ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 199/2023

14 Settembre 2023

La minimum tax sulle multinazionali e la regola di Colbert

Ruggero Paladini presenta un’utile sintesi delle nuove norme sulla tassazione delle multinazionali, i cosiddetti due pilastri proposti dall’OCSE, riguardanti l’allocazione delle imposte tra giurisdizioni e la fissazione di un prelievo minimo del 15%. Paladini mette in luce punti di forza ed elementi di debolezza delle nuovenorme e, in particolare, illustra la Income Inclusion Rule e la Undertaxed Profits Rule. Successivamente si sofferma sul delicato problema della riservatezza dei dati fiscali delle imprese multinazionali.

La minimum tax sulle multinazionali: i due “pillar”. Nell’ottobre 2021 circa 140 paesi hanno approvato la proposta dell’OCSE per un sistema di tassazione delle multinazionali che garantisca un prelievo del 15%, e una distribuzione più equa del gettito.

A grandi linee lo schema elaborato dall’OCSE, per realizzare questi due obiettivi si basa su due pilastri; il primo determina l’allocazione delle imposte che le grandi aziende dovranno versare (con un impatto di circa 125 miliardi di dollari). Il secondo, invece, introduce l’imposta minima globale (aumentando le entrate fiscali di circa 150 miliardi di dollari a livello globale). Il primo pilastro contiene l’annesso A, che si applicherebbe alle società con oltre 20 miliardi di euro di ricavi e un margine di profitto superiore al 10%. Per tali società una parte dei loro profitti sarebbe tassata nelle giurisdizioni in cui si effettuano le vendite; Il 25% dei profitti al di sopra di un margine del 10% è oggetto di prelievo. Dopo un periodo di revisione di 7 anni, la soglia dei 20 miliardi potrebbe scendere a 10 miliardi.

Un insieme articolato di norme è volto ad identificare il paese dove avviene il consumo finale, anche quando ci sono passaggi tra imprese in una lunga catena di fornitura. E’ consentito inoltre alle società di utilizzare i dati macroeconomici sulla spesa dei consumatori per allocare i propri utili imponibili. In particolare l’annesso B fornisce un metodo per facilitare alle aziende il calcolo delle imposte sulle operazioni estere come il marketing e la distribuzione. Il secondo pilastro riguarda invece l’imposta minima del 15% che viene generalizzata a tutti i paesi che intendono applicare le regole stabilite (e rilasciate nel dicembre 2021), che sono previste per le aziende con più di 750 milioni di euro di fatturato, un ammontare nettamente più basso di quello del primo pilastro. Si tratta in genere di multinazionali, ma, per non discriminare, anche di imprese che operano in un solo paese. Vi è poi una seconda regola, dell’Income Inclusion Rule (IIR); la quale richiede che una società o comunque un’impresa controllata da una capogruppo o da società controllata dalla capogruppo (controlli che sono dell’ordine del 90-95%) venga presa in considerazione nel momento di stabilire l’imponibile e quindi l’imposta del 15%.                La terza regola, particolarmente delicata, del secondo pilastro è la Undertaxed Profits Rule (UPR), che consente a un paese di aumentare le tasse su una società localizzata in una giurisdizione che non aderisce all’accordo ma con sedi nei paesi dell’accordo se essa risulta tassata al di sotto dell’aliquota effettiva del 15%. Se più paesi applicano l’UPR l’utile imponibile viene suddiviso in base all’ubicazione dei beni materiali e dei dipendenti.  

Le iniziative in Europa. Per quanto riguarda l’UE, il 14 dicembre 2022 gli Stati membri hanno raggiunto un’intesa per attuare le indicazioni dell’OCSE, con la direttiva 2523. In sostanza la direttiva recepisce la componente relativa all’imposizione minima (secondo pilastro) della riforma in materia di tassazione internazionale proposta dall’OCSE.

Il primo obbiettivo dell’accordo è far pagare più imposte alle grandi multinazionali che traggono vantaggio non solo dai paradisi fiscali (il caso dell’Irlanda è forse il più noto) ma anche dagli accordi particolari (ruling) con i quali viene fissata una tassazione molto ridotta solo per le società che stabiliscono una sede nel paese. Il Lussemburgo ad esempio da tempo fa un uso sistematico del ruling; secondo il Tax Justice Network l’Italia ha perso il 18% del proprio gettito fiscale societario, di cui ben il 16% da paesi dell’UE (8% dal solo Lussemburgo) e il 2% dai paesi extra-UE (di cui 1% dalla Svizzera).

Il secondo obiettivo consiste nella ripartizione del gettito complessivo in base al paese di consumo dei prodotti delle multinazionali. Ad esempio nel caso di Google, Apple, Facebook (Meta), Amazon e Microsoft (detti GAFAM, acronimo spesso usato con una connotazione negativa) si tratta di stabilire quanti apparecchi, prodotti informatici ed altro vengano venduti nei singoli paesi, e ripartire di conseguenza il gettito. Così le grandi aziende verseranno più tasse nei paesi in cui hanno clienti e meno nei paesi in cui hanno sedi e dipendenti.

Per quanto riguarda l’Italia, la Legge Delega per la riforma fiscale – che contiene molte affermazioni del tutto generiche – all’art. 3 (Princìpi generali relativi al diritto tributario dell’Unione europea e internazionale), lettera e), punti 1) e 2), recepisce la direttiva 2523, introducendo un’imposta minima e  un regime sanzionatorio, dove questo termine fa, plausibilmente, riferimento al secondo pillar OCSE. I provvedimenti relativi dovranno avere tempi più stretti dei due anni previsti per i decreti delegati della riforma fiscale.

In Svizzera (che non è nell’UE), il 18 luglio scorso si è tenuto un referendum per fissare un’aliquota uniforme del 15%, dopo che essa era di recente scesa e si collocava tra il 13% e il 14% nei vari cantoni. Portare l’aliquota al 15% è necessario ma non sufficiente, come vedremo più avanti. Il referendum è stato approvato ovunque con una maggioranza del 78,5%, maggiore di quella prevista (la partecipazione è stata del 41,9%,). Il Ministro federale delle Finanze Karin Keller-Sutter ha dichiarato:”This ensures that Switzerland will not lose any tax revenue to foreign countries“.

Questa dichiarazione, che potrebbe sembrare strana, si spiega alla luce dell’Undertaxed Rule, permetterebbe agli altri paesi, dove hanno sede multinazionali svizzere, di aumentare il prelievo fiscale su quest’ultime .

Il Regno Unito è stato il paese che si è mosso per primo introducendo in legislazione i due pillar a fine marzo; la corporation tax ha due scaglioni: l’aliquota è del 19% fino a 50.000 sterline di utili e del 25% oltre questa soglia. 

Aliquota formale ed effettiva. Per stabilire se un paese rispetta la minimum tax va presa in considerazione non l’aliquota legale, ma quella effettiva; la quale è calcolata sulla base di regole internazionali (i principi IFRS – da noi OIC). Pertanto, nel caso svizzero (e lo stesso vale per l’Irlanda), l’aliquota del 15%, ovviamente necessaria, potrebbe anche non essere sufficiente e portare ad una aliquota effettiva più bassa in seguito alle rettifiche di bilancio. Quest’ultime possono riguardare sia il numeratore (diminuzione dell’imposta) sia il denominatore (aumento dell’utile tassabile). Cioè, se l’aliquota formale è del 15% in presenza di agevolazioni quella effettiva sarebbe inferiore. Di Tanno su lavoce.info indica le voci che diminuiscono il numeratore o aumentano il denominatore. Le regole del secondo pilastro dovrebbero essere adottate entro il 1 gennaio 2025; secondo Ernst & Young, entro luglio 11 paesi europei hanno già completato l’inserimento nella normativa nazionale del secondo pilastro e altri 19 altri sono orientati a completarlo. Negli Stati Uniti invece la situazione è molto problematica. Da un lato il governo Biden sembra disponibile a recepire i due pillar, ma non ha modificato l’Inflation Reduction Act che prevede l’alternative minimum tax al 15% (una misura da tempo esistente in USA) ma su un ristretto numero di società: quelle che conseguono almeno 1 miliardo di profitti per 3 anni consecutivi.                Evidentemente negli Stati Uniti si dubita che il progetto OCSE abbia un effetto neutro sul gettito fiscale come ebbe a dichiarare Janet Yellen e si teme che le multinazionali statunitensi, tra cui le famigerate FAGAM, sarebbero particolarmente colpite.Inoltre, i repubblicani hanno rivolto aspre critiche in particolare alla Undertaxed Rule. Il presidente della House Ways and Means Committee, il repubblicano Jason Smith, ha recentemente proposto un retortion billto provide an enforcement of remedies against the extraterritorial taxes and discriminatory taxes of foreign countries”, per contrastare i paesi che intendono applicare l’UPR alle multinazionali americane.

Il caso australiano e la trasparenza. Recentemente il governo laburista australiano intendeva aggiornare (tramite emendamenti alla legge del 2016, da introdurre dal 1 luglio 2023) le misure contro l’evasione delle multinazionali (Tax Avoidance), con un Tax Transparency Code; in sostanza si intendeva chiedere a migliaia di multinazionali di dichiarare pubblicamente dove e quante imposte versassero, paese per paese.

L’OCSE ha ritenuto che il disegno di legge avrebbe minato i propri sforzi e certamente diminuito il suo ruolo, in quanto nelle discussioni che avevano portato all’accordo si dava per scontata la riservatezza dei dati fiscali. Ogni paese avrebbe conosciuto i propri, ma la visione d’insieme l’avrebbe avuta solo l’OCSE avrebbe avuto, che ha fatto presente, con decisione, tutto ciò al Tesoro australiano sottolineando il rischio che un cambiamento potesse far saltare l’accordo del 2021. In seguito alle pressioni dell’OCSE il governo australiano ha deciso di sospendere le misure che intendeva introdurre.  Ma questa decisione, stando anche al Financial Times del 7 luglio scorso, sarebbe dipesa anche dall’avversione delle imprese coinvolte (nazionali e internazionali). Un ruolo di primo piano è stato quello dell’associazione imprenditoriale giapponese Keidanren.

Questa associazione, il più grande gruppo di lobby imprenditoriale del Giappone, ha dichiarato di aver espresso all’ambasciata australiana a giugno la preoccupazione che il nuovo disegno di legge minasse l’accordo del 2015. Condividere le informazioni pubblicamente sarebbe problematico in termini di protezione delle informazioni aziendali riservate e sensibili, ha aggiunto un funzionario di Keidanren. Vi sono state anche forti pressioni da parte di altri gruppi commerciali, tra cui SwissHoldings e l’Australian Financial Markets Association i cui 130 membri includono diverse banche come Deutsche Bank, Bank of China, Bank of America, Citigroup e BNP Paribas. In sostanza, come dicevano i Simply Red, “money’s too tight to mention”.

Le associazioni che si battono per la giustizia fiscale hanno avanzato critiche di segno opposto: Alex Cobham, amministratore delegato del Tax Justice Network (gruppo nato nel Regno Unito e diffuso nel mondo anglosassone) ha dichiarato: “È davvero scioccante vedere confermato che l’OCSE ha esercitato pressioni su un paese membro contro l’introduzione di una misura chiave per combattere l’abuso fiscale delle società”. Jason Ward, analista principale presso il Center for International Corporate Accountability and Research, un altro gruppo di pressione, si è detto molto preoccupato per lo sviluppo. “È una tragedia per tutti i soggetti coinvolti, tranne che per le [multinazionali] che riescono a nascondere i loro affari”.

Dal canto suo, l’OCSE ha risposto: “Come piattaforma per la collaborazione su regole e standard internazionali, l’OCSE condivide comunemente la sua conoscenza ed esperienza relativa alla comprensione e all’interpretazione di regole e standard che possono essere negoziati e concordati da giurisdizioni sovrane”. Ha aggiunto che ciò includeva “la consulenza ai governi sulle potenziali differenze che potrebbero esistere tra le loro proposte e quei solidi standard internazionali”. L’organizzazione ha affermato che tali standard sono stati concordati da più di 140 paesi e giurisdizioni attraverso un progetto congiunto tra l’OCSE stessa e il Gruppo dei 20.

Osservazioni conclusive. L’accordo elaborato dall’OCSE ha una sua completezza; i due pilastri sono stati costruiti in modo da raggiungere l’obiettivo di imposizione al 15% e redistribuire, in parte, il gettito. Il 15%, anche se deve essere l’aliquota effettiva e non quella formale, è deludente, ancorché ormai scontata dopo la decisione del G7 di (oltre) due anni fa (da me commentata sul Menabò); basti ricordare che il governo irlandese aveva accettato di sottoscrivere la proposta dell’OCSE solo a condizione che l’aliquota non superasse il 15%. In prospettiva il rischio è che le imprese di dimensioni (relativamente) più piccole premano perché sia applicata anche a loro la stessa aliquota.

La tattica dell’OCSE sembra ispirata a quanto sosteneva Jean-Baptiste Colbert nel lontano XVII secolo: “l’arte della tassazione consiste nello spennare l’oca in modo da ottenere il maggior numero possibile di piume col minor numero possibile di strilli”. Tutto sommato i 150 miliardi di maggiore prelievo significano alcune decine di milioni a testa in più da versare per le migliaia di multinazionali coinvolte; le quali ottengono il mantenimento del segreto sulle imposte versate in ciascun paese, supponendo, come è probabile, che lo stop al governo australiano sia definitivo.

E tuttavia vi sono serie perturbazioni di provenienza atlantica sulla minimum tax, per quanto riguarda sia il primo pilastro (il meccanismo di riallocazione di una quota dei profitti) sia il secondo (in particolare la Undertaxed Rule); infatti per il primo punto è necessario che venga stipulato un trattato tra i paesi che ratificano l’accordo OCSE e, come sottolineano giustamente Joseph Stiglitz e Tommaso Faccio (Project Syndacate 19 giugno 2023) la ratifica dei trattati richiede una maggioranza dei due terzi nel Senato USA, che è estremamente improbabile anche dopo le elezioni del prossimo anno, a meno di un completo capovolgimento della linea politica del partito repubblicano. Per il secondo punto il retortion bill repubblicano renderebbe difficile l’applicazione dell’UPR ai paesi firmatari, e certamente a quelli europei.

Realisticamente è improbabile che si potesse ottenere di più. Ormai l’UE è sulla via del completamento dell’iter di inserimento nella legislazione nazionale dei due pilastri; è probabile (ed importante) che il processo giunga a compimento e che venga stipulato il trattato che definisce i dettagli del sistema di riallocazione del gettito della minimum tax. Gli Stati Uniti durante le presidenze Obama sono stati in prima linea nella lotta all’elusione fiscale delle multinazionali; non è escluso che tornino ad esserlo, anche se bisognerà attendere un tempo non breve. Intanto i paesi che parteciperanno al trattato, che rende operativo il primo pilastro, potrebbero promuovere anche lo scambio dei dati riguardanti i gettiti fiscali, invece di lasciare tutto nelle mani dell’OCSE, che ovviamente, come tutte le organizzazioni, ci tiene a che il suo ruolo continui ad essere centrale.

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