ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 195/2023

14 Giugno 2023

La riforma spagnola del lavoro: luci e ombre (seconda parte)

Magdalena Nogueira Guastavino nella seconda parte del suo articolo sulla riforma del mercato del lavoro in Spagna presenta alcuni dati sugli effetti della riforma. I contratti temporanei sono molto diminuiti, ma non nel settore pubblico; sono invece cresciuti quelli a tempo indeterminato e l’occupazione totale. Un fenomeno rilevante è la trasformazione dei contratti temporanei in contratti discontinui a tempo indeterminato che getta qualche ombra sull’efficacia della riforma, la quale potrà essere oggetto di revisione anche in base agli ulteriori dati che si renderanno disponibili.

Nella prima parte di questo articolo ho illustrato gli aspetti principali della riforma del mercato del lavoro introdotta in Spagna alla fine del 2021. In questa seconda parte presenterò i principali risultati di quella riforma a un anno di distanza dalla sua introduzione.

Del tutto prevedibilmente sono diminuiti i contratti a tempo determinato mentre sono aumentati quelli a tempo indeterminato. D’altro canto, la disoccupazione è risultata in calo. Infatti, come mostra il Grafico 1, i lavoratori dipendenti nel 2022 sono risultati pari a 17.371.500, con un aumento di 543.300 unità rispetto al 2019; di essi, 14.256.800 di essi sono titolari di un contratto a tempo indeterminato (nel 2019 erano 12.448.300) e i rimanenti 3.114.700 di contratti a tempo determinato, un numero in forte diminuzione rispetto ai 4.397.900 del 2019. 

Grafico 1: Occupazione, contratti a tempo determinato e indeterminato

Il tasso di occupazione con contratti a termine è diminuito drasticamente nel settore privato, ma continua ad un livello inaccettabile nel settore pubblico dove, a differenza del settore privato e malgrado i ripetuti moniti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il legislatore è stato meno severo e ha permesso che l’occupazione temporanea continuasse. Nel Grafico 2 sono riportati i dati nel periodo 2019-2022 da cui risultano sia la caduta della quota dei contratti temporanei nel settore privato sia la sostanziale costante di quella quota nel settore pubblico tra il 2021 e il 2022. Si può aggiungere che, secondo l’ultima indagine sulla forza lavoro, quest’ultima quota è salita al 31,3% nel primo trimestre del 2023, mentre nello stesso trimestre si è ulteriormente ridotta al 13,7% nel settore privato. 

Grafico 2: Quota di contratti temporanei nel settore pubblico, nel privato e nell’Eurozona 

E’, però, importante richiamare l’attenzione sul fatto che l’aumento del numero di contratti a tempo indeterminato è dovuto, in una buona parte ai contratti a tempo indeterminato ma discontinui (i cosiddetti contratti fisso discontinuo, descritti nella prima parte di questo articolo). Nel periodo gennaio-ottobre 2022 (v. Grafico 3) sono stati registrati quasi 2 milioni di contratti a tempo indeterminato-discontinuo, otto volte di più rispetto allo stesso periodo del 2019, con la conseguenza che il loro peso sul totale dei contratti registrati è cresciuto dall’1,2% al 13%. 

Grafico 3: I contratti a tempo indeterminato discontinui

Comunque è rilevante che i primi beneficiari di questa maggiore stabilità sono stati i giovani con meno di 29 anni: la quota di contratti a tempo indeterminato ad essi destinata è passata dal 13% del 2019 al 58% del 2022. Tuttavia, i dati che abbiamo presentato rendono evidente che molti contratti a tempo determinato sono stati trasformati in contratti discontinui a tempo indeterminato e ciò vale in particolare per i cosiddetti “contratti per opere e servizi specifici” che la riforma ha abrogato. Questa trasformazione ha portato alcuni a considerare la riforma un fallimento. Dal canto loro, i sostenitori della riforma sottolineano in particolare l’importanza del cambiamento che si è verificato in un solo anno, e ricordano che l’efficacia di precedenti riforme precedenti non è mai stata pienamente dimostrata. A mio avviso, questo passaggio dai contratti a tempo determinato ai contratti a tempo indeterminato non può essere sopravvalutato, ma nemmeno sminuito. Gli effetti di questo trasferimento sono, comunque, rilevanti.

La stabilità garantita dai contratti discontinui a tempo indeterminato, per quanto minima possa essere (dato che un contratto di lavoro temporaneo può durare due anni di fila e ora un contratto discontinuo a tempo indeterminato può durare solo una settimana, anche se il contratto viene mantenuto e questa settimana viene ripetuta ogni anno), consente alcuni vantaggi per il lavoratore e migliora il legame con le aziende. Dal punto di vista del datore di lavoro, la trasformazione dei lavoratori a tempo determinato in lavoratori discontinui a tempo indeterminato comporta dei vantaggi perché il datore non deve pagare un indennizzo ogni volta che l’attività lavorativa intermittente viene interrotta, mentre quando un contratto a tempo determinato viene interrotto, il datore di lavoro deve pagare un indennizzo di 12 giorni di retribuzione per anno lavorato e un’ulteriore penalizzazione in termini di contributi sociali, se è di breve durata. Infine, anche per i sindacati c’è un vantaggio: i contratti a tempo indeterminato, benché discontinui nel tempo, consentono di elevare il numero di rappresentanti dei lavoratori in azienda. 

Inoltre, uno dei successi attribuiti alla riforma è di essere riuscita anche a ridurre la disoccupazione. Questo è formalmente vero. Il calo del numero di disoccupati è apprezzabile ed è in gran parte dovuto alla riattivazione dell’economia dopo la pandemia e al superamento dei primi mesi di incertezza dovuti all’invasione dell’Ucraina. Inoltre, le forti sanzioni amministrative previste dalla riforma in caso di contratti irregolari possono aver fatto “emergere” molti rapporti che prima si svolgevano nell’economia sommersa.

 Ma il forte calo della disoccupazione in Spagna è anche una conseguenza del fatto che le persone che hanno stipulato un contratto a tempo indeterminato del tipo fisso discontinuo “non contano come disoccupati” perché hanno un rapporto “vivo e attuale” che obbliga il datore di lavoro a richiamarli e malgrado il fatto che durante i periodi di inattività possono ricevere l’indennità di disoccupazione, se hanno i requisiti richiesti. In altre parole, parte del calo della disoccupazione è dovuto semplicemente a un effetto statistico: quando un dipendente con un contratto a tempo indeterminato e discontinuo entra in un periodo di inattività, riceve l’indennità di disoccupazione, ma non viene conteggiato come disoccupato nelle statistiche del Ministero del Lavoro basate sui dati forniti dal Servizio Pubblico per l’Impiego (Servicio Público de Empleo). A sostegno di questa situazione Il Governo argomenta che i titolari di questi contratti intermittenti a tempo indeterminato non sono mai stati conteggiati come disoccupati.

Le statistiche pubblicate ogni mese dal SEPE riportano il numero totale di persone in cerca di lavoro, suddividendole in tre categorie che dal 1985 sono escluse dal dato sulla disoccupazione registrata (Orden de 11 de marzo de 1985 sobre criterios estadisticos). La prima è quella degli occupati, cioè delle persone in cerca di lavoro che hanno già un’occupazione e sono alla ricerca di un lavoro migliore o un ulteriore lavoro compatibile con quello che hanno già. Questo gruppo comprendeva 1,1 milioni di persone a dicembre 2022, ma nei dati non è specificato quanti di essi fossero lavoratori stagionali a tempo indeterminato, una modalità che ha acquisito peso quest’anno dopo la riforma. La seconda categoria è quella delle persone in cerca di lavoro con disponibilità limitata (273.619 a dicembre) e la terza è quella dei disoccupati non occupati, i denos (198.069). Pertanto, la disoccupazione mensile registrata, pari a 2.837.653 unità nel dicembre 2022, non comprende nessuna delle categorie sopra citate. Ma il partito conservatore (Partido Popular) sostiene che questi quasi mezzo milione di disoccupati permanenti inattivi debbano essere aggiunti al numero di disoccupati registrati, in quanto non lavorerebbero in quel momento ed ha promesso una modifica della legislazione per rendere visibile questa nuova realtà. 

La diminuzione della disoccupazione registrata “nasconde” statisticamente la realtà del mercato del lavoro spagnolo: cioè c’è meno disoccupazione, ma più ricerca di lavoro. L’apparente paradosso si spiega con il fatto che le persone con contratti a tempo indeterminato ” fisso discontinuo”, che sono in aumento, cercano lavoro pur non essendo considerate disoccupate nei loro “periodi di inattività”. Quindi, se il calcolo dovesse includere i disoccupati permanenti (anche se il governo non è obbligato a includerli perché le regole statistiche non sono state modificate), i “disoccupati” aumenterebbero di 443.000 unità (che è la cifra menzionata dallo stesso governo nella risposta a un’interrogazione del Senado n. 684/61142, 684/61143, del 7 dicembre 2022); si tratta di un aumento significativo rispetto a quanto è avvenuto con precedenti governi (della stessa o di diversa estrazione politica). Conoscere i dati sui contratti discontinui a tempo è, dunque, rilevante per comprendere la realtà del mercato del lavoro spagnolo.

Infine, per concludere, va notato che negli ultimi mesi sono stati osservati altri effetti indesiderati della riforma. I più rilevanti sono la diminuzione del numero di ore lavorate nel settore privato, che indica una tendenza verso contratti a tempo indeterminato ma solo part-time e, soprattutto, l’aumento del numero di cessazioni di contratti a tempo indeterminato per mancato superamento del periodo di prova.

Pertanto, pur non sottovalutando la riforma e riconoscendo che ha portato a un cambiamento di paradigma necessario e di successo, per esprimere un giudizio definitivo su di essa occorre attendere; ulteriori dati permetteranno di verificare se gli effetti sono quelli desiderati o, invece, sono necessari ulteriori interventi soprattutto per evitare un uso improprio delle nuove norme sul lavoro. Una revisione della riforma, è già espressamente prevista in relazione alla riduzione del tasso di occupazione temporanea (nuova Ventiquattresima disposizione aggiuntiva), ma potrebbe essere necessario rivedere anche altri aspetti per raggiungere il lodevole obiettivo di migliorare i diritti dei lavoratori.

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