ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 183/2022

30 Novembre 2022

Rilanciare l’occupazione femminile: investire e cambiare il lavoro

Maddalena Cannito affronta il tema dell’occupazione femminile in Italia, ripensando alcuni assunti in tema di lavoro e di conciliazione famiglia-lavoro. In particolare, Cannito mostra i limiti di un approccio concentrato sulla sola promozione della partecipazione femminile al mercato del lavoro e richiama l’attenzione su due temi largamente assenti nel dibattito pubblico e politico: il ruolo maschile nella cura dei figli e la necessità di cambiare i modelli lavorativi dominanti.

Il 22 novembre, in occasione della conferenza stampa per illustrare il Disegno di legge di bilancio per il 2023, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato una modifica al congedo parentale che prevede un mese aggiuntivo facoltativo con un’indennità pari all’80% dello stipendio, anziché del 30%. Nel suo annuncio la Presidente ha specificato che il provvedimento si configura come “una specie di piccolo salvadanaio del tempo che le madri possono tenere da parte e utilizzare nel caso in cui dovessero avere situazioni di difficoltà senza per questo doversi ritrovare in condizioni economiche particolarmente difficili”. Il testo della manovra non è ancora disponibile, però è interessante notare che nel discorso vengono citate le sole madri, nonostante il congedo parentale nasca come misura espressamente pensata per la condivisione della cura tra entrambi i genitori.

Questa premessa è utile per aggiungere un tassello alla riflessione attorno a un tema centrale nel dibattito pubblico e politico contemporaneo: come far crescere l’occupazione femminile. Obiettivo di questo contributo, infatti, è focalizzare l’attenzione sull’assenza della paternità dal discorso che è determinata dalla mancata problematizzazione degli assunti di genere che sottostanno a due dimensioni, strettamente interconnesse: la conciliazione famiglia-lavoro, da un lato, e i modelli lavorativi, dall’altro.

Prima di entrare nel merito, alcuni dati di contesto sono necessari. In primo luogo, il tasso di occupazione delle donne italiane fra i 15 e i 64 anni è passato dal 45,9% del 2010, anno in cui si sono manifestati gli effetti della crisi recessiva del 2008, al 50,1% del 2022 a fronte di un tasso di occupazione maschile assestato attorno al 68%. Un altro elemento interessante è che, mentre i tassi di disoccupazione sono simili per genere, il tasso di inattività femminile nel 2022 è più alto di oltre 18 punti percentuali rispetto a quello maschile. Le donne italiane, infatti, sperimentano la cosiddetta “trappola dell’inattività” cioè quando escono dal mercato del lavoro rimangono più a lungo senza un’occupazione e senza cercarne una nuova. In questo contesto, la presenza di figli minori, soprattutto sotto i 3 anni, gioca un ruolo fondamentale: da una parte, determina un abbandono del lavoro retribuito delle donne per le difficoltà legate alla conciliazione  che spesso sfocia, appunto, in una prolungata inattività. Dall’altra, determina un drastico aumento del divario tra i tassi di occupazione di uomini e donne (87,7% vs 57,1% nel 2020), che cresce all’aumentare del numero di figli. È ormai noto, infatti, in letteratura (Naldini, La transizione alla genitorialità, 2015) che nelle coppie eterosessuali italiane la transizione alla genitorialità produce una ri-tradizionalizzazione dei ruoli anche in quelle originariamente più paritarie.

Alla luce di questi dati e guardando anche alle esperienze di altri Paesi europei come la Svezia, in cui il tasso di occupazione femminile nel 2019 ha raggiunto quasi il 79%, viene da chiedersi cosa manca nel contesto italiano. La spiegazione che chiama in causa soltanto un generico “tradizionalismo” nei modelli di genere non sembra sufficiente né è oramai appropriata, soprattutto alla luce dei mutamenti nei corsi di vita delle giovani donne italiane che, per esempio, sempre più investono nell’istruzione. Come anticipato, a mio avviso, sono due gli elementi problematici su cui riflettere.

Il primo riguarda il modo in cui viene concepita – e, dunque, anche sostenuta nelle politiche – la conciliazione tra famiglia e lavoro. Quest’ultima è stata ed è ancora oggi declinata al femminile presupponendo che la gestione della cosiddetta “doppia presenza” sia un problema delle donne. L’intervento della Presidente Meloni nella conferenza stampa sopracitata ne è un chiaro esempio. Eppure, è proprio la mancata maschilizzazione dello spazio privato – alla base della unfinished revolution (Gerson, The Unfinished Revolution, 2010) – che continua ad essere uno dei principali ostacoli al coinvolgimento femminile nel mercato del lavoro. Inoltre, al netto della dimensione di genere sottostante al discorso sulla conciliazione, l’insistenza del paradigma dell’investimento sociale su occupabilità e occupazione si limita a considerare solo una parte del binomio, la promozione della partecipazione femminile al lavoro retribuito, lasciando in ombra la questione del tempo per la cura. In questo modo, la cura cessa di essere un diritto da preservare (conciliandolo, appunto, con il lavoro), ma diventa soltanto un ostacolo e le politiche di conciliazione finiscono per essere soltanto un mezzo per permettere agli individui di liberarsi della cura e impegnarsi nel mercato del lavoro. Peraltro, proporne l’esternalizzazione, in un contesto come quello italiano in cui le preferenze in merito alla cura per i bambini piccoli vanno nella direzione opposta, difficilmente o comunque solo parzialmente può incoraggiare le madri a rimanere nel mercato del lavoro, né tantomeno può aiutare a modificare le pratiche di genere e di genitorialità sul versante maschile. Infatti, l’esaltazione dell’occupazione, tratto fondamentale della costruzione normativa della maschilità, difficilmente è in grado di promuovere una cura anche al maschile e, anzi, rischia semmai di rafforzare l’identificazione degli uomini con il ruolo di breadwinner che la società storicamente prescrive loro.

L’altro aspetto su cui riflettere è quello del lavoro. Intanto, è fondamentale porsi il problema della sua qualità. Anche in questo caso, qualche dato di contesto ci viene in aiuto. Le donne sono più frequentemente assunte part-time (24% contro l’8% degli uomini), molto spesso involontario, e con contratti precariLa situazione non cambia anche con l’introduzione di incentivi all’occupazione che tendono, al contrario, a rafforzare le criticità strutturali che caratterizzano la partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. Oltre a questi aspetti che non incoraggiano la permanenza femminile al lavoro e che ne determinano l’intermittenza, non si può sottovalutare l’impatto dei modelli lavorativi iperintensivi che caratterizzano gli ambienti di lavoro. L’Italia, infatti, è uno dei Paesi in cui si lavorano più ore settimanali, ben oltre l’orario standard, e in cui si premiano, in termini di reputazione e di carriera, coloro i quali sposano il modello del lavoratore ideale (ideal worker model). Questo modello ha delle ben note implicazioni di genere perché presuppone un individuo libero dai carichi di cura e, dunque, da un lato, non si confà alle aspettative sociali che associano femminilità e ruolo di caregiver; dall’altro, fa sì che, come risulta da un’elaborazione di dati Istat, il 70% degli uomini lavori dalle 40 ore a settimana in su, non permettendo loro di sperimentare altre forme di partecipazione al mercato del lavoro – e, di conseguenza, alla vita familiare – tanto che, una volta diventati padri, addirittura intensificano l’impegno lavorativo aderendo ancor di più al ruolo di breadwinner.

Il combinato disposto di questi due elementi è l’assenza della paternità dal discorso sull’occupazione femminile e dalle politiche pensate per sostenerla, soprattutto quelle di conciliazione. A onor del vero anche in Italia qualche timido tentativo è stato fatto in tempi recentissimi. Proprio a luglio di questo anno è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 105/2022 che ha stabilizzato una serie di misure specificatamente dedicate alla conciliazione dei padri. Intanto, il congedo di paternità obbligatorio è stato reso strutturale e non più sperimentale e, finalmente, esteso anche ai dipendenti pubblici; inoltre, la sua durata è stata fissata in dieci giorni retribuiti al 100%. In secondo luogo, sono stati modificati i congedi parentali includendo anche i padri lavoratori autonomi e prevedendo nove mesi indennizzati al 30% dei quali tre sono individuali, cioè non trasferibili da un genitore all’altro e, dunque, vengono persi se non sono usati. 

Questo aspetto è molto importante perché nella precedente normativa i mesi indennizzabili erano solo sei per la coppia, con l’esito che solitamente erano le madri a utilizzare tutto il periodo mentre ai padri restava la sola fruizione di periodi di congedo non indennizzato. Tuttavia, queste politiche sono, ad oggi, del tutto insufficienti per promuovere un’effettiva condivisione della cura. Per averne conferma basta considerare, ad esempio, che in Spagna sono previste 16 settimane di congedo di paternità obbligatorio. E tutto ciò con la prima Presidente del Consiglio donna, così come del mondo politico in generale, che continua a parlare di conciliazione (ma non della sua carica) al femminile.

Per queste ragioni, si dovrebbero recuperare le riflessioni di Fraser che ormai risalgono a quasi trent’anni fa (Fraser, in Political Theory, 1994). Per promuovere l’occupazione femminile e un’uguaglianza di genere effettiva non basta incoraggiare un modello di coppia dual earner, ma è necessario promuovere anche un modello dual carer in cui non solo l’impegno nel mercato del lavoro, ma anche la cura dei figli viene condivisa fra i partner. Ciò che manca a livello di policy in Italia, allora, non sono (sol)tanto gli incentivi all’occupazione femminile, quanto un ripensamento profondo delle politiche per la cura e dell’organizzazione del lavoro. Orientare le politiche al solo potenziamento dei servizi per esternalizzare la cura o al mero (episodico) sostegno economico entro una cornice iperlavorista non può funzionare. Occorre tematizzare anche la questione del diritto al tempo di cura. Ovviamente sia delle madri che dei padri. 

Schede e storico autori