ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 208/2024

30 Gennaio 2024

L’industria dell’acciaio tra vincoli economici e strutturali

Andrea Fumagalli e Roberto Romano ricordano che l’industria dell’acciaio è stata strategica per lo sviluppo industriale europeo e italiano, ma sottolineano che negli anni sono emerse diverse criticità: eccesso di capacità produttiva, aumenti dei costi fissi, crescita dei Paesi BRICS nella produzione di acciaio. L’acciaio, inoltre, è diventato meno strategico rispetto ad altri settori innovativi. L’industria dell’acciaio europea dovrebbe recuperare lo spirito innovativo della CECA; per non essere schiacciata dalla concorrenza cinese e indiana.

Correva l’anno 1951 quando alcuni paesi europei decidono di creare la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), con lo scopo di mettere in comune (governare?) le produzioni di queste due materie prime di sei Paesi: Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. In effetti, acciaio e carbone erano e probabilmente sono ancora alla base della produzione di altri beni, si pensi al nastro di acciaio laminato o alla produzione di energia. Sebbene il 1951 sia molto lontano, l’accordo di Parigi (18 aprile 1951) sottintendeva un comune obbiettivo in termini di approvvigionamento di queste due materie prime, così come l’avvio dell’integrazione europea poi realizzato con il Trattato Comunità Economia Europea (TCEE) che istituisce la CEE (25 marzo 1957), insieme alla Comunità europea dell’energia atomica (TCEEA). L’Italia non era protagonista di queste produzioni, ma gli uomini politici del tempo (Alcide De Gasperi) ritenevano che la CECA fosse un ottimo accordo per la ricostruzione dell’economia italiana e inserire il Paese nelle istituzioni politiche ed economiche internazionali.

In assenza di questo accordo sarebbe stato difficile il 9 luglio del 1960 posare la prima pietra dell’acciaieria di Taranto e avere la prima colata di acciaio il 27 novembre 1964, così come il secondo altoforno nel 1965. Nasce, quindi, il quarto polo siderurgico nazionale dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli. Nei progetti (industriali) del Paese, l’Italsider è un tassello del mosaico della manifattura italiana, e Taranto è lo snodo strategico. Nel 1975 la produzione di acciaio raddoppia passando da 5,7 a 11,5 milioni di tonnellate, Italsider diventa la più grande acciaieria d’Europa e l’Italia la seconda produttrice dopo la Germania. Gli anni Ottanta, però, si aprono con la grande crisi dell’industria siderurgica nazionale e internazionale; sono colpite tutte le imprese pubbliche e private. “Taranto” diventa ingovernabile e la Comunità Europea programma una riduzione importante dell’output, cioè chiusure ed eliminazione di manodopera in tutto il continente.

Gli anni Novanta riscrivono molte e forse troppe regole comunitarie; l’acciaio italiano diventa uno dei molti capitoli dell’accordo del 1993 Van Miert-Andreatta. Il commissario alla concorrenza Van Miert critica l’Italia per la continua ricapitalizzazione delle imprese pubbliche nazionali. Il casus belli è l’EFIM, ma il problema è più generale; l’Italsider è andata fuori controllo e viene disaggregata in due società: Acciai Speciali Terni, ceduta nel 1994 ai tedeschi della ThyssenKrupp, e ILVA laminati piatti, venduta nel 1995 alla famiglia Riva.

L’acciaio e il suo utilizzo. L’acciaio è un bene molto particolare ed è molto più diffuso di quanto si immagini. Non c’è nessun bene che ne sia escluso. L’acciaio è utilizzato nell’elettronica, nella meccanica, nell’edilizia e financo nei beni d’uso quotidiano e negli imballaggi. Grazie alle sue proprietà di alta resistenza alle pressioni, alle alte temperature, agli agenti atmosferici e agli agenti corrosivi, è un bene molto duttile che attraversa orizzontalmente tutti i settori economici. Senza l’acciaio sarebbero inconcepibili moltissime produzioni e infrastrutture. Ovviamente nel tempo l’acciaio ha cambiato la propria natura; è diventato via via più sofisticato in ragione dei diversi utilizzi. Forse non è più parte della così detta industrializzazione di un Paese, ma farne a meno richiede l’accurata programmazione (governo) della necessaria transizione. 

Il ciclo primario dell’acciaio via altoforno richiede lo sfruttamento di elevate economie di scala, ovvero un volume di produzione elevato. È una condizione che oggi non è presente a Taranto e stupisce che questa precondizione non sempre venga presa in considerazione.

Una crisi annunciata. Immaginare che la domanda di acciaio europeo possa crescere nel 2024 del 7,6%, come ipotizzato dall’associazione europea EUROFER, è semplicemente impossibile. Più probabilmente si assisterà ad una sorta di lieve ribasso e/o stabilizzazione del settore, con dei processi di concentrazione-acquisizione delle diverse società, dominata e guidata sostanzialmente dalla Cina che realizza più del 50% della produzione mondiale di acciaio. Indiscutibilmente le acciaierie italiane hanno realizzato margini lordi record, prossimi al 10%, ma il mercato era drogato dagli ecobonus e dal superbonus 110% del governo Conte II, destinati a non durare a lungo. Questo margine, però, è sostanzialmente attribuibile al ciclo secondario guidato da Marcegaglia, Riva, Arvedi, Cln, Feralpi, Afv-Acciaierie Beltrame, mentre la ex ILVA (solo dedita al ciclo primario) sembra ormai giunta al capolinea in termini di prospettive economiche, in ragione del target della propria produzione, con un occupazione oggi scesa a poco meno di 20.000 addetti tra diretti e indotto. 

L’acciaio è ancora strategico allo sviluppo di un Paese?

L’economia mondiale difficilmente potrebbe rinunciare all’acciaio come base della propria crescita. E’ interessante notare che negli ultimi vent’anni la crescita della produzione di acciaio è stata maggiore della crescita del Pil mondiale, a conferma di una certa correlazione, (Figura 1), diversamente dall’intensità energetica per ogni punto di crescita del PIL (Figura 2). Per assurdo che possa sembrare, la crescita economica utilizza meno energia per ogni aumento di reddito, diversamente da quanto accade per l’acciaio: ad ogni aumento del reddito corrisponde un maggiore uso di acciaio.

Figura 1

Figura 2

Tratta da: Domenico De Vincenzo, 2021, Transizione ambientale e transizione energetica. Il caso dell’Unione Europa

Quindi, l’acciaio è ancora fondamentale per la crescita economica? La domanda non è retorica, piuttosto aiuta a capire come e quanto si debba puntare su questo settore in relazione alla dinamica delle attività ad esso collegate. Infatti, la domanda di acciaio è in qualche modo regolata dall’andamento economico di molti settori che si approvvigionano d’acciaio, e il posizionamento di questi settori nel consesso internazionale influisce sulla domanda; ciò è tanto più evidente se consideriamo che l’interscambio internazionale d’acciaio è residuale.

Infatti per quanto riguarda il commercio internazionale tra import e export di acciaio, solo l’Austria, il Belgio e la Germania, tra i paesi europei, sono esportatori netti, cioè hanno un saldo commerciale positivo. In complesso, l’Unione Europea è l’area che presenta il disavanzo commerciale più ampio (pari a – Mt 22,0), seguita a stretto giro dagli Usa (- Mt 20,6). L’Italia è il 4° paese per import di acciaio (Mt 20,2) e l’8° per export (Mt 16,0), con un saldo negativo pari a – Mt 4,2. 

Il mercato dell’acciaio si presenta come poco globalizzato. Nel 2000 l’export rappresentava il 39,2% della produzione. Nel 2022, tale percentuale è scesa al 22%. Tale situazione evidenzia la formazione di mercati sempre più nazionali o al limite aperti a paesi limitrofi. Per questo sarebbe necessario costituire un mercato comune europeo, come doveva essere negli anni ‘50. Ma oggi l’inesistenza di un coordinamento delle politiche industriali a livello europeo ne impedisce la realizzazione. In alcuni paesi, inoltre, come in Italia, manca da molti anni una qualsiasi idea di politica industriale.

Il ruolo delle multinazionali. La produzione d’acciaio spesso, si configura come un settore olig-monopolistico. Il report della Commissione Europea (Industrial R&D investment scoreboard), che raccoglie i dati di 2.500 multinazionali mondiali per i principali settori economici, permette di osservare il ruolo e il peso specifico dell’acciaio, nonché il suo grado di concentrazione. 

Le multinazionali hanno un ruolo economico internazionale importante; conoscere il peso specifico dell’acciaio sul totale delle attività e il livello di concentrazione è essenziale per comprendere la sua importanza. 

La figura 4 restituisce il peso specifico dei settori considerati (industria del metallo, automobile, aerospazio, software e farmaceutica) sul totale rispetto ai livelli occupazionali, spesa in ricerca e sviluppo e vendite. L’industria legata all’acciaio rispetto agli altri settori è residuale in tutte le variabili considerate: le vendite sono pari al 3,5% del totale, la ricerca e sviluppo rappresenta l’1% del totale e l’occupazione, in continua contrazione, vale poco meno dell’1% di tutta l’occupazione delle 2.500 multinazionali. Ne consegue che l’acciaio è residuale nella catena del valore delle multinazionali. In settori che hanno più o meno le stesse caratteristiche – quindi, escluso l’aerospazio che ha caratteristiche proprie – ì valori sono significativamente più elevati. Automobile ha valori decisamente superiori, ben oltre il 12% del totale per tutte le variabili considerate; software e servizi e biotecnologia e farmacia hanno livelli di occupazione e vendite costanti sopra al 5% del totale, e una spesa in ricerca e sviluppo che sfiora il 20%. L’acciaio, quindi, non sembra strategico come base dell’accumulazione del capitale, sebbene non sia sostituibile e necessario per molte produzioni, come abbiamo già sottolineato

Figura 4

D’altro canto, la concentrazione geografica della produzione d’acciaio è impressionate (figura 5); la Cina rappresenta il 54% della produzione totale, seguita, per modo di dire, da India, Giappone, Stati Uniti, Russia e Sud Corea, mentre i paesi europei sono marginali: Germania, Italia e Francia raggiungono il 4% della produzione totale.

Ciò che emerge, in realtà, è la “rivincita” dei paesi BRICS: questi paesi rappresentano quasi il 70% della produzione totale, contro il 7% dell’Europa, il 6,3% del Nord America e il 4,7% del Giappone.

Figura 5

Policy di politica industriale e geografia economica. In conclusione , è difficile affrancarsi dalla produzione di acciaio. Le attività industriali coinvolte sono tante e in qualche modo qualificano la domanda d’acciaio. Nel 1960, quando è nata la CECA, l’acciaio era indispensabile per industrializzare il Paese, oggi è molto meno strategico. Gli input che direttamente e indirettamente contribuiscono alla crescita del reddito sono altri, in primis la ricerca e sviluppo di cui l’Italia è particolarmente carente.

Al netto di questa constatazione, non possiamo rinunciare alla produzione di questo bene primario. Se proprio si dovesse dare una risposta adeguata alla crisi del settore e in particolare a quanto accade a Taranto, il governo dovrebbe sviluppare con l’Europa un piano europeo che assicuri la produzione d’acciaio necessaria per la domanda domestica. 

La fine della produzione di acciaio non è una campana a morto. Già il settore dell’automotive ha di fatto lasciato l’Italia. La quota dell’intero settore manifatturiero sul valore aggiunto è oggi inferiore al 20% mentre i servizi raggiungono il 73%. Risulta chiaro che la specializzazione produttiva delle “vecchie” economia capitalistiche nel nuovo millennio non può rimanere la stessa del ‘900.

Oggi i settori a maggior valore aggiunto risultano essere quelli del settore dei servizi avanzati, legati alle attività di gestione del tempo libero, della salute, della formazione, della finanza e della raccolta dati. Nel capitalismo delle piattaforme, i livelli di profittabilità maggiori si riscontrano nei servizi comunicativi, di cloud computing e biotecnologici, ovvero quei servizi che sfruttano gli algoritmi di II generazione. La produzione materiale svolge sempre più un ruolo ancillare, ed è così anche per l’acciaio.Occorre, infine, considerare che le diseconomie ambientali (sicurezza dei luoghi di lavoro, protezione ambientale e sostenibilità ecologica) sono fortemente cresciute, distorcendo un corretto equilibrio tra costi fissi e costi variabili. L’unica soluzione sarebbe un forte incremento della produzione complessiva da sviluppare in diversi stabilimenti fra loro coordinati. Una possibilità che a livello nazionale non è più data e che la gestione privata non è più in grado di garantire. Per questo diventa sempre più necessario una politica industriale pubblica dell’acciaio a livello europeo. Un nuovo piano europeo CECA non più mirato all’espansione del settore, ma teso a garantire quel fabbisogno richiesto e nulla più

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