ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 189/2023

14 Marzo 2023

Paolo Brunori, Annaelena Valentini,

Abbasso la meritocrazia? L’equivoco di una giustizia sociale basata sul merito

Paolo Brunori e Annaelena Valentini temono che la nuova denominazione del Ministero dell'Istruzione e della meritocrazia contribuisca a confondere il principio di efficienza, che richiede di assegnare i ruoli sociali in base al talento e all'impegno, con il principio di giustizia sociale, che legittima le diseguaglianze che ne derivano. La conseguenza è che si rischia di non prestare attenzione al vero problema: la meritocrazia da sola fallisce nel creare benessere inclusivo, l'obiettivo fondamentale della giustizia sociale.

L’aggiunta del termine “merito” nella denominazione del Ministero dell’Istruzione ha innescato un dibattito riguardo al principio meritocratico. Una discussione purtroppo sterile, soprattutto perché vaga, a cominciare dalla mancanza di una chiara distinzione fra meritocrazia come sistema di allocazione di ruoli sociali e l’interpretazione che invece la considera anche un criterio di giustificazione morale delle disuguaglianze. Una discussione viva anche altrove, si veda ad esempio il recente contributo di Carlos Gil Hernández, un dibattito vecchio di decenni, che ha la sua origine nel Regno Unito. Non a caso il nostro titolo è ripreso da un articolo di Michael Young, apparso sul Guardian nel 2001di cui condividiamo il messaggio: la meritocrazia è un problema. 

Nel nostro paese l’idea di una società meritocratica è spesso ammantata da un alone di sacralità. Il motivo principale è che a chi vive in Italia viene naturale contrapporla a forme di organizzazione nelle quali il successo sociale ed economico è perseguito e ottenuto attraverso legami personali. Legami familiari, di partito o attraverso l’adesione a organizzazioni corporative, massoniche quando non addirittura mafiose. Si tratta di una reazione comprensibile in un paese in cui è pervasiva un’etica in cui gli individui danno priorità all’utilità della propria “famiglia”, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Un’etica identificata già da Edward Banfield, nei suoi studi degli anni ’70, come principale causa dell’arretratezza socio-economica delle comunità della penisola. 

Una società in cui i vincitori sono definiti dall’appartenenza o dalla nascita in un gruppo è una società ingiusta, che esclude qualcuno dalla possibilità di avere successo per via delle sue origini, è ingiusta soprattutto perché non inclusiva. Anche se apparentemente questo ha a che fare con la violazione di un diritto individuale, diritto ad avere le stesse opportunità di riuscita, è un errore pensare che un sistema meritocratico sia un sistema immune da questo stesso difetto. 

L’ambiguità della desiderabilità del paradigma meritocratico è alimentata dal fatto che questi sia presentato come una valida alternativa a sistemi nei quali la famiglia d’origine, o altre connessioni personali, giocano un ruolo determinante nell’assegnazione dei ruoli di responsabilità, di prestigio o ben remunerati. Il sostegno al programma meritocratico, condiviso largamente sia da persone vicine agli ideali liberali che da coloro che si dichiarano più attenti ai diritti sociali sostanziali, deriva, infatti, dalla percezione che si tratti di un progetto di rimozione dei fattori ingiusti di allocazione del benessere e delle posizioni sociali. Questo punto di vista rischia di sedurre al punto tale da confondere il principio di efficienza che giustifica un sistema di accesso alle posizioni sociali basato sul merito (definito come quoziente intellettivo, competenze sociali o qualsiasi cosa che massimizzi la congruità dell’individuo con il ruolo ricoperto) con il principio di giustizia sociale che, inoltre, giustifica le disuguaglianze che ne derivano. L’entusiasmo per l’abbandono di una società arretrata e ingiusta rischia di indurci ad accettare acriticamente che il modello meritocratico possa fondare una società giusta, nella quale cioè le diseguaglianze hanno una giustificazione morale. Un sistema nel quale i vincitori, quelli che emergono e si arricchiscono, lo fanno perché lo meritano, essendo i più talentuosi o diligenti, non i raccomandati o i “figli di”. 

Abbracciare la meritocrazia come principio di giustizia sociale presenta però delle criticità. Non siamo i primi a sottolineare quanto il programma meritocratico sia scivoloso. Si vedano su questo i recenti interventi di Andrea Boitani su Lavoce.info e di Elena Granaglia sul Menabò

Le critiche però hanno principalmente puntato il dito sull’inefficacia del programma, su una sua mancata completa realizzazione, sostenendo che anche nelle società più meritocratiche sono comunque i figli dei ricchi ad emergere, coloro che si possono permettere di studiare e di assumere dei rischi. Il programma meritocratico per i cittadini di domani è infatti difficilmente realizzabile se la distribuzione della ricchezza dei loro genitori oggi è molto diseguale. Ma criticare il progetto meritocratico perché non completamente realizzato distoglie l’attenzione dalle criticità insite nel progetto stesso. Un punto sollevato da Young è il seguente: in una società meritocratica in cui la diseguaglianza non ha una connotazione negativa né neutra, ma ha una giustificazione morale, a risentirne è la tenuta sociale. Infatti, la diseguaglianza non sparisce, poveri ed emarginati continuano ad esserci, ma la loro condizione è aggravata dal fatto che, vivendo in un mondo in cui emerge chi lo merita, se sono poveri e se hanno fallito la responsabilità è loro. A questa considerazione aggiungiamo una critica, se possibile ancora più radicale. 

Ammettiamo che la meritocrazia si realizzi pienamente, che emergano le persone più intelligenti, dedite o adatte ai ruoli di prestigio assegnatoli, e che le condizioni ambientali di partenza non abbiano più nessun ruolo nel determinare le fortune economiche individuali. In questa società il fattore fondamentale che determina il successo economico delle persone è il corredo genetico (ci permettiamo qui di non entrare nel dibattito riguardo all’esistenza del libero arbitrio; per una discussione si veda il volume di Marc Fleurbaey Fairness, Responsibility, and Welfare pubblicato nel 2008. I successi e i fallimenti della vita sono totalmente determinati dalla propria predisposizione ad impegnarsi e primeggiare. In quale misura l’estrazione ad una lotteria può essere considerato un modo giusto di avere successo nella vita? Nessuno di noi “merita” né le sue capacità naturali né la sua posizione di partenza nella società. 

Non c’è nulla di giusto o ingiusto nella ineguale distribuzione dei talenti. Allo stesso tempo, è ingiusto un ordine sociale che incorpora l’arbitrarietà che trova in natura. Così come identifichiamo immediatamente come ingiuste le società aristocratiche o castali che assegnano privilegi sulla base di circostanze contingenti quali la famiglia di nascita, possiamo riconoscere che non c’è nulla di giusto nella realizzazione di un’aristocrazia dei talentuosi.

La giustificazione morale del successo dei meritevoli si fonda sulla loro capacità di contribuire alla creazione di una società più prospera, in grado cioè di migliorare la condizione di tutti, e soprattutto dei meno fortunati, i non meritevoli. In questo senso (strumentale) la meritocrazia è sicuramente moralmente superiore alle società arretrate basate su appartenenza di casta o tribù, perché quelle organizzazioni sono incapaci di produrre benessere condiviso e frustrano sistematicamente gli sforzi di chi provi a realizzarlo. 

L’idea che una società debba essere valutata nella misura in cui riesce a generare benessere condiviso a partire da una situazione di equità è alla base della visione di John Rawls (A Theory of Justice: Original Edition1971). L’elemento cardine della sua teoria di giustizia è infatti il cosiddetto “principio di differenza”, che identifica come giuste, accettabili, solo le disuguaglianze economiche e sociali che non solo vanno anche a vantaggio dei meno fortunati, ma che rendono massimo tale benessere. Una lettura ristretta, efficientista, del secondo principio di Rawls, ritiene equa la distribuzione che emerge in una società che massimizza il benessere collettivo attraverso un sistema meritocratico che valuta e premia il merito. Anche la posizione dei pensatori più attenti ai diritti sociali ha finito per abbracciare questa visione efficientista, concentrandosi principalmente sulla critica della mancanza di sostanziale uguaglianza di opportunità nell’accesso alle occasioni di sviluppo del merito e alle competizioni per i ruoli di responsabilità. Dimenticando, tuttavia, che il tallone d’Achille della meritocrazia sta nell’intrinseca ingiustizia del suo meccanismo di allocazione delle opportunità. La disuguaglianza che crea la meritocrazia, il successo di chi ha maggiori capacità, è giustificabile e desiderabile in termini morali solo per via del suo valore strumentale: se lasciamo che i talentuosi con desiderio di impegnarsi ottengano buoni risultati dal loro sforzo e dalle loro capacità, avremo una società più ricca. Una società più ricca, con opportuni interventi redistributivi, può migliorare gli standard di vita anche di chi ha pescato un corredo genetico meno favorevole alla produzione di ricchezza. 

Non può mai essere quindi che la diseguaglianza sia moralmente giustificata perché generata da un meccanismo meritocratico. È invece la redistribuzione resa possibile dalla meritocrazia che la rende un criterio desiderabile di organizzazione sociale. La diseguaglianza insita in un sistema meritocratico è tollerabile nella misura in cui è un elemento necessario a generare crescita ed è accompagnata da opportuni interventi redistributivi. È quindi cruciale chiedersi in quale misura lasciare che i vincitori ottengano i pieni rendimenti delle loro capacità e del loro impegno, garantiti dal mercato, sia funzionale alla crescita, e fino a che punto i nostri sistemi sociali siano in grado di rendere quella crescita inclusiva. Su questo punto occorre sottolineare la crescente consapevolezza, anche nei circoli tradizionalmente meno interessati alla diseguaglianza come il Fondo Monetario Internazionale, che i livelli correnti di diseguaglianza nei paesi occidentali rappresenti un freno per la crescita economica (si veda ad esempio Cerra e coautori “Links between Growth, Inequality, and Poverty: A Survey” pubblicato come IMF Working Paper, dal Fondo Monetario Internazionale nel 2021). 

Per questo motivo non si può mai parlare di merito senza parlare anche di redistribuzione, e per questo motivo una società meritocratica senza redistribuzione è la società distopica raccontata da Michael Young. Riconoscere la contestualità del merito, slegandolo da virtù morali, allevierebbe, inoltre, le conseguenze indesiderabili sulla società – i vincitori nella società meritocratica non sarebbero guardati con ammirazione ma semplicemente constatando che grazie alle loro qualità è possibile che la collettività prosperi. Il loro maggiore benessere è tollerabile soltanto nella misura in cui è una leva per aumentare il benessere anche dei meno adatti alla competizione. 

Come membri di una collettività meritiamo nella misura in cui contribuiamo al bene comune. Ci sarà spazio per questo punto di vista nei programmi del nuovo Ministero della Scuola?

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