ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 195/2023

14 Giugno 2023

La transizione giusta dell’Europa è ancora fuori portata*

Amandine Crespy e Mario Munta intervengono sulla transizione ecologica giusta in Europa. Dopo aver ricordato che per promuovere la dimensione sociale del Green Deal sono stati creati due Fondi, il Fondo per la Transizione Giusta e il Fondo Sociale per il Clima, dei quali illustrano i tratti principali, i due autori sostengono che l’ostacolo principale proviene dalla fiducia che si nutre in Europa sulla possibilità di realizzare una crescita verde, cioè di conseguire l’aumento del PIL disaccoppiandolo dalle emissioni di gas serra.

Dal momento della sua introduzione nel dicembre 2019, il Green Deal europeo ha profondamente rimodellato la politica economica dell’Europa. Il movimento dei gilets jaunes in Francia aveva già segnalato le conseguenze potenzialmente esplosive di una transizione socialmente ingiusta. La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il Vicepresidente responsabile del Green Deal, Frans Timmermans, hanno ripetutamente promesso che la transizione verde ‘non lascerà indietro nessuno‘. Tuttavia, ci sono ragioni per dubitare che sarà così.

Nonostante le buone intenzioni e il linguaggio amichevole, l’Unione Europea non è ancora attrezzata per realizzare una transizione socialmente giusta. Mentre i costi finanziari e umani della mancata transizione aumentano ogni anno, l’Europa ufficiale è bloccata dalla sua fiducia nella ‘crescita verde‘ e non dispone della strategia fiscale necessaria per fare in modo che la transizione sia efficace e giusta.

Due fondi. Per promuovere la dimensione sociale del Green Deal, sono stati creati due nuovi fondi a livello europeo. Il Fondo per la Transizione Giusta, istituito nel 2021, destinato esclusivamente alle regioni dell’Unione fortemente dipendenti dai combustibili fossili per la produzione di energia. Sono previsti due tipi di attività:

  • investimenti verdi per sostenere le nuove imprese e i nuovi posti di lavoro, in particolare per quanto riguarda l’energia pulita e aumento dell’efficienza energetica, ottenuti attraverso l’innovazione e la diversificazione e modernizzazione delle aziende;
  • investimenti sociali nella (ri)qualificazione della forza lavoro colpita, assistenza nella ricerca di lavoro, misure di inclusione attiva, strutture di assistenza all’infanzia e agli anziani, centri di formazione, e riduzione della povertà energetica.

Il Fondo sociale per il clima, istituito all’inizio di maggio, prevede una dotazione di 86 miliardi di euro (con gli Stati che forniscono il 25% dei finanziamenti) per compensare gli effetti diseguali del crbon-pricing e della prevista estensione del “Sistema di scambio dei permessi a emettere” nell’UE (ETS) agli edifici e al trasporto su strada (‘ETS 2’ è stato approvato il mese scorso). Rispetto agli strumenti UE esistenti, il Fondo sociale per il clima è innovativo in quanto è sia compensativo che redistributivo.

A differenza di altri fondi, non si rivolgerà ai territori o ai titolari di progetti, ma finanzierà esplicitamente ‘un sostegno diretto temporaneo al reddito delle famiglie vulnerabili che sono utenti dei trasporti, per assorbire l’aumento dei prezzi del trasporto su strada e del carburante per il riscaldamento’. Il fondo è inoltre progettato per consentire investimenti orientati ai soggetti vulnerabili: famiglie, microimprese o utenti dei trasporti. Si tratta del primo riconoscimento istituzionale dei concetti di povertà energetica e di mobilità.

Soprattutto continuità. Tuttavia, più che rappresentare una svolta politica veramente innovativa, questi due fondi sono strettamente legati con gli strumenti e le logiche politiche esistenti, in particolare con gli ‘investimenti sociali‘ e i rimborsi mirati. Rientrano in una concezione dell’investimento sociale che assoggetta l’intervento pubblico all’imperativo della crescita verde: lo Stato sociale è lì, innanzitutto, per fornire misure mirate, dal lato dell’offerta – come l’investimento in abilità e competenze verdi – e, in secondo luogo, per creare ammortizzatori per una transizione graduale attraverso servizi sociali e sanitari forti, protezione sociale e protezione del reddito. La principale ragion d’essere del Fondo sociale per il clima è quella di alleviare l’impatto sociale previsto, altamente diseguale, delle dinamiche dei mercati del carbonio. 

Chiaramente, gli stanziamenti previsti per i due fondi saranno insufficienti per mitigare questi effetti sociali e sostenere gli investimenti necessari. Lo scorso ottobre il Bundestag ha adottato un piano da 200 miliardi di euro per sostenere le famiglie tedesche che devono affrontare l’impennata dei prezzi dell’energia.

Più fondamentalmente, l’UE sta promuovendo un modello di crescita verde distinto dal paradigma della transizione giusta. Presentando il Green Deal al Parlamento europeo, la von der Leyen lo ha indicato esplicitamente come la ‘nuova strategia di crescita’ dell’Europa. Questa visione è saldamente ancorata all’idea di crescita verde: la convinzione che sia possibile disaccoppiare l’aumento del prodotto interno lordo dalla generazione di emissioni di gas serra. Tuttavia, il disaccoppiamento è molto controverso tra gli scienziati, alcuni dei quali mettono in dubbio la possibilità di raggiungere la neutralità climatica nel prossimo futuro, pur facendo affidamento su di esso.

Infatti, la convinzione che la tecnologia renderà sostenibile il modello produttivista europeo senza doverlo cambiare radicalmente costituisce una faglia scientifica, culturale e ideologica. Per questo motivo, gli Stati membri che ricevono fondi dalla Recovery and Resilience Facility sono tenuti a spenderne almeno il 20 percento per la transizione digitale e almeno il 37 percento per quella ecologica. Resta da vedere se un’economia più digitale sia intrinsecamente più verde.

Visione integrata. La nozione di ‘transizione giusta’ è nata negli ambienti sindacali degli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80. È stata concepita fondamentalmente come un tentativo di risolvere il conflitto tra la tutela degli interessi dei lavoratori e la protezione dell’ambiente. Dopo aver circolato nel movimento sindacale internazionale, in particolare nella Confederazione Internazionale dei Sindacati, il concetto è stato avallato da organizzazioni come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e, più in generale, dalle Nazioni Unite.

A differenza della crescita verde, per la quale l’aumento della produzione continua a essere l’obiettivo principale, la transizione giusta assume come obiettivo economico la salute degli esseri umani e dell’ambiente. Propone una visione integrata, che associa la giustizia distributiva – un’allocazione più equa delle risorse tra gruppi sociali a livello globale – e la giustizia procedurale: promuovere la partecipazione democratica, soprattutto da parte di coloro che sono più colpiti dal cambiamento climatico. Implica la riduzione del dominio del mercato e l’impiego di risorse pubbliche per i beni comuni e i servizi universali, compresi quelli che, pur non essendo redditizi, sono estremamente importanti per una transizione giusta. 

Quattro tipi di disuguaglianza non sono ancora affrontati dall’UE in modo adeguato. In primo luogo, le emissioni di gas serra provengono principalmente dai ricchi, mentre i poveri sopportano maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico. In secondo luogo, l’accesso al lavoro è diseguale in un’economia in cui la crescita del PIL è già minima o nulla. In terzo luogo, i costi derivanti dalle politiche di transizione sono distribuiti in modo ineguale all’interno delle società. Infine, anche i benefici della transizione verde, come cibo sano, infrastrutture resilienti o tecnologia pulita, sono distribuiti in modo diseguale.

Contraccolpi e inversioni di marcia. È ormai chiaro che l’attuazione del Green Deal europeo e degli strumenti di politica sociale che lo accompagnano non rappresenta un nuovo modello economico con radici nella transizione giusta. Vi è di peggio: stiamo già assistendo a un contraccolpo sociale e a un’inversione di rotta politica. Mentre un movimento anti-verde, di estrema destra e agrario (il BoerBurgerBeweging) ha fatto un significativo passo avanti elettorale nei Paesi Bassi, i membri della famiglia politica liberale europea – dal Presidente francese, Emmanuel Macron, ai Freidemokraten tedeschi (FDP) e al Premier belga, Alexander De Croo – così come i conservatori del Partito Popolare Europeo, chiedono una ‘pausa nell’agenda della transizione europea.

Mentre le conseguenze distributive del cambiamento climatico e le politiche attuate per combatterlo si stanno abbattendo sulle società, l’elefante nella stanza è l’assenza di una ampia e coerente strategia fiscale. I dibattiti sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita o sulla possibilità di dare seguito al programma Next Generation UE dopo il 2027 scaturiscono da profonde divisioni tra gli Stati membri e i partiti politici. Il riemergere degli egoismi sociali e nazionali costituisce un serio ostacolo sulla strada di assicurare risorse pubbliche adeguate al finanziamento della giusta transizione in tutto il sistema di governance multilivello dell’UE.


* Questo articolo è stato originariamente pubblicato, in inglese, su Social Europe (www.socialeurope.eu) il 31 maggio 2023. 

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