ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 195/2023

14 Giugno 2023

Migranti: Accoglierli o respingerli?

Giorgio Rodano scrive che il declino della popolazione attiva in Italia impone, per sostenere l’economia e il bilancio pubblico, un cambiamento delle politiche nei confronti dei flussi migratori, che non vanno ostacolati ma incentivati. Per evitare che la loro dinamica divenga incontrollabile (una conseguenza del Todaro Paradox), le politiche devono gestire direttamente il trasporto dei migranti (sottraendolo all’economia criminale) e associarlo, col contributo dell’UE, a istituti di accoglienza e formazione efficienti e mirati.

Un mio lavoro di qualche anno fa (2018) sul tema delle Migrazioni si apriva con la domanda: accoglierli o respingerli? Rispetto ad allora su questo punto non ho cambiato opinione, sicché la mia risposta resta la stessa, netta e senza sfumature: accoglierli. Si possono avanzare parecchi argomenti a sostegno di questa risposta. Il più nobile può essere espresso con le parole del poeta inglese John Donne (riprese nel secolo scorso da Ernest Hemingway):

Nessun uomo è un’isola, / completo in se stesso. / Ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte del tutto. / Se anche solo una zolla venisse portata via dal mare, / la terra ne è diminuita, / come se un promontorio fosse stato al suo posto, / o una magione amica o la tua stessa casa. / Ogni morte d’uomo mi diminuisce, / perché io partecipo dell’umanità. / E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: / essa suona per te.

Ma, pur sottoscrivendo senza riserve il messaggio contenuto in questi magnifici versi, io non sono né un poeta né uno scrittore e perciò darò una risposta diversa, più in linea con le mie competenze di (ex) studioso di economia e che può essere compresa anche da coloro che soffrono di assenza di empatia (eufemismo). Questa risposta è: si devono accogliere i migranti perché conviene. Conviene al bilancio dello Stato, perché la maggioranza dei lavoratori immigrati lavora e paga le tasse. Conviene perché i contributi versati dai lavoratori immigrati diventeranno sempre più indispensabili per finanziare le nostre pensioni, visto che l’Italia è da anni in piena crisi demografica: avremo sempre più vecchi e meno giovani; nel 2050, se non cambia qualcosa, raggiungeremo la parità tra pensionati e attivi; e puntare sull’incremento delle nascite è indispensabile ma non risolve, perché nel frattempo sono diminuite le donne fertili, e comunque ci vogliono vent’anni per “costruire” un lavoratore. Conviene perché non è vero che gli immigrati “tolgono il lavoro agli italiani”: il nostro mercato del lavoro è così segmentato che le zone in cui italiani e immigrati competono per lo stesso posto sono assolutamente marginali. Conviene perché gli immigrati fanno aumentare il Pil (e il suo tasso di crescita): ci sono calcoli che mostrano che senza immigrati il nostro Pil (come anche quelli degli altri paesi) sarebbe stato significativamente più basso; e, volgendo lo sguardo al futuro, altri calcoli mostrano che, anche solo per reggere il ritmo medio di crescita dell’Eurozona nel lungo periodo, il flusso annuo di immigrati nel nostro paese dovrebbe essere decisamente maggiore di quello attuale (quasi il doppio).

E allora perché l’opzione dell’accoglienza non è vincente nel paese (e incontra forti difficoltà anche negli altri paesi europei)? Perché la legislazione è costruita (a dire il vero, senza grande successo) per ostacolare i flussi di migranti verso il nostro paese? Perché, se si facesse un sondaggio con la domanda con cui ho aperto questo intervento, è probabile che oggi la maggioranza degli italiani voterebbe per respingere i migranti?

Sono state date varie risposte. Qui, di nuovo da vecchio studioso di economia, mi soffermerò su una sola, quella che fa riferimento al cosiddetto Todaro paradox. Questo paradosso è stato illustrato per la prima volta in un lavoro di parecchi anni fa (Harris & Todaro, AER, 1970) con riferimento ai flussi migratori interni tra campagne e città. Ma può essere adattato (vedi per esempio il mio lavoro del 2018) anche ai flussi migratori dall’estero verso un paese. Esso afferma che, sotto condizioni parecchio generali, se nel paese si manifesta una domanda di lavoratori immigrati (Δx> 0), allora il flusso di immigranti verso il paese (Δx> 0) sarà sistematicamente maggiore (Δx> Δxd). Nella versione semplificata del modello di Harris & Todaro che ho proposto nel mio lavoro, il flusso migratorio in eccesso alimenta l’economia irregolare (“sommersa” e/o “criminale”); in versioni più generali alimenta anche la disoccupazione.

Non ho lo spazio qui per illustrare il modello (su cui rinvio al mio precedente lavoro) ma la sua logica è stringente (la decisione di emigrare viene modellata come una scelta razionale). Il paradosso si manifesta perché la frontiera dell’Italia (il paese ricevente) è porosa, e ci è precluso chiuderla: ce lo impediscono la Costituzione e i Trattati internazionali (non è possibile impedire l’accoglienza di chi ha diritto all’asilo e perciò lo sbarco di chi lo richiede); ce lo impedisce il fabbisogno di migranti “regolari” da parte delle famiglie e delle imprese (sicché appunto Δx> 0); ce lo impedisce la geografia. Gli effetti del paradosso aiutano a spiegare l’ostilità degli italiani (e anche degli altri abitanti dei paesi europei) nei confronti degli “invasori”: i migranti in eccesso rispetto alla richiesta (Δxs – Δxd) condizionano il giudizio sul fenomeno delle migrazioni. E spiegano anche le caratteristiche delle politiche adottate in Italia nei loro confronti: l’obiettivo è quello di contrastarle, cercando di limitarle (col contagocce) ai cosiddetti migranti “regolari” e ai richiedenti asilo (concesso condizioni sempre più restrittive). Per tutti gli altri, per i quali è stato introdotto (nel 2009 dal governo Berlusconi IV) il reato di clandestinità, l’accesso è precluso e, quando avviene, è prevista l’espulsione e il ritorno al paese di provenienza. Il modello di riferimento è quello della cosiddetta “soluzione australiana”, quella per cui i migranti indesiderati vengono respinti e “deportati” (a spese del governo australiano) in campi di raccolta in paesi vicini. Da noi questa soluzione è impraticabile: lo impediscono i numeri (che in Italia sono molto maggiori che in Australia) e i costi che graverebbero sul nostro malandato bilancio. Di conseguenza le espulsioni, costose e difficili da mettere in pratica, sono restate largamente sulla carta, col risultato che la stragrande maggioranza dei “clandestini” è rimasta nel paese senza però poter accedere al mercato del lavoro regolare. Un bell’esempio di politica autolesionista, col corollario di accrescere (e in parte rendere comprensibile) l’ostilità dell’opinione pubblica nei confronti di tutti gli immigrati.

Ancora un’osservazione. Dato che la maggioranza dei migranti che approdano nel nostro paese lo considera una tappa intermedia verso la meta costituita dai paesi del Nord Europa e cerca in tutti i modi di proseguire il proprio viaggio, la composizione degli immigrati in Italia subisce una sorta di “selezione avversa”: i migranti più skilled e più motivati riescono in maggioranza a proseguire (con difficoltà e con alterni successi) il loro viaggio, lasciando indietro quelli di qualità “inferiore” dove andranno a ingrossare le file degli addetti nell’economia irregolare. Questo significa, inoltre, che la gestione del problema dei migranti non può essere trattata come una questione solo italiana. E la storia recente mostra che l’Europa non ci sta aiutando; anche se vedremo che, se il nostro approccio alle politiche verso le migrazioni fosse diverso, anche l’atteggiamento dell’Europa nei nostri confronti potrebbe cambiare.

Quando parlo di approccio diverso mi riferisco ai punti seguenti. Primo: cambiare la legislazione. La Bossi-Fini ha fatto largamente il suo tempo e il reato di clandestinità è un assurdo giuridico, che oltretutto provoca effetti controproducenti. Per citare il vecchio Fouché, “è peggio di un crimine, è un errore”. Visto che abbiamo bisogno di più immigrati, il problema della politica e della legislazione dovrebbe essere quello di favorirne l’arrivo, l’accoglienza e l’integrazione. Ma come si fa ad aprire le frontiere ai flussi migratori senza essere travolti da un’ondata disordinata e ingovernabile di “barbari”? Per dirla in un altro modo, come ci si può confrontare con le implicazioni del Todaro paradox?

Questo ci porta al secondo punto. La mia opinione è che sia necessario rovesciare completamente l’impostazione fin qui seguita per cercare di tenere sotto controllo (con scarso successo) il flusso dei migranti. Fino a oggi le nostre istituzioni hanno agito di rimessa, perché la gestione degli ingressi è stata lasciata ad altri, nel senso che il businessdei viaggi dei migranti è stato in mano alle organizzazioni criminali, che si sono arricchite fornendo servizi di trasporto costosi e di qualità indegna, che sottopongono i viaggiatori a rischi altissimi. I nostri interventi si sono limitati ad operazioni di pattugliamento e di salvataggio. Quindi non è stata l’Italia a stabilire i numeri degli immigrati. Non sorprende certo, allora, che il loro flusso sia stato disordinato e incontrollabile.

Dato che la domanda di trasporto da parte di chi vuole raggiungere l’Italia e l’Europa esiste e proviene da soggetti che sono disposti a pagare parecchio, l’offerta fornita dai mercanti di morte può essere stroncata solo con la concorrenza, ossia offrendo servizi di trasporto regolari (pubblici o regolamentati), di qualità migliore e a costi più contenuti, a tutti coloro che intendono usufruirne. I benefici attesi di un siffatto approccio sono evidenti. Tanto per cominciare, far pagare ai migranti i servizi di trasporto regolari invece che i servizi degli scafisti farebbe risparmiare loro e farebbe risparmiare anche le risorse che lo Stato italiano ha destinato finora al controllo dei flussi migratori (le azioni di pattugliamento e quelle di salvataggio costano). Anzi, per il bilancio pubblico si passerebbe da un saldo passivo a uno attivo. C’è un secondo, importante beneficio atteso. Facendo emergere un’offerta di trasporti regolari dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo verso le coste italiane, diventerebbe possibile attivare sistemi che consentano di regolare meglio i flussi. Una possibilità, per esempio, sarebbe quella di aprire sportelli di prenotazione (presso le ambasciate, i consolati o, più banalmente, presso i gestori dei servizi di trasporto) e, sulla base del loro numero, di liste di attesa, da organizzare non sulle sponde del Mediterraneo ma nei paesi di provenienza. Si tratterebbe, cioè di estendere a tutti la possibilità di accedere a uno strumento che, attualmente, è disponibile solo per coloro che dispongono dei permessi di lavoro stabiliti annualmente dal cosiddetto “Decreto flussi”. È vero che un sistema del genere avrebbe l’effetto di incentivare le partenze verso l’Italia (e l’Europa) perché, eliminerebbe gli attuali vincoli, abbasserebbe i costi dei viaggi e li renderebbe imparagonabilmente più sicuri. Nonostante ciò, il meccanismo della concorrenza toglierebbe spazi ai trasporti irregolari e perciò terrebbe sotto controllo i meccanismi che producono il Todaro paradox: quale sarebbe la scelta razionale di fronte all’alternativa di aspettare per poter usufruire di un trasporto più economico e sicuro e quella di partire prima con un sistema di trasporti più costoso e rischioso?

Vengo al terzo punto. Il sistema può essere perfezionato per dare una risposta anche al fatto che, per i migranti, l’Italia è un paese di transito, e al fatto che coloro che arrivano sulle nostre coste sono in maggioranza low-skilled. L’idea è che un modo efficace per tenere sotto controllo il numero dei migranti in entrata è quello di condizionare a un impegno vincolante il loro accesso ai servizi di trasporto regolari: l’impegno sarebbe quello di partecipare, una volta sbarcati, a corsi di alfabetizzazione e di formazione (da tenere in strutture residenziali che sostituiscano gli attuali centri di accoglienza); il superamento degli esami finali diventerebbe la condizione per ottenere un attestato di conoscenza della lingua e di specifici requisiti professionali da spendere sul mercato del lavoro; questo attestato sostituirebbe il permesso di soggiorno. Se questi corsi verranno organizzati e finanziati in joint venture con l’Europa, il superamento degli esami consentirà anche di ottenere un titolo che autorizza il migrante formato a proseguire il suo viaggio (in tal caso i programmi di alfabetizzazione dovrebbero essere modulati secondo le principali lingue europee). È chiaro che questi corsi e i relativi esami devono essere una cosa seria. Vanno risolti problemi non banali di organizzazione e di reperimento di risorse, personali (docenti et al.) ed economiche. Ma, se l’Italia svolgerà questo servizio per tutta l’Unione europea, candidandosi a diventare un polo di ingresso e formazione deputato a trasformare i migranti nella forza-lavoro qualificata di cui tutte le economie del nostro continente hanno bisogno, allora diventa sensato coinvolgere l’Unione europea e i paesi delle principali mete finali dei flussi migratori nell’organizzazione e nel finanziamento di questa struttura.

Se realizzata, questa soluzione rovescerebbe completamente l’approccio seguito negli anni passati dalle politiche sulle migrazioni. Essa avrebbe tra l’altro il merito di trasformare i migranti da problema (di ordine pubblico, di tensioni sociali e naturalmente di costi) in occasione e anche – perché no? – in possibile fonte di reddito e di attività economica, anche nel breve periodo. Fonte di reddito e di attività soprattutto per gli italiani, che forse proprio per questo potrebbero cominciare a vedere gli immigrati con occhi diversi. È chiaro che la strada per realizzarla è irta di difficoltà. Ma a mio parere ha senso provarci.

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