ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 184/2022

18 Dicembre 2022

Un’analisi critica della proposta di riforma delle regole fiscali europee

Dario Guarascio e Francesco Zezza analizzano criticamente la proposta di riforma delle regole fiscali recentemente pubblicata dalla Commissione Europea, concentrandosi su tre dimensioni: i) l’impianto ideologico; ii) il modello teorico e la metodologia adottata per definire i margini di manovra fiscale dei singoli stati membri e, infine, iii) il grado di trasparenza del nuovo sistema anche in relazione ai rischi di conflittualità che possono sorgere tra le istituzioni comunitarie e i governi nazionali.

Il 9 novembre, la Commissione ha pubblicato la proposta che definisce i contorni del nuovo quadro fiscale dell’Unione Europea, quello che dovrebbe sostituire l’attuale sistema definito da Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e Fiscal Compact (FC). Il punto di partenza è il riconoscimento dell’inefficacia e della scarsa trasparenza delle regole attualmente in vigore. A ciò si aggiungono le difficoltà di implementare le procedure sanzionatorie che dovrebbero farle rispettare. Il punto di arrivo è un meccanismo di sorveglianza fondato su di una nuova regola di spesa – al netto di interessi e stabilizzatori automatici – e sullo strumento della ‘Debt Sustainability Analysis’ (DSA), differenziato sulla base delle condizioni macroeconomiche dei singoli stati membri. Nell’analisi che segue proviamo a rispondere a due domande chiave. Il nuovo meccanismo delineato dalla Commissione sarà capace di garantire crescita economica e stabilità finanziaria più delle regole attuali? Aumenterà la trasparenza e si semplificheranno i processi decisionali, riducendo quindi la conflittualità istituzionale tra la Commissione e i governi nazionali? La risposta può essere anticipata ed è – al netto di poco probabili emendamenti migliorativi – negativa, in entrambi i casi. Per sostanziare tale verdetto, analizzeremo criticamente la proposta della Commissione concentrandoci su tre dimensioni: i) impianto ideologico ii) modello teorico e metodologia adottata per definire i margini di manovra fiscale dei singoli stati membri iii) grado di trasparenza del nuovo sistema e rischi di conflittualità tra le istituzioni comunitarie e i governi nazionali. 

In primo luogo, l’impianto ideologico è coerente con il passato. La spesa pubblica – in particolare quella corrente – è una voce di costo da contenere e non uno strumento utile ad alimentare la crescita; e il debito pubblico è considerato – alla stregua di quello privato – esclusivamente come una passività da ridurre. Una prima evidenza di questa impostazione è riscontrabile nella scelta dei termini utilizzati dalla Commissione. L’aggettivo ‘prudente’ è il primo vocabolo associato alla spesa pubblica e ricorre altre 11 volte nel testo. Coerentemente, la spesa è menzionata, come già notato da Piga, sempre in termini di riduzione. Infine, la proposta di favorire il ruolo delle Istituzioni Fiscali Indipendenti (IFI) nazionali nel controllo sia preventivo – in fase di presentazione del piano di spesa – sia ex-post – per la valutazione del raggiungimento dei target intermedi – punta a svuotare ulteriormente i governi del loro potere di indirizzo; una proposta, quest’ultima, che ricompare spesso nelle proposte di riforma anche da parte di accademici di rilievo ma che prosegue nel solco della ‘depoliticizzazione’ della sfera economica.

In secondo luogo, il ricorso alla DSA quale base per definire i margini di manovra degli stati membri perpetua la natura pro-ciclica dell’attuale impianto di politica fiscale. Per comprendere le ragioni di tale affermazione, è opportuno richiamare brevemente gli elementi principali della DSA. Si tratta di un’analisi che si compone di tre stadi o ‘blocchi’. Nel primo blocco – quello deterministico – si definisce lo scenario previsionale di base per il decennio successivo, proiettando le variabili (tasso di crescita, tasso di interesse, inflazione, saldo primario, tasso di cambio, e aggiustamenti stock-flussi) che incidono sul rapporto debito/Pil. Una volta definito, lo scenario di base viene sottoposto a shock di diversa entità, valutandone l’impatto sulla sostenibilità. Nella definizione di FMI e CE, il debito pubblico può essere considerato sostenibile quando il saldo primario necessario per stabilizzarlo – nello scenario di base e negli scenari con shock avversi – risulta essere ‘economicamente e politicamente realizzabile’.

Nel secondo blocco – quello stocastico – viene invece valutata l’incertezza rispetto allo scenario di base utilizzando l’analisi storica della matrice di covarianza, approccio che limita l’imposizione ex ante di nessi causali e permette di valutare l’impatto di shock multipli in termini probabilistici. L’output dei primi due blocchi viene valutato secondo criteri predeterminati – per il primo blocco, livello del debito a t+10, anno di picco, e sforzo fiscale necessario; per il secondo, probabilità che il debito non si stabilizzi nei cinque anni successivi, e grado di incertezza macroeconomica (definita come dispersione nelle traiettorie di debito nei vari paesi). Infine, nel terzo blocco le diverse valutazioni sono tradotte in una mappa ‘a semaforo’, che segnala il livello di rischio del singolo paese rispetto a dei valori soglia – alto per paesi con livello debito/Pil>90%, o il cui picco non sia raggiunto nel periodo di simulazione – e che informa le raccomandazioni della CE in tema di percorsi di consolidamento fiscale (per un approfondimento, si veda il documento esplicativo pubblicato dalla Commissione). 

Per quale ragione il ricorso alla DSA rischia di riprodurre le stesse distorsioni che caratterizzano il PSC aprendo la strada a nuova austerità fiscale? Le principali criticità si concentrano nella costruzione dello scenario di base e, in particolare, nella definizione di crescita potenziale, ‘output-gap’ e connessi saldi strutturali che alcuni avevano erroneamente pensato fossero concetti seppelliti dallo shock pandemico e che, al contrario, sembrano ‘rientrare dalla finestra’. Il modello di crescita utilizzato per generare le traiettorie macroeconomiche della DSA continua infatti a basarsi sull’ipotesi che l’economia tende verso il pieno impiego delle risorse, penalizzando i paesi che affrontano fasi recessive e riducendo lo spazio per le politiche anticicliche. Come in passato, non sembra esserci alcuna considerazione delle interdipendenze economiche tra paesi. Non vengono cioè presi in considerazione gli effetti negativi sul resto dell’area che possono determinarsi a seguito del consolidamento fiscale imposto, secondo i criteri della DSA, negli stati membri ad ‘alto rischio’ (così come gli effetti della mancata espansione della domanda in quelli a ‘basso rischio’). Inoltre, fornendo delle proiezioni macroeconomiche per singolo paese fortemente dipendenti dalle performance osservate nei periodi precedenti e dalle condizioni di partenza, la DSA rischia di approfondire ulteriormente la divergenza tra il centro – dove si collocano la gran parte delle economie considerate a basso rischio che potranno verosimilmente godere di margini di manovra più ampi – e la periferia – dove si concentrano le economie a alto debito e, dunque, ad alto rischio per le quali le prescrizioni in termini di spesa saranno fortemente restrittive. 

Per avere una misura concreta di dove un sistema di regole basato sulla DSA potrebbe condurre l’economia europea, si riporta (Figura 1) la proiezione del rapporto debito/Pil contenuto negli ultimi esercizi di DSA (scenario di base, 2019, 2020 e 2021) condotti dalla Commissione per le quattro maggiori economie europee (Germania, Francia, Italia e Spagna): di questi, ad esito della valutazione di sostenibilità del debito a medio termine, solo la Germania risulta avere un livello di rischio ‘medio’, contro un livello ‘alto’ per Francia, Spagna e Italia. 

Le raccomandazioni derivabili dalle proiezioni della DSA effettuata dalla Commissione per riportare il rapporto debito/Pil su un sentiero di riduzione sono di aumentare il saldo primario strutturale rispetto allo scenario di base per tutti e quattro i paesi, allineandolo ai rispettivi ‘valori storici’ (i.e., al valore medio nel periodo 2006-2020). Si tratta di un aumento significativo dello sforzo fiscale rispetto allo scenario di base: pari, rispettivamente, al 2.2% del Pil per Germania e Spagna, 2.1% per l’Italia, e 1.8% per la Francia. Si noti che queste raccomandazioni sono precedenti l’esplosione del conflitto russo-ucraino e la relativa crescita dell’incertezza per quanto concerne il quadro macroeconomico globale. Ciò rende legittimo supporre che gli scenari di base della DSA saranno rivisti in termini ulteriormente restrittivi, in particolare per quanto riguarda i paesi ad alto rischio, prospettando delle prescrizioni di finanza pubblica tendenti all’austerità laddove servirebbe esattamente il contrario.  

Figura 1: Rapporto debito pubblico-Pil negli scenari di base relativi alle DSA 2019-2021 (FR, GER, IT, SP) 

Fonte: Fiscal Sustainability Report, 2021

Infine, per quanto riguarda il livello di trasparenza del nuovo quadro di governance e i connessi rischi di conflittualità istituzionale, vanno fatte due considerazioni. Da un lato, non si intravedono passi in avanti in termini di trasparenza né una riduzione della discrezionalità delle istituzioni comunitarie nel definire i piani di consolidamento. Se fino ad oggi le criticità avevano riguardato l’uso di un impianto teorico non-neutrale che ha favorito la pro-ciclicità delle misure adottate e la discrezionalità nello ‘specificare’ i modelli econometrici utilizzati per effettuare le previsioni, con l’introduzione della DSA le stesse criticità permangono, ma vengono occultate nei meandri del ‘blocco deterministico’ del modello. Dall’altro, sebbene si affermi di lasciare maggior spazio di manovra ai governi nazionali nel definire la propria politica economica, con il nuovo assetto proposto sarà la CE a proporre un programma di aggiustamento pluriennale, lasciando ai governi la possibilità di rimodulare la composizione della spesa, ma non il livello. Anche in questo caso, le criticità risultano essere molteplici. In primo luogo, il piano di consolidamento approvato dal Consiglio Europeo non potrà essere ridiscusso prima di quattro anni, e la sua revisione dovrà comunque passare per tutte le fasi preposte: proposta della CE, approvazione da parte del governo nazionale, approvazione definitiva del Consiglio. Nel caso in cui si susseguano più governi (o, addirittura, più legislature, nel caso di elezioni anticipate), il ‘nuovo governo’ potrebbe trovarsi ‘ingabbiato’ nel percorso di aggiustamento fiscale approvato da quello precedente, senza la possibilità di poterlo ridiscutere (almeno per un certo periodo). Per coloro che postulano la necessità strutturale di contenere l’intervento dello Stato nell’economia, questo meccanismo può essere considerato un provvidenziale schermo per ‘mettere in sicurezza’ la traiettoria della spesa rispetto ai potenziali rischi di interventi discrezionali posti in essere dal nuovo governo. Dal nostro punto di vista, si tratta di un’ulteriore e deleterio passo avanti in termini di cessione di sovranità e depoliticizzazione della politica economica. Si pensi alle problematiche politiche che potrebbero emergere se ad approvare un piano pluriennale, magari vincolante anche per quanto riguarda le riforme da realizzare (condizione necessaria, secondo quello che è possibile comprendere dal nuovo piano della Commissione, se si intende chiedere una dilazione da 4 a 7 anni per quanto riguarda la durata del piano di consolidamento), fosse un ‘governo tecnico’ caratterizzato da una legittimazione popolare relativamente contenuta. In questo senso, un’ipotesi correttiva, come recentemente suggerito dalla Dezernat Foundation, potrebbe essere quella di legare i programmi di aggiustamento alla durata della legislatura. In secondo luogo, nel caso sia un paese ad alto rischio a decidere di optare per un’estensione del programma di consolidamento (da 4 a 7 anni), ci saranno delle condizionalità macroeconomiche ulteriori che, nel caso non vengano raggiunti i target concordati, implicano l’imposizione di un percorso di aggiustamento più stringente, che limiterà quindi ulteriormente i margini di manovra per i governi successivi.Lo shock pandemico sembrava aver prodotto due conseguenze positive: una seria ridiscussione dell’impianto di politica economica dell’Unione Europea; e la definitiva archiviazione dell’ideologia monetarista con il suo portato di politiche pro-cicliche e austerità fiscale. Al contrario, quello che è possibile comprendere dei propositi di riforma del sistema di governance fiscale sta assumendo le forme del ‘brusco risveglio’ da un’illusione alimentata, fino a questo momento, dalla sospensione del PSC e dal varo del Next Generation EU. Come per il sistema di regole precedente, non è solo l’irrazionalità del piano prospettato che merita di essere denunciata. Quelli che vanno sottolineati sono i danni strutturali che un sistema di governance che persevera nei vizi del passato può causare all’economia europea. In una fase di incertezza globale, con l’Europa che si trova esposta a enormi rischi concernenti la sua dipendenza economica e tecnologica nei confronti di Stati Uniti e Cina (ed energetica dalla Russia), l’adozione di un sistema che riduce i margini di manovra dal lato della domanda – la proposta della Commissione non prevede né una ‘golden rule’ per gli investimenti aggiuntivi rilevanti ai fini della transizione ecologica né forme di capacità fiscale centralizzata tese a supportare gli investimenti finalizzati a rafforzare l’offerta di beni pubblici – è in totale contraddizione con strategie di politica industriale che vogliano seriamente affrontare il ritardo europeo per quanto riguarda le tecnologie digitali e quelle relative alla transizione ecologica. Inoltre, continuare a disegnare la governance fiscale europea avendo come stella polare la prudenza e basandosi su categorie teoriche – come l’azzardo morale – che, perlomeno in ambito macroeconomico, non dovrebbero avere cittadinanza, costituisce il preludio per ulteriore divergenza e rinnovata conflittualità tra gli stati membri, e tra questi e la Commissione. L’esatto contrario di quello che in un momento di instabilità globale come questo servirebbe all’Unione Europea.     

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