ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 208/2024

30 Gennaio 2024

Tesla, l’ordoliberalismo e il modello nordico

Paolo Borioni si occupa del conflitto sindacale relativo alla Tesla in Svezia e sostiene che esso nasce anche dal rifiuto di una concezione assoluta e salvifica dell’imprenditore “alla Elon Musk”. Borioni ricorda che sono stati mobilitati metodi di lotta molto pervasivi e che i modelli nordici sono basati anche su una conflittualità potenziale alla quale si fa ricorso anche nel corso di normali trattative sindacali. Borioni conclude con la considerazione che per mantenere la parità tra capitale e lavoro occorre anche cambiare modello economico, in Scandinavia e in tutta Europa.

Il rifiuto da parte di Elon Musk di sottoscrivere un accordo con il sindacato svedese IF Metall (confederazione LO) è radicato in una concezione ultra-schumpeteriana, quasi superomista, della classe imprenditoriale. I sindacati nordici, più di quelli europei, postulano invece la forza del sindacato come fattore decisivo per conseguire risultati economici elevati.

Ciò ha innescato un conflitto sindacale duro, da descrivere nella sua identità attuale e storica. Secondo l’ideologia di Musk gli “spiriti animali” della classe che compra lavoro, tanto più se messianicamente investita della missione innovativa, comporterebbero i maggiori risultati per chi invece il lavoro deve venderlo. Da cui il rifiuto del compromesso negoziale, e l’invito alla classe lavoratrice a mollare i sindacati. Perciò la forte reazione operaia è stata bollata da Musk con un laconico “This is insane”. Ovviamente, il peso notevole dell’ideologia è abbinato anche a considerazioni strategiche più concrete per un’impresa globale come Tesla: evitare che l’esempio svedese si propaghi, a cominciare dagli USA, dove ultimamente la combattività operaia ha prodotto conquiste sindacali nel settore auto.

Esaminiamo però come si è determinata l’intensificazione del conflitto: il 27 ottobre scorso IF Metall avvia l’agitazione, ma a scioperare sono solo i meccanici Tesla veri e propri. Il 3 novembre però ogni tecnico o meccanico svedese sindacalizzato si impegna a non operare su auto Tesla. Nel corso del mese l’ondata si propaga: altre federazioni affiliate alla confederazione LO attivano azioni di solidarietà, la federazione Tansport e i portuali di Hamnarbetarföbundet bloccano lo scarico delle vetture, gli elettricisti dal 22 novembre impediscono che le Tesla attingano alle colonnine di rifornimento. Seko ed ST invece bloccano la consegna di documenti e targhe automobilistiche, a cui Tesla reagisce ricorrendo alle autorità preposte, che esaminano la vertenza.

In effetti anche in altri casi in Scandinavia il diritto riconosciuto ad agitazioni con azioni di solidarietà dure da parte di lavoratori non coinvolti direttamente è entrato in conflitto con il diritto all’informazione o all’igiene di aziende e persone. Così è avvenuto in Danimarca nel caso Vejlegården, in cui i lavoratori della nettezza urbana avevano lasciato accumulare i rifiuti di un ristorante che aveva firmato con i più deboli e compiacenti sindacati detti “gialli” o “cristiani” un contratto al di sotto delle condizioni previste dall’ accordo collettivo maggioritario, sottoscritto invece dalla confederazione LO danese (vedi “Conflitto e negoziato in Danimarca: un caso di studio. Il dibattito e il contesto. Sentenza Vejlegården”, Economia & Lavoro, 2014). E così nel 2007 in Svezia, presso il ristorante di Göteborg Wild’n Fresh, che subì picchettaggi nonché il mancato ritiro dei rifiuti.

In ambo i casi si è trattato di conflitti-simbolo: la giovane gerente di Wild’n Fresh sosteneva che solo se le condizioni offerte da un’impresa sono effettivamente inferiori a quelle concordate negli accordi nazionali i sindacati devono esigere un contratto, mentre celebrità di professione neoliberale si servivano dimostrativamente in quei locali sottolineando la volontarietà degli accordi. Viceversa, i sindacati maggioritari (storicamente vicini alla socialdemocrazia e altre formazioni della sinistra) ribadivano che la caratteristica volontarietà (con solo occasionale ed emergenziale intervento governativo e statale) delle relazioni industriali nordiche poggia, tuttavia, su quella che l’importante studioso finlandese P. Kettunen definisce “parità” di cui il compromesso sindacale fra interessi divergenti è il perno. E la vera conferma del conflitto Tesla è che la parità non è mera reciproca benevolenza, ma anche conflitto, comprese le economie e le democrazie più avanzate, anzi forse specialmente quelle. Non è un caso che azioni di solidarietà contro Tesla avvengono anche in Danimarca, Finlandia e Norvegia dai primi di dicembre scorso. Persino il sindacato collaborativo per eccellenza, quello tedesco, ha aderito, peraltro rendendo noto che negli impianti Tesla del paese accade un incremento enorme del ricorso alle casse malattia.

Ma esaminiamo meglio due aspetti: a) come procedono i ricorsi e i controricorsi alle autorità arbitrali e nei tribunali nel conflitto Tesla; b) in cosa consiste la parità capitale-lavoro e quali ne sono le contraddizioni in Scandinavia ed in Europa.

Il 27 novembre la affiliata Tesla TM Sweden AB ricorre ai tribunali di Solna e Nörrköping esigendo di potere provvisoriamente ritirare personalmente le targhe, saltando i servizi postali, tuttavia fino a sentenza diversa di più alta istanza ciò non è stato concesso all’azienda. Questa ha continuato a ricorrere in ogni sede possibile per ribaltare queste decisioni e recuperare operatività immediata. Ciò che possiamo desumere dal precedente danese del conflitto Vejlegården è che anche laddove tribunali o istanze arbitrali riconoscono danni eccessivi (come il pericolo igienico-sanitario generale dei rifiuti accumulati) le sanzioni sono alquanto leggere, tanto che il nesso parità-possibile conflittualità-azioni di solidarietà non ne risulta affatto indebolito, specie considerando i risultati subito ottenuti. Tantomeno indebolito visto che le risorse, anche economiche, del sindacato nordico sono ingenti, per cui anche sanzioni ben maggiori sarebbero sopportabili. Ed eccoci al secondo aspetto: i fattori ed effetti della parità capitale-lavoro nel contesto nordico.

In generale la storia attesta che l’autonomia delle parti nelle relazioni industriali non corrisponde ad un “consensualismo” (N. Elder, A.H. Thomas, D.Arter, The Consensual Democracies? The Government and Politics of the Scandinavian States, Martin Robertson, 1982) attribuito a volte alle popolazioni nordiche. I paesi nordici vi sono addivenuti in diverse fasi del secolo scorso (prima la già quasi ricca Danimarca, poi le ben più povere e radicalizzate Svezia, Norvegia e Finlandia) ma sempre al termine di cicli di forte conflittualità. Nel caso svedese, peraltro, essa è stata la maggiore d’Europa per decenni, fino alla svolta di Saltsjöbaden del 1938, da cui il sistema attuale origina. Inoltre, in sistemi con socialdemocrazia egemone e stretti legami “della classe” fra partito e sindacato l’autonomia negoziale delle parti è stata preferibile per il padronato (sebbene in condizioni di parità) rispetto all’intervento di governi a frequente dominanza socialdemocratica. È quanto Musk non vuole accettare, e certo il capitale svedese lo osserva con interesse.

La parità ha poi generato accordi per una produttività crescente del lavoro e una profittabilità elevata del grande capitale, che ha compensato i sempre presenti malumori padronali. Quest’ultimo aspetto ha però spesso provocato riflessioni autocritiche del sindacato, da cui nacquero per esempio in parte i progetti di socializzazione, come quelli di Meidner in Svezia e la “Democrazia economica” in Danimarca (P: Borioni, “Economic Democracy and Nordic Socialism”, Social Justice in a global society, a cura di E. Chiappero Martinetti,Annali Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2021). Insomma, il successo delle relazioni industriali relativamente progressive fra lavoro e capitale nei paesi nordici è composto da una prassi di compromesso caratterizzata sia dalla memoria sia dalla possibilità di forti conflitti. Si può utilizzare la metafora della guerra fredda in cui la relativa rarità di conflitti aperti dipende almeno in gran parte dalla Mutual Assured Destruction, cioè dai grandi mezzi impiegabili in un conflitto e dai danni grandi che produce, specie al capitale. Insomma, il compromesso come frutto di una lotta di classe, forte e perlopiù latente, ma anche agìta. Essa consta di molti elementi: elencarli significa comprendere meglio il modello nordico, ma anche i suoi limiti e ridimensionamenti attuali. Innanzitutto, i fondi di resistenza costituiscono un fattore vitale: nel caso della IF Metall ammontano a 15 miliardi di SEK, ben oltre un miliardo di Euro.

La cassa di resistenza dei dipendenti pubblici danesi ammontava nel 2018 a cifre anche più elevate, ma in caso di necessità i sindacati possono prelevare da conti presso banche appartenenti al movimento operaio, oppure da investimenti di vario tipo. In caso di sciopero almeno alcune federazioni coprono interamente le perdite salariali e contributive, mentre in caso di serrata padronale la dirigenza decide caso per caso. L’importanza di questo strumento è certificata dal fatto che in Danimarca alcuni lustri fa un governo “borghese” cercò di abolire le esenzioni fiscali di cui il sindacato godeva. Queste esenzioni, a loro volta, dimostrano come la Socialdemocrazia al governo abbia storicamente contribuito alla parità di classe evitando pesasse troppo il fatto che, come si dice colloquialmente: “la cassa di resistenza del padronato è il capitale”. Ciò è alla base di un concetto di democrazia incrementale (simile al progetto di Brodolini nello Statuto dei Lavoratori, benché diversamente costruito), ed ha anche riguardato le Casse di disoccupazione del “modello Ghent”, (P. Borioni “Il sindacato nordico: caratteri storici e sfide attuali”, Democrazia e diritto, 2013) originariamente frutto di pura mutualità, ma poi sempre più rafforzate dal contributo pubblico prima delle municipalità socialiste, poi dello Stato. Esse, specie quando il tasso di sostituzione del salario si avvicinava all’ultimo salario percepito per anni interi, hanno rafforzato il singolo lavoratore nel rapporto con il capitale, e per mezzo di ciò il collettivo dei lavoratori sindacalizzati. È peraltro impossibile scindere dalle casse “Ghent” un altro fattore di parità: l’alta sindacalizzazione nordica (e non a caso belga).

Infine, un ulteriore elemento della parità è stato il compromesso capitale-lavoro fondato su alti salari ed altissima occupazione, cosa che facilita ovviamente la sostenibilità di quanto abbiamo elencato sopra. Tuttavia, proprio qui possiamo individuare le contraddizioni regressive attuali dei modelli nordici. Come sottolinea spesso il centro studi sindacale svedese Katalys (D. Suhonen, M. Jerneck, E. Gerin, Nytt ramverk för klimatomställning och totalförsvarets behov, “Dagens Industri”, 16 januari 2024) anche i socialdemocratici nordici hanno interiorizzato la priorità dei surplus commerciali e della riduzione del debito pubblico (benché modestissimo) ben oltre ciò che richiede la sostenibilità del sistema. Ciò è passato per un indebolimento dei fattori della domanda interna: salari, capacità di decommodificazione del welfare e segnatamente delle casse Ghent, occupazione comunque meno elevata e qualitativa che ai tempi dell’egemonia socialdemocratica, finanziarizzazione della crescita. Da cui livelli di disuguaglianza crescenti, nonché l’indebolimento della parità: i bastioni del modello nordico, votati ad una democrazia anti-elitista e partecipativa (nonché ad ottenere produttività mediante l’esclusione dello sfruttamento del lavoro) sono in arretramento.

Com’è noto, oltretutto, questo contagio ordoliberale comporta anche l’ostilità nordica verso i paesi ad alto debito, costringendoli a condotte di politica economica che indeboliscono fortemente i sindacati, i lavoratori, le economie e in definitiva le società democratiche mediterranee. Ciò costituisce indirettamente un altro problema del modello nordico attuale, poiché la parità capitale-lavoro, in un sistema integrato come quello europeo, si deteriora se costruita solo in zone ristrette. È una nozione internazionalista che la socialdemocrazia un tempo praticava, ma che oggi, assieme ad altre, è perlopiù ignorata. 

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