ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 208/2024

30 Gennaio 2024

Una politica industriale di sistema per orientare le imprese

Paolo Carnazza e Attilio Pasetto, evidenziano come il policy maker possa trarre utili suggerimenti del recente Censimento ISTAT sulle imprese. In particolare Carnazza e Pasetto sottolineano la necessità di politiche stabili nel tempo, prevedendo il rifinanziamento di strumenti che favoriscono la crescita, come l’ACE e i contratti di rete, allo scopo di facilitare il ricorso alle nuove tecnologie digitali su un orizzonte di medio periodo e di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

In un precedente contributo pubblicato in questa Rivista (Paolo Carnazza, Attilio Pasetto, Il Censimento sulle imprese 2023: luci e ombre del sistema produttivo italiano, Menabò 18 dicembre N.205/2023), abbiamo analizzato i primi risultati del Censimento permanente ISTAT sulle imprese con tre e più addetti al fine di evidenziare i principali fattori di forza e di debolezza del nostro sistema produttivo nel biennio 2021-2022, anche a confronto con le precedenti rilevazioni.

Ai fini della nostra analisi, finalizzata a fornire indicazioni di policy, ci concentreremo in particolare su alcuni fattori di debolezza del nostro sistema produttivo, tra cui la difficoltà a disporre di risorse umane adeguate, il modesto grado di innovatività, la difficile difesa delle produzioni del Made in Italy dalla concorrenza estera, le ridotte dimensioni aziendali (soprattutto a confronto con i principali Paesi industrializzati), la bassa propensione delle imprese a partecipare ad accordi (quali, ad esempio, i Contratti di rete).

Nell’individuare i maggiori ostacoli alla propria capacità competitiva, oltre agli oneri amministrativi e burocratici e alla mancanza di risorse finanziarie, le imprese indicano le difficoltà a reperire personale (19,3%) nonché la carenza di personale qualificato (14,4%). La riduzione del mismatch tra domanda e offerta di lavoro, confermata dai vari report mensili condotti da Excelsior – Unioncamere e attribuibile prevalentemente all’impatto delle nuove tecnologie, appare una priorità sempre più impellente all’interno dell’Agenda del Governo. Si rende quindi necessario affrontare con adeguati strumenti di policy il problema dell’inadeguatezza del sistema delle politiche attive, testimoniata anche dall’accidentato percorso dell’ANPAL.

Risultati nel complesso abbastanza sfavorevoli emergono relativamente alle varie strategie di crescita e di sostenibilità adottate dalle imprese nel biennio 2021-2022 (Figura 1).

Figura 1: Quote percentuali di imprese che non hanno implementato strategie di crescita e di sostenibilità nel biennio 2021-2022

Fonte: ISTAT, Censimento Imprese, 2023

Colpisce in particolare che il 65% delle imprese abbia dichiarato di non avere realizzato alcun investimento sulle tecnologie e sulla digitalizzazione nonostante i cospicui incentivi fiscali previsti dal Piano Nazionale Impresa 4.0 del 2016 e dai successivi Piani volti a favorire gli investimenti nelle nuove tecnologie. Elevata appare, contemporaneamente, la percentuale di imprese che non ha utilizzato alcun servizio Cloud e soprattutto soluzioni di Intelligenza artificiale, prevalentemente tra le imprese di micro e piccola dimensione (Figura 2).

Figura 2: Quote percentuali di imprese che non hanno utilizzato soluzioni di Intelligenza artificiale e servizi Cloud nel biennio 2021-2022

Fonte: ISTAT, Censimento Imprese, 2023

Sulla debole attività innovativa del nostro sistema produttivo, confermata dai dati del Censimento ISTAT e dalla Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia elaborata dal CNR (settembre 2023), oltre alla strutturale bassa dimensione media, hanno inciso due fattori. Il primo è legato alla crescente incertezza che ha caratterizzato lo scenario economico dovuta prima alla pandemia e poi all’invasione della Russia in Ucraina (cui ora andrebbe aggiunto il conflitto in Palestina).

L’altro fattore può essere attribuibile alle difficoltà, soprattutto per le micro e piccole imprese, di comprendere la complessità delle nuove tecnologie e di sapere come utilizzarle, valutando il loro impatto sulla performance aziendale e sulle nuove competenze (sia tecniche che trasversali) richieste.

Le politiche fin qui adottate non sembrano avere spinto le imprese (soprattutto di micro e piccole dimensioni) ad elevare il proprio grado di innovatività. Occorrerebbe a nostro avviso puntare su misure che abbiano un orizzonte temporale di almeno un triennio, confermando e, anzi, rafforzando gli incentivi fiscali finalizzati prevalentemente al miglioramento dell’efficienza energetica e della sostenibilità ambientale. Questi incentivi sono previsti dall’annunciato Piano Industria 5.0 che porterà in dote poco più di 6,3 miliardi di euro e si fonderà su tre concetti chiave: sostenibilità, centralità della persona, resilienza. Contemporaneamente, si avverte la necessità di realizzare massicce campagne informative sul territorio, del resto già intraprese nel passato, volte a dare alle “imprese, soprattutto alle più piccole e ai loro proprietari e manager la possibilità di orientarsi prima di procedere a investire in una o più tecnologie, a partire da un’analisi dei loro fabbisogni per essere competitivi rispetto alla concorrenza nazionale e internazionale” (Stefano Da Empoli, L’economia di ChatGPT – Tra false paure e veri rischi, Egea, ottobre 2023).

Incrociando le varie risposte con le diverse aree geografiche del Paese e con le dimensioni aziendali, i dati dell’ISTAT confermano due nodi strutturali della nostra economia: i forti divari territoriali e la debole performance delle imprese di micro e piccole dimensioni. In particolar modo emerge come le imprese tra 3 e 9 addetti abbiano evidenziato in generale, rispetto alle imprese medie e grandi, una più modesta propensione all’innovazione e all’internazionalizzazione, una minore attenzione rivolta agli investimenti in formazione del personale e alle strategie di crescita e di sostenibilità ambientale. Nonostante questi vincoli, le micro e piccole imprese italiane hanno dimostrato negli ultimi decenni di rappresentare anche un fattore di forza per la nostra economia, grazie a una vitalità e resilienza persino superiore rispetto alle imprese di maggiori dimensioni, e per essere riuscite a collocarsi all’interno di nicchie specialistiche. Ciò ha permesso al nostro Paese di esportare prodotti unici e inimitabili, espressione del Made in Italy. Si segnala, al riguardo, che lo scorso 20 dicembre – proprio per sostenere i punti di forza dei nostri prodotti “tradizionali” – è stato approvato in via definitiva il Disegno di legge sul Made in Italy, che prevede interventi di valorizzazione, promozione e tutela, tra i quali l’istituzione di un Fondo sovrano, (che andrà ora dotato delle necessarie risorse finanziarie), la creazione del Liceo del Made in Italy e l’organizzazione ogni anno di una Giornata nazionale dedicata a questo tema. L’istituzione del Liceo del Made in Italy rappresenta un nuovo indirizzo di scuola secondaria di secondo grado e prenderà il posto dell’opzione economico – sociale del Liceo delle scienze umane, perseguendo la finalità di promuovere le conoscenze, le abilità e le competenze connesse ai settori di eccellenza del nostro sistema produttivo.

Rimane però fortemente necessario adottare incentivi volti a creare condizioni più favorevoli alla crescita dimensionale delle imprese. In tal senso non si riesce a comprendere perché il Governo Meloni abbia abrogato, per esigenze di cassa l’ACE (Aiuto alla Crescita Economica), un’agevolazione diretta a favorire il rafforzamento della struttura patrimoniale delle imprese, che consente una deduzione dal reddito di impresa di un importo corrispondente al rendimento figurativo degli incrementi di capitale proprio. L’obiettivo è la neutralità fiscale rispetto alla scelta delle fonti di finanziamento delle imprese, non svantaggiando gli aumenti di capitale rispetto ai debiti bancari, il cui costo, rappresentato dagli interessi passivi, è deducibile dal reddito d’impresa. L’ACE – che dopo l’introduzione nel 2011 ha sempre avuto una vita controversa, entrando e uscendo nelle varie Leggi finanziarie – andrebbe, a nostro parere, ripristinata e resa permanente per sostenere le strategie di crescita delle imprese italiane, di micro e piccole dimensioni, sottocapitalizzate e a prevalente controllo familiare, come confermato dai dati del Censimento ISTAT 2023.

Un’altra via, indiretta, per superare le problematiche legate alla ridotta dimensione delle nostre imprese è quella di incoraggiare gli accordi, formali e informali, tra aziende di piccole dimensioni. In tale ottica si potrebbe rivitalizzare lo strumento del Contratto di rete, istituito con il Decreto-Legge 10 febbraio 2009, ancora presente nel nostro ordinamento giuridico, ma sprovvisto di incentivi e agevolazioni. Attraverso incentivi e/o nuove forme di facilitazioni (ad esempio l’eliminazione dei diritti di segreteria e di iscrizione presso le Camere di Commercio, la riduzione dei costi per le nuove assunzioni ed altro) si dovrebbe puntare a un aumento significativo delle partecipazioni delle micro e piccole imprese verso questo specifico contratto e, più in generale, verso contratti formalizzati rispetto alle quote assai modeste del 2022 (Figura 3).

Figura 3: Quote percentuali di imprese che hanno aderito a un contratto formalizzato (contratti di rete, ATI, consorzio e altri) nel 2022

Fonte: ISTAT, Censimento Imprese, 2023

Una riflessione di carattere generale riguarda poi l’effettivo utilizzo degli incentivi e delle agevolazioni pubbliche a cui avrebbero fatto ricorso le imprese nel 2022, che appare nel complesso abbastanza modesto (3,5%) e pari ad appena il 2,9% per le imprese tra i 3 e i 9 addetti. Ancora più modesta è la quota di imprese che ha segnalato di avere ricevuto finanziamenti pubblici (Figura 4).

Figura 4: Quote percentuali di imprese che hanno avuto incentivi e finanziamenti pubblici nel 2022

Fonte: ISTAT, Censimento Imprese, 2023

Last but not least, al fine di valorizzare maggiormente i dati del Censimento ISTAT in termini di suggerimenti di policy, è auspicabile che si rafforzino i rapporti tra le varie Istituzioni, come la Banca d’Italia, l’ISTAT e il Ministero delle imprese e del Made in Italy (MIMIT). Appare sempre più necessario creare “gruppi di lavoro che i Governi possono chiamare a raccolta per le policy di lungo periodo o per gli interventi a cuore aperto nel sistema economico e industriale italiano” (Paolo Bricco, Politica industriale relegata ai margini, Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2023).

In conclusione, le indicazioni di policy che si possono trarre dall’ultimo Censimento ISTAT coprono un campo ampio e variegato. Emerge in generale una mancanza di sistematicità nell’adozione da parte dei Governi di turno di alcuni strumenti di politica industriale, che dovrebbero essere rifinanziati costantemente e resi permanenti, al fine di fornire indicazioni certe agli operatori nel medio-lungo periodo. E’ questo il caso dell’ACE, una misura che può contribuire alla crescita sostenibile delle imprese e che ora è stata abrogata, ma anche del Contratto di rete, che andrebbe rifinanziato per favorire le aggregazioni tra aziende che rischiano altrimenti di restare isolate. Un discorso analogo vale per l’ANPAL, su cui occorrerebbe investire per farla diventare il principale punto di riferimento di un mercato del lavoro in cui domanda e offerta faticano ad incontrarsi. Occorre inoltre facilitare il ricorso da parte delle imprese alle nuove tecnologie digitali, adottando misure strutturali, aventi un orizzonte temporale di almeno un triennio, e pubblicizzando maggiormente attraverso una massiccia campagna d’informazione gli strumenti agevolativi esistenti. Un’esigenza di maggiore coordinamento si avverte infine nei rapporti fra le varie Istituzioni superando in tal modo la difficoltà di fare sistema, che da sempre rappresenta uno dei principali problemi della politica industriale italiana.

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