senza ricorrere alle sanzioni, e dunque senza mettere a rischio la garanzia di un reddito minimo per gli individui e le famiglie meno abbienti?
La riforma del reddito minimo norvegese che prevede attivazione al lavoro obbligatoria accompagnata da una sanzione economica discrezionale crea un parallelo interessante con la misura di reddito minimo in vigore in Italia dal 2019 (RdC), che già prevedeva la riduzione o cessazione del trasferimento nel caso di rifiuto di tre offerte di lavoro congrue. Tuttavia, non siamo a conoscenza di studi che abbiano indagato sull’applicazione effettiva di tali sanzioni nel caso del RdC. Il tema dell’effettiva applicazione delle sanzioni per chi non si attiva diviene ancora più rilevante alla luce degli ulteriori obblighi di condizionalità al lavoro stabiliti dalla riforma che ha sostituito il RdC con l’Assegno di Inclusione (sul tema della condizionalità, si veda il recente contributo di Granaglia sul Menabò).I risultati della nostra analisi empirica sulla riforma del reddito minimo norvegese che ha dimostrato la mancata applicazione delle sanzioni, inducono, dunque, alcune riflessioni di policy. L’uso delle sanzioni forse andrebbe limitato, dato che queste spesso si traducono in semplici minacce per i beneficiari e raramente vengono realmente applicate. Allo stesso tempo, una strategia efficace di attivazione al lavoro dovrebbe essere basata su un’offerta più ampia di corsi di formazione, finanziati dalle istituzioni pubbliche ma offerti anche da aziende private, finalizzati all’inserimento lavorativo. Inoltre, dovrebbero essere adottate politiche attive di reinserimento, che consentano anche a individui con lacune nel curriculum di trovare un’occupazione. Infine, sulla base delle ultime evidenze empiriche si potrebbe anche riflettere sull’adozione di forme di garanzia occupazionale (job guarantee), un meccanismo di occupazione universale sostenuto dallo Stato.