ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 195/2023

14 Giugno 2023

I NEET oltre le narrative 

Maurizio Franzini e Michele Raitano cercano di fare il punto sui NEET, cioè sui giovani non occupati e non impegnati in percorsi di studio e di formazione, dopo la pubblicazione dei dati che collocano nuovamente l’Italia in fondo alla classifica dei paesi europei. In particolare i due autori mostrano i limiti delle due opposte narrative prevalenti sui NEET: quella che si tratti di ‘bamboccioni’ e quella che limita ad essi l’area del disagio giovanile. Inoltre, sostengono che l’elevatissimo dato per l’Italia si spiega con il combinarsi, nella definizione di NEET, di una varietà di problemi, ben noti, del nostro sistema economico.

Alla fine di maggio sono stati pubblicati i dati sui NEET relativi al 2022. Come è oramai noto i NEET sono i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni (talvolta tra i 15 e i 34 anni) che non sono occupati, non studiano e non fanno formazione. I dati riferiti all’Italia sono, e non da quest’anno, praticamente i peggiori in Europa e a questo (ulteriore) primato negativo del nostro paese è stato dato grande rilievo sulla stampa, spesso in modo distorsivo rispetto al fenomeno. Si possono, forse, individuare due narrative prevalenti suggerite dal modo di presentare la notizia, che sono probabilmente anche i due modi nei quali quei dati vengono percepiti da gran parte dell’opinione pubblica e forse anche dai policy makers. 

Da un lato, la narrativa dei giovani divanisti, bamboccioni o espressione tipica della presunta “società signorile di massa” di cui al libro di Ricolfi di qualche anno fa. Dall’altro, l’interpretazione di quei dati come prova ‘suprema’ del disagio giovanile, come efficace rappresentazione di questo disagio. La differenza fondamentale è, naturalmente, che nel primo caso la condizione di NEET sarebbe scelta, nel secondo, invece, sarebbe subita.

Vale la pena provare a introdurre qualche elemento che aiuti a orientarsi sulla correttezza di queste diverse interpretazioni e eventualmente a qualificarle, con implicazioni anche per l’utilità di un indicatore certamente spurio come è quello dei NEET, dal quale non si può desumere in alcun modo la volontarietà dello stato. 

Partiamo da come vengono rilevati e misurati i NEET. Si è occupati, quindi non inclusi tra i NEET, se si è lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento per l’indagine campionaria (o si è stati temporaneamente assenti da quel lavoro). Quindi, almeno in teoria si può non essere NEET lavorando 2 ore alla settimana. Per avere un quadro completo del disagio giovanile si tratta di un’informazione non secondaria. 

I giovani 15-29enni che non hanno lavorato neanche un’ora in quella settimana, candidati alla qualifica di NEET, possono poi essere divisi in due (o tre categorie). Quella dei disoccupati in senso stretto, cioè di coloro che sono attivamente alla ricerca di lavoro (nel senso che hanno compiuto almeno un’attività di ricerca nei 30 giorni precedenti e sono disponibili a lavorare immediatamente); costoro possono aver perso un’occupazione oppure non averne mai avuta una. Difficile considerare questi giovani propensi a un uso sistematico del divano. Vi sono poi coloro che non sono impegnati nella ricerca di lavoro (gli inattivi in senso proprio, non quelli di alcuni titoli di giornali che li indentificavano con tutti i NEET) e che, a loro volta, possono dividersi in due categorie: chi, pur non cercando lavoro sarebbe disponibile (entro due settimane) a lavorare (l’ISTAT li colloca nella area grigia) e coloro che, invece, non lo cercano e non sono disponibili (area nera). 

Ovviamente non tutti i disoccupati e gli inattivi sono NEET, ma soltanto quelli tra di essi non impegnati in attività di studio o di formazione nelle 4 settimane precedenti quella della rilevazione (quindi in un periodo di tempo piuttosto limitato). 

Già queste precisazioni contengono elementi che orientano nella comprensione dell’attendibilità delle due opposte narrative di cui si è detto. Tra i NEET vi sono persone che sono attivamente alla ricerca di un lavoro e quindi difficilmente classificabili come divanisti. Inoltre, e soprattutto, tra i NEET possono esservi giovani che hanno avuto e perso un posto di lavoro e, come vedremo, non sono pochi. Possono esservi, altresì, (e vi sono) molti giovani neo-laureati o neo-diplomati che, quindi, in un recente passato il divano lo hanno almeno abbandonato per studiare. 

Ciò consente di ricordare e sottolineare che lo status di NEET è determinato in base alla situazione nella settimana di riferimento e quindi quello status può essere del tutto transitorio. Non disponiamo di elementi per stabilire quanto sia permanente lo status di NEET (naturalmente fino ai 29 anni), un’informazione che sarebbe di grande utilità. Ma di certo le caselle dei NEET sono riempite nel corso del tempo, rilevazione dopo rilevazione, da consistenti, anche se recentemente calanti, numeri di giovani, il che segnala di certo un (e non solo uno) problema ma non indica affatto che per molti o tutti i NEET non lavorare, non studiare e non fare formazione è una scelta di vita. 

La mancanza di conoscenza di quanto persistente sia la condizione di NEET (e quale ne sia la causa) e la connesse possibilità che per molti sia solo transitoria incide anche sulla narrativa del disagio, soprattutto se implicitamente suggerisce che lavorare (o, magari, fare formazione) risolve quel disagio. Vi sono i giovani temporaneamente occupati che torneranno a essere NEET che di certo ampliano l’area del disagio e, soprattutto, vi sono i giovani con contratto a tempo indeterminato ma magari part time, o occupati con una “falsa” partita IVA, che non saranno mai NEET ma che sperimentano un serio disagio a causa del livello indecoroso delle loro remunerazioni e delle modalità di svolgimento della loro attività lavorativa.

Analizzando qualche dato sarà possibile argomentare meglio queste tesi e, anche, interrogarsi su alcune specificità italiane. 

In Italia, nel 2022, i NEET erano il 19% dei 15-29enni. Si tratta di un dato in calo rispetto ai valori dell’anno pandemico 2020 e anche inferiore a quello del 2012 (23,8%). Si tratta del dato peggiore nelle UE-27, se si eccettua la Romania. La media europea è 11,7%, quindi siamo 7,3 punti percentuali (p.p.) al di sopra di quella media (nel 2012 la superavamo di 7,8 p.p.).

Esaminando più in dettaglio il dato complessivo risulta che in Italia le donne NEET sono (relativamente) di più degli uomini (20,5% contro 17,7%) ed è così anche nella media UE (13,1% contro 10,5%). Va però segnalato che vi sono anche paesi (Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Estonia) nei quali vale il contrario (o non vi sono differenze tra i generi). 

Non sorprendentemente, sono molto rilevanti anche le differenze regionali, con sette regioni (tutte meridionali) che superano, spesso largamente, la soglia del 20%. 

Non sembrano riservare sorprese anche i dati relativi alle tre fasce di età: 15-19, 20-24 e 25-29. I valori più bassi si hanno nella prima fascia, verosimilmente a ragione del fatto che molti studiano. E ciò vale sia per gli uomini che per le donne. La fascia di età con i dati peggiori è, però, diversa tra uomini e donne. Per i primi è quella intermedia, per le seconde è quella più elevata: in Italia le donne di età compresa tra i 25 e i 29 anni che sono NEET superano il 30%; solo Romania e Repubblica Ceca hanno dati più elevati. 

In relazione al titolo di studio, i NEET tra i laureati sono il 14% mentre crescono al 20,3% tra i diplomati (e al 19,4% per coloro che hanno soltanto la scuola dell’obbligo). Merita attenzione il fatto che per l’Italia lo scostamento dalle medie europee cresce al crescere del titolo di studio: è del 43% per scuola dell’obbligo ma ben del 75% per la laurea. 

Di interesse è il dato relativo alla divisione del NEET tra disoccupati e inattivi. I primi sono il 6,4% dei 15-29enni quindi circa 1/3 del totale dei NEET. I restanti 2/3 sono inattivi. Prevedibilmente le donne disoccupate sono meno degli uomini (5,9% contro 6,9%) e le donne inattive sono decisamente più degli uomini (14,6% contro 10,8%). Ciò aiuta a comprendere cosa contribuisca e tenere alta la quota di inattivi. Tendenze del tutto simili, ma su scala ridotta, prevalgono anche nell’UE ma vi sono alcune eccezioni: ad esempio in Grecia e Slovenia le donne disoccupate sono più degli uomini e in Lussemburgo i disoccupati pesano più degli inattivi. 

Una accurata interpretazione delle differenze nazionali sarebbe comunque interessante così come sarebbe interessante dare una spiegazione dell’apparente minore influenza che la riduzione del tasso di disoccupazione ha sulla dimensione dei NEET. 

Un esempio: tra il 2012 e il 2022 il tasso di disoccupazione dei 15-29enni è sceso in Italia dall’11,1% (dati Eurostat) al 7,4%; parallelamente il tasso dei NEET è sceso dal 23.8% al 19%. In termini percentuali il primo tasso è caduto del 33,3% e il secondo ‘soltanto’ del 20,2%. Nella media UE i corrispondenti dati sono: caduta percentuale del tasso di disoccupazione del 41% (dal 10,6% al 6,3%) e caduta percentuale del tasso NEET 33,1% (dal 16% all’11,7%). Quindi sembra emergere una ridotta ‘elasticità’ in Italia del tasso dei NEET rispetto al tasso di disoccupazione rispetto all’UE (approssimativamente 60% contro 80%). Emerge quindi una domanda che non sembra priva di interesse: perché in Italia la riduzione della disoccupazione è una cura meno efficace contro il fenomeno dei NEET? Questa domanda ne evocherebbe altre sulla specificità italiana ma le risposte dovranno attendere altre occasioni.

Torniamo alla nostra domanda principale. Presentare in generale i NEET come bamboccioni sfaticati è quanto di più fuorviante si possa immaginare. Abbiamo visto che molti hanno già lavorato e hanno perso il lavoro, moltissimi sono disponibili a lavorare subito e chi non lo è spesso ha ottime e non volontarie ragioni per non esserlo, basti pensare alle donne-madri (nella fascia di età più alta) inattive. Peraltro molti dei NEET rilevati non hanno più lavoro perché si trattava di un lavoro temporaneo; secondo il recente Rapporto CGIL-Action Aid “NEET tra disuguaglianze e divari”, che però si riferisce ai 15-34enni e elabora dati dell’RCFL dell’ISTAT del 2020, si tratta di oltre il 60% dei disoccupati. Se quei contratti non fossero temporanei, i NEET calerebbero e non di poco. 

D’altro canto, per le ragioni già indicate, il disagio di molti non-NEET potrebbe essere più grave di quello dei NEET e ciò consiglia di presentare in modo più problematico il rapporto tra NEET e disagio giovanile. 

In sintesi, il concetto di NEET, e come lo si misura, non sono utili né per individuare il fenomeno dei bamboccioni (che se esiste è di proporzioni decisamente più limitate di quelle che suggerisce questo accostamento) né per delimitare l’area del disagio giovanile. Quindi il consiglio sarebbe di farne un uso assai controllato e di considerare che la specificità italiana nell’altezza del NEET è, con ogni probabilità, il risultato del sommarsi di varie e diverse possibili cause di caduta nello stato di NEET; in particolare: la maggiore dispersione scolastica per le fasce più giovani, le maggiore difficoltà a conciliare vita e lavoro per le donne della fascia di età più elevata, la maggiore diffusione di lavori temporanei e la minore efficacia dei sistemi formativi. Tutti problemi che richiedono molteplici e non semplici politiche e che sono ben noti e rilevanti nel nostro paese, assieme a quello della crescente incidenza del lavoro povero che al giovane NEET in disagio offre la prospettiva di uscire dai NEET ma non dal disagio. 

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