ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 199/2023

14 Settembre 2023

Pro memoria per gli attuari

Civil servant a proposito di pensioni osserva che il metodo contributivo viene spesso considerato equo e sostenibile ma, come tutti i sistemi previdenziali, la sua efficacia non prescinde dalla effettiva disponibilità delle risorse da destinare ai pensionati. Civil Servant ritiene che la vera questione sia come investire il risparmio previdenziale in modo da far crescere le risorse future e sostiene che una buona idea sarebbe quella di impiegare parte dei contributi sociali per stimolare lo sviluppo economico.

Il dibattito sulla riforma del sistema previdenziale si riaccende puntualmente nell’imminenza di ogni documento di finanza pubblica, quando una serie di proiezioni statistiche mette regolarmente in guardia sul crescente squilibrio tra pensioni da erogare ed entrate dell’Inps, dovuto al declino demografico e all’invecchiamento della popolazione. Per arginare questa deriva governi e istituzioni internazionali suggeriscono immancabilmente di spostare in avanti l’età del pensionamento, in modo da ridurre la platea dei beneficiari, e di ridurre la “generosità” dei metodi di calcolo delle pensioni, per abbattere ulteriormente il loro ammontare complessivo, anche se già oggi molti assegni saranno sicuramente insufficienti per vivere in modo decente, come mostrato da Michele Raitano sul Menabò. Un’altra tipica raccomandazione è quella di rafforzare la previdenza complementare per arricchire gli assegni pensionistici di chi può permettersi di versare adeguati premi a fondi privati quando è ancora in attività. Come vedremo, nessuna di queste misure garantisce la sostenibilità del sistema previdenziale nel lungo periodo e alcune possono essere addirittura controproducenti.

Promesse e realtà. Vi è una solida corrente di pensiero che propone di risolvere il problema della sostenibilità dei sistemi previdenziali ricorrendo al metodo contributivo, più o meno corretto. A questo metodo di calcolo viene spesso associato anche un elevato grado di equità, essendo le prestazioni proporzionali a quanto versato da ciascun lavoratore nel corso della sua vita attiva, anche se questo approccio “individualistico” tende ad amplificare le disuguaglianze. L’idea di fondo è che l’equilibrio dei conti sarebbe garantito automaticamente se ciascuno percepisse una pensione proporzionale ai contributi accumulati (con un rendimento ancorato al tasso di crescita della massa salariale) e decrescente in base agli anni che gli restano da vivere (tenendo conto anche della eventuale reversibilità per i superstiti).

Purtroppo questo ragionamento è viziato da parecchie criticità. La prima è una classica fallacia di composizione, ovvero il pregiudizio che ciò che vale per un singolo individuo vale anche per tutta la collettività di cui fa parte. In realtà, il metodo contributivo, come ogni altro criterio di calcolo, può determinare la quota delle risorse disponibili da assegnare a ciascun avente diritto, ma non il corrispondente ammontare, che dipende evidentemente dal totale delle risorse che possono essere concretamente distribuite durante il periodo di quiescenza. Il secondo punto, strettamente collegato al precedente, è che si possono fare diverse ipotesi, più o meno realistiche, sull’andamento delle risorse per le pensioni (come per gli utili di un’impresa), ma si tratta solo di congetture, come quelle riportate sul foglio informativo di qualsiasi investimento finanziario. In particolare, l’indicizzazione del montante contributivo alla dinamica salariale stabilizza sì il rapporto tra prestazioni e Pil, ma la quantità complessiva di risorse messe a disposizione dei pensionati sarà adeguata solo se quest’ultimo cresce a tassi costanti o crescenti. Se invece la crescita del Pil decelera mentre la platea dei pensionati cresce continuamente, come è accaduto in Italia negli ultimi trent’ anni, anche prestazioni contributive ancorate al montante rivalutato diventano incompatibili con la reale disponibilità di adeguate risorse future. Volendo semplificare, il montante contributivo è paragonabile al possesso di un pacchetto azionario che dà diritto ad una quota di utili … ma solo se questi ultimi si realizzano e vengono distribuiti.

Va chiarito che il problema delle risorse complessive necessarie per il finanziamento vale per qualsiasi sistema pensionistico, e non solo per il contributivo. Michele Raitano propone alcune soluzioni tecniche per fronteggiare invecchiamento della popolazione e rallentamento dell’economia. Il tema della disponibilità delle risorse necessarie è evidente per gli schemi a ripartizione (dove le risorse correnti servono a pagare le prestazioni in essere), fra i quali rientra il contributivo, ma emerge anche in quelli a capitalizzazione pura (alla cilena), in cui i contributi versati da giovani sono investiti in asset che verranno utilizzati finanziare i trattamenti pensionistici da anziani. Infatti il rendimento ed il valore dei titoli e attività reali accumulate dipendono inevitabilmente dalla domanda futura, ovvero dalle risorse generate dai lavoratori ed imprenditori in attività in quel momento. Non sfuggono a questo vincolo neanche i piani di accumulo fai-da-te. Non a caso, un “economista palestinese”, circa duemila anni fa, sconsigliava di accumulare ricchezze terrene, perché sono soggette a molti pericoli, e se la prendeva anche con chi le tesaurizzava invece di investirle in attività produttive, benché rischiose.

Ad esempio, prima dell’istituzione del welfare bismarckiano, il sostentamento degli anziani era completamente a carico dei propri discendenti ed il “pensionato” percepiva un trattamento proporzionale al reddito dei propri familiari (ed alla loro riconoscenza). Il fatto che avesse accumulato ricchezze durante la sua vita lavorativa poteva servire ad aumentare la capacità di guadagno di chi lo avrebbe curato (e forse anche il loro attaccamento), oppure come riserva per prelievi temporanei ed occasionali in caso di necessità. Tuttavia nessuno poteva pensare di vivere solo attingendo sistematicamente a questo gruzzolo, sottraendolo così ai propri eredi. La letteratura è piena di vicende legate alla eccessiva prodigalità degli avi dei protagonisti.

Pensioni e pertiche. Nei moderni sistemi di welfare ogni anziano può contare sulla solidarietà di tutta la sua collettività, come avveniva in qualsiasi tribù preistorica, ma resta immutato il vincolo delle risorse complessive disponibili. Federico Caffè riporta una pratica in uso presso alcune comunità africane per risolvere gli squilibri tra risorse e necessità degli anziani. Questi ultimi, appena smettevano di essere produttivi, venivano periodicamente sospinti al centro di un fiume con delle pertiche e solo quelli che sopravvivevano alla corrente guadagnavano la loro “pensione”. Oggi il posticipo dell’età minima per il ritiro dal lavoro svolge più o meno la stessa funzione, perché finisce per “selezionare” solo gli individui più forti e fortunati che riescono a sopravvivere più a lungo. La riduzione degli assegni pensionistici, realizzata anche attraverso la mancata indicizzazione ai prezzi dei beni di consumo, ed i tagli ai servizi di cura e assistenza sono altre moderne “pertiche” che contribuiscono a mantenere l’equilibrio contabile delle casse previdenziali.

Purtroppo, come mostrato da Fabian Mushövel e Nicholas Barr sul Menabò, neanche il ricorso alla previdenza complementare cambia la natura del problema, come già accennato parlando dei limiti degli schemi a capitalizzazione. Se gli impieghi dei fondi non garantiscono ritorni adeguati, i piani pensionistici restano solo promesse che non possono essere mantenute. Le cose precipitano se il fondo è riservato a singole categorie di lavoratori il cui numero tende a ridursi nel tempo, oppure se il risparmio previdenziale viene investito male. Il nostro legislatore ha cercato limitare questi rischi tramite l’art 15 comma 5 del D. Lgs. 252/2005, che recita: «Ai fondi pensione si applica esclusivamente la disciplina dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa, con esclusione del fallimento.” In base a questa norma, se le quote associative non dovessero risultare sufficienti a coprire le uscite, decade l’autorizzazione all’esercizio dell’attività rilasciata dalla Covip al fondo pensione e le posizioni previdenziali sono trasferite ad un altro fondo pensione. Poco prima che fosse approvato questo decreto era stato posto in liquidazione il fondo della Banca CommercialeItaliana, nato nel 1905, e agli associati era stato sostanzialmente dimezzato l’assegno pensionistico, con immaginabili strascichi legali. Nel 2015 la nuova normativa sull’amministrazione straordinaria è stata applicata, tra gli altri, al FONAGE (il fondo degli agenti di assicurazione), che aveva visto una rapida riduzione degli iscritti e un aumento dei pensionati, senza danneggiare troppo i beneficiari. Quello del FONAGE è solo una anticipazione di quello che potrebbe accadere in uno scenario in cui la tecnologia determinerà una riduzione della domanda di lavoro, almeno nel medio periodo, mentre il declino demografico ed i progressi della medicina faranno aumentare il numero dei pensionati.

Negli USA, dove il datore di lavoro è responsabile in solido col fondo pensione dei propri dipendenti, può andare anche peggio, nonostante la Pension Benefit Guarantee Corporation fornisca un paracadute ai pensionati. Ad esempio, il fallimento della United Airlines nel 2004 ha trascinato con sé il proprio fondo pensioni ed il garante pubblico ha coperto solo la metà delle perdite . Dopo il 2008, nel Regno Unito la crisi dei fondi che promettevano prestazioni predeterminate ha provocato la dismissione di una massa ingente di titoli pubblici presenti nei loro portafogli, che sono stati acquistati dalla Banca d’Inghilterra. A causa di questa ed altre operazioni di salvataggio, la Banca ora è stata costretta a chiedere un finanziamento straordinario allo stato (con una surreale inversione delle funzioni tra le due istituzioni).

Nonostante le garanzie pubbliche, nel caso di una crisi sistemica, anche i fondi previdenziali privati sono dunque a rischio, perché il vincolo delle risorse effettivamente disponibili al momento dell’erogazione degli assegni non può essere eluso se non con qualche moderna versione delle “pertiche”. Il rischio è potenzialmente superiore a quello della previdenza pubblica, perché l’adesione ai fondi avviene solo su base volontaria e quindi gli associati non sono obbligati a proseguire i versamenti, cosa che accade più frequentemente proprio nei momenti di crisi. Inoltre i fondi privati sono più esposti a cattiva gestione e vere e proprie truffe, come quella del New York State Common Retirement Fund.

Un approccio diverso.Le soluzioni puramente “attuariali” e “finanziarie” al problema della sostenibilità dei regimi pensionistici non appaiono dunque troppo efficaci laddove l’obiettivo sia quello di garantire risorse anche a fronte di una possibile crisi delle fonti di finanziamento del welfare. Un approccio diverso, e probabilmente più fruttuoso, è quello di affrontare direttamente il tema della disponibilità delle risorse future da cui attingere per le pensioni. La strategia dei fondi di investire i contributi e le quote associative in asset ritenuti “sicuri” e facilmente liquidabili, come i titoli di stato, rafforza la loro solidità finanziaria, ma non incide direttamente sulla crescita, ovvero sul vincolo di lungo periodo che limita l’ammontare delle pensioni che possono essere realisticamente erogate.

L’art. 2 del DM del Ministero del Tesoro 703/1996 prescrive giustamente che i fondi debbano investire le quote associative come farebbe una “persona prudente”, nell’interesse degli aderenti e differenziando opportunamente gli strumenti finanziari. Forse per un eccesso di cautela, tale indicazione è stata declinata in una composizione del portafoglio che (a meno di specifiche deroghe concessa da COVIP) comprenda al massimo un quinto di strumenti liquidi, un altro quinto di quote di altri fondi e al massimo il 10% di azioni e altri titoli di capitale (prevalentemente emessi da paesi dell’OCSE). In nessun caso è ammessa una esposizione verso un singolo paese superiore al 15% del patrimonio del fondo. La normativa italiana non è neanche tra le più restrittive, come documentato dall’OCSE.

La distribuzione del patrimonio dell’INPS, se possibile, è ancora più prudente. Nel 2022, a fronte di un attivo complessivo di circa 140 miliardi, quasi 31 miliardi erano investiti in depositi a vista (quasi totalmente presso la Tesoreria dello Stato), meno di 3 in immobili e macchinari e poco più di 11 in asset finanziari e quasi tutto il resto in crediti verso lo stato, le imprese e gli iscritti.

Il contributo diretto all’accumulazione del capitale nazionale rappresenta dunque una quota abbastanza modesta del patrimonio raccolto dai fondi pensione e dall’Inps. Ciò significa che i contributi sociali obbligatori e le quote associative volontarie si traducono solo in un incremento marginale della capacità produttiva potenziale, che è quella che consentirà di pagare gli assegni pensionistici futuri. Ferma restando la necessità di una gestione oculata del risparmio previdenziale, limiti così stringenti possono risultare controproducenti per la crescita economica e quindi, in ultima analisi, per la sostenibilità del sistema previdenziale. Roberto Pizzuti, tra gli altri, si è espresso più volte su questo punto criticando, in particolare, gli investimenti dei fondi in paesi esteri invece che nell’economia italiana. Destinare una parte anche modesta del risparmio pensionistico pubblico e privato per alimentare un fondo sovrano che investa in capitale fisico e immateriale garantirebbe una accelerazione della crescita del Pil che avrebbe natura permanente, e non solo temporanea come le risorse del PNRR. Invece, secondo le stime dell’OCSE, i fondi italiani attualmente investono poco più del 20% del loro patrimonio in azioni, contro il 26% della Spagna, oltre il 33% degli USA e poco meno del 50% del Belgio.

Una rincorsa senza speranza. Se si scontano politiche di investimento dei fondi troppo prudenziali, la dinamica del Pil diventa sostanzialmente indipendente rispetto a quella dei contributi sociali e delle erogazioni pensionistiche e quindi qualsiasi squilibrio tende a destabilizzare il sistema previdenziale. Massimiliano Tancioni, su queste pagine, ha mostrato che le elaborazioni catastrofiche sul destino del welfare sono viziate proprio da questa ipotesi di fondo. Invece di indulgere al “crollismo” sarebbe utile riflettere su come stimolare lo sviluppo per scongiurare simili esiti, senza limitarsi a giustificare e sollecitare ulteriori tagli alle prestazioni previdenziali.

Se il risparmio dei lavoratori in attività si traducesse in investimenti produttivi che fanno aumentare il Pil e l’occupazione, il sistema reggerebbe meglio anche a tendenze demografiche sfavorevoli che sono difficili da invertire anche nel medio periodo. Al contrario, i provvedimenti che incidono solo sull’ammontare di contributi e pensioni a parità di Pil rischiano di far cadere l’economia in un circolo vizioso che parte da una riduzione delle pensioni e passa per un corrispondente calo della domanda interna che, a sua volta, riduce Pil, occupazione e base contributiva, amplificando gli squilibri dei conti della previdenza invece di attenuarli. L’inasprimento dei requisiti per il pensionamento può addirittura accelerare questo processo perché una forza lavoro più anziana ha probabilmente una produttività inferiore, se non altro per le ore perse per malattia ed una formazione e motivazione minore dei giovani. Inoltre non è detto che le imprese abbiano davvero bisogno di lavoratori anziani, come documentato, tra gli altri, da Enrico D’Elia sul Menabò. Pertanto l’allungamento obbligatorio del periodo di lavoro potrebbe produrre un aumento di disoccupati difficili da ricollocare e quindi bisognosi di qualche forma di assistenza di lunga durata a carico del bilancio pubblico. Per consolidare i conti della previdenza si potrebbe dunque finire per gonfiare altre voci di spesa e per ridurre la stessa base imponibile potenziale per contributi sociali e imposte.

Per scongiurare questo scenario e per distribuire meglio i rischi, alcuni propongono di investire il risparmio previdenziale nelle economie emergenti, caratterizzate da tassi di sviluppo e rendimenti dei titoli molto superiori ai nostri. Tuttavia questa soluzione potrebbe addirittura peggiorare la situazione, perché sottrarrebbe risorse per investimenti in Italia, frenando ulteriormente la debole crescita del paese.

In realtà, una “persona prudente”, come quella evocata dalla normativa italiana sui fondi complementari, dovrebbe perseguire una gestione lungimirante del risparmio pensionistico, che tenga conto degli effetti sistemici e non solo degli equilibri contabili di breve periodo. E’ possibile che questo approccio suggerisca qualche limatura al rendimento dei contributi versati, in linea con il declino decennale della produttività del paese. Tuttavia i provvedimenti correttivi dovrebbero mirare soprattutto ad invertire quest’ultima tendenza negativa nel medio e lungo periodo, in modo da garantire pensioni decenti, con una pressione fiscale e previdenziale sostenibile, ed uno sviluppo stabile e sostenuto.

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