ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

Basta un poco di informazione e il prezzo va giù: il caso del gasolio*

Enrico D’Elia intervenendo nel dibattito sulle politiche di contrasto dell’inflazione, richiama l’attenzione sul ruolo che possono avere campagne di informazione ben disegnate che hanno lo scopo di ridurre, per il consumatore, il costo di ricerca delle offerte migliori. Una simile strategia, che permetterebbe anche di limitare extra-profitti e rendite, sarebbe, secondo D’Elia, attuabile già adesso nel caso dei carburanti il cui prezzo è molto variabile tra le stazioni di servizio.

Il ripristino delle accise sui carburanti da inizio anno ha acceso dibattiti e proteste. Da un lato è stato stigmatizzato il carattere regressivo di questa misura, dall’altro c’è chi ha evidenziato che le accise sono essenziali per l’equilibrio dei conti pubblici e che prezzi dei carburanti più elevati hanno un ruolo importante nel processo di decarbonizzazione. Se si privilegia la prospettiva della transizione ecologica, gli aumenti dei carburanti non possono che essere accolti favorevolmente. Tra l’altro, lo sconto praticato nel 2022 è costato all’erario circa 6 miliardi tra accise ed IVA: una cifra che poteva essere investita in infrastrutture che avrebbero ridotto il costo dei trasporti molto più di qualche euro di risparmio sul pieno. 

Resta il fatto che, data l’attuale struttura dei trasporti, ogni aumento dei carburanti si ripercuote meccanicamente sull’intero sistema produttivo. In base alla matrice input output dell’economia italiana, il solo impatto diretto di un aumento dell’1% sui prezzi dei carburanti fa lievitare di 0,25 punti percentuali i prezzi al consumo e la trasmissione degli aumenti lungo la catena del valore porta, a regime, a rincari complessivi dell’ordine di 0,4 punti percentuali.

Ovviamente nel breve periodo si può fare poco contro le cause strutturali che hanno determinato i rincari, ma si può fare molto sui meccanismi che li amplificano. Tra questi svolge un ruolo modesto la rincorsa salariale, come riconosciuto perfino da Confindustria, che stima incrementi del costo del lavoro inferiori al 4% l’anno anche nel 2023, a fronte di una inflazione quasi doppia, mentre pesa molto il rincaro delle materie prime e la generazione di extra-profitti in molti settori della filiera dell’energia, tanto che il decreto “Aiuti bis” ha provveduto ad assoggettarne almeno una parte ad una tassazione straordinaria. 

C’è poi un canale di amplificazione dell’inflazione che è stato meno esplorato. Nei mercati reali il prezzo di un identico prodotto varia sensibilmente tra i punti vendita e quindi c’è chi realizza extra-profitti rispetto a quelli che si formerebbero in un ipotetico mercato perfettamente concorrenziale, in cui il prezzo è unico (o quasi). Ciò è reso possibile dalla segmentazione del mercato, che consente di erodere la cosiddetta “rendita del consumatore”, praticando a ciascuno il prezzo massimo che è disposto a pagare, come per i diversi lotti di un’asta al rialzo, invece di quello minimo uguale per tutti di un’asta . Come vedremo, il policy maker ha molte possibilità di ridurre il tasso di inflazione attenuando questa “imperfezione” dei mercati, senza ricorrere a strumenti poco selettivi come la politica monetaria, che frena artificialmente la domanda aggregata per rallentare i prezzi. 

La segmentazione del mercato viene messa in pratica essenzialmente tramite tre strumenti: le barriere fisiche tra i mercati, la customizzazione dei prodotti e le campagne pubblicitarie. Sulle prime è difficile intervenire, perché i prezzi più elevati sono determinati da fattori oggettivi, come i costi di distribuzione (ad esempio sulle isole o in zone impervie). La personalizzazione aggiunge effettivamente valore ai singoli beni e servizi, giustificando prezzi più elevati. Le campagne pubblicitarie, invece, inducono i consumatori meno accorti e più influenzabili a sopravvalutare le caratteristiche di alcuni brand e quindi a pagare di più per prodotti sostanzialmente equivalenti. Scoraggiare gli investimenti in pubblicità (ad esempio tramite un trattamento fiscale meno favorevole, come quello riservato ad altri costi impropri delle imprese) potrebbe dare un contributo alla riduzione dei prezzi. Tuttavia un simile provvedimento colpirebbe un settore che genera occupazione e Pil (circa il 5% del totale secondo alcune stime) e che sostiene indirettamente altre attività, a cominciare dai servizi “gratuiti” che vivono di sponsorizzazioni, compresa gran parte del settore dell’informazione, dell’intrattenimento e della cultura.

C’è anche un meccanismo più sottile e pervasivo per segmentare il mercato, che sfrutta il costo sopportato dal consumatore per ricercare i punti vendita più convenienti. Un modello piuttosto suggestivo che evidenzia questi aspetti è quello proposto da Hal Varian nei primi anni ottanta. L’ipotesi è che i consumatori si dividano nettamente in due categorie: gli informati e i disinformati sui prezzi praticati sul mercato. I primi dedicano molto tempo e risorse alla ricerca delle occasioni migliori e quindi è indispensabile proporre loro prezzi molto bassi per conquistarli. I disinformati, invece, fanno la spesa nel primo punto vendita a disposizione e quindi è possibile offrirgli prezzi più elevati. In pratica, nel modello di Varian, le imprese possono decidere di guadagnare poco su molti oppure molto su pochi. 

Se valgono le ipotesi di Varian – e quindi il segmento di chi è solo ‘moderatamente’ informato è poco appetibile per le imprese – la distribuzione di frequenza dei prezzi assume l’aspetto di una U, con i prezzi intermedi che finiscono per essere praticati solo in pochi punti vendita. Ipotesi meno drastiche prevedono che il livello di informazione (o il costo della ricerca) vari in modo progressivo tra i consumatori, cosicché la distribuzione dei prezzi finisce per avere un unico picco (dove il costo di ulteriori ricerche e risparmi attesi si compensano) e una coda verso destra (ossia verso i prezzi più elevati) piuttosto consistente. 

La “pigrizia” dei consumatori può dipendere da una scarsa capacità di acquisire ed elaborare le informazioni, dalla necessità di rifornirsi in tempi strettissimi, dall’avversione allo shopping, ecc. Ci sono inoltre varie motivazioni squisitamente “economiche” per non cercare troppo le offerte migliori: il primo è che questa attività richiede tempo e risorse (il cosiddetto “costo delle suole”) e talvolta il gioco non vale la candela, per cui è razionale darsi poco da fare. Ad esempio, nel caso dei carburanti, risparmiare 5 cent al litro incide su un pieno quanto un cappuccino con cornetto. È poco conveniente cercare molto sia quando i prezzi variano continuamente in ciascun punto vendita, rendendo praticamente inutili le informazioni acquisite qualche attimo prima; sia quando i prezzi sono quasi identici tra i diversi venditori, come avviene nel caso di collusione o di forte concorrenza. Infine, come ha sottolineato Stiglitz, la ricerca del prezzo più basso a tutti i costi può essere controproducente se il prezzo è anche un indice della qualità (non sempre osservabile) dei prodotti.

Un intervento pubblico può semplificare la vita dei consumatori. Se tutti conoscessero in quali punti vendita si spende meno, i prezzi finirebbero per concentrarsi attorno al prezzo minimo rilevabile sul mercato, con uno slittamento verso il basso di tutta la struttura dei prezzi. Per i punti vendita frequentati dai consumatori più informati cambia poco, perché questi ultimi continuerebbero a ricercare sempre le offerte più convenienti, a prescindere dalle campagne informative. Gli effetti sulle politiche di prezzo di tutti gli altri possono essere invece significativi, ma è necessario selezionare bene i dati da diffondere.

Ad esempio, dare troppo rilievo mediatico ai prezzi più elevati (eventualmente praticati dove i costi di distribuzione sono strutturalmente più alti) è del tutto controproducente, perché spinge i consumatori meno informati a pagare di più per timore di incappare proprio in quei prezzi record. Anche l’esposizione sistematica dei prezzi medi (eventualmente disaggregati per aree geografiche anche abbastanza fini) può dare risultati modesti, perché fornisce incentivi abbastanza deboli ai consumatori disattenti, che continueranno ad accontentarsi di pagare prezzi molto superiori a quelli minimi, seppure vicini alla media, invece di intensificare le proprie ricerche. Da questo punto di vista, appare poco produttivo il tanto contestato obbligo di esporre il prezzo medio dei carburanti in tutte le stazioni di servizio, soprattutto se calcolato a livello regionale e non locale, come ha stigmatizzato recentemente anche l’Antitrust

Una strategia di comunicazione più efficace sarebbe quella di mettere a disposizione degli utenti una mappa aggiornata di tutti i prezzi disponibili nei punti vendita circostanti, come già fanno molte applicazioni per smartphone e computer, seppure con un grado di affidabilità piuttosto eterogeneo. In questo modo qualsiasi consumatore avrebbe l’opportunità di disertare i punti vendita peggiori, costringendoli così a moderare i propri prezzi. Vista la polverizzazione del tessuto distributivo in Italia, sarebbe minimo il rischio di collusione (vedi la nota 33 della indagine conoscitiva dell’Antitrust sulle “pompe bianche”).

Nel caso dei carburanti, la cui qualità è sperabilmente standardizzata, l’effetto di una migliore informazione sui prezzi può essere quantificato con una certa precisione utilizzando il database sui prezzi giornalieri alla pompa messo on line dal Ministero delle imprese e del made in Italy (MITIT, ex MISE). A decorrere da settembre 2013, tutti i gestori sono obbligati a comunicare al ministero le variazioni dei prezzi dei carburanti entro una settimana. Ricostruendo i dati giornalieri sulle quotazioni del gasolio “standard” nel corso del 2022 in base a queste comunicazioni si ottengono alcuni risultati interessanti. 

La prima evidenza, abbastanza banale, è che i prezzi praticati sulla rete autostradale superano del 4,4% la media nazionale. In questi impianti, infatti, si riforniscono prevalentemente utenti che hanno un urgente bisogno di carburante e quindi non hanno troppe possibilità di scelta. Nel modello di Varian, i prezzi autostradali si collocherebbero tra quelli corrispondenti al picco di frequenza superiore. 

I risultati di una campagna informativa che spinga gli utenti ad abbandonare i punti vendita più costosi sono sintetizzati nella successiva tabella. 

Effetti dell’esclusione dei punti vendita più costosi

(in ciascuna provincia)

Fonte: Elaborazioni su dati dell’Osservatorio carburanti del MIMIT.

Se, per ipotesi, nessuno si rifornisse più nell’1% delle stazioni della propria provincia che hanno praticato i prezzi più elevati nel 2022, la quotazione media del gasolio scenderebbe dello 0,17%. Il risparmio sarebbe lievemente superiore se si escludono gli impianti autostradali, dove gli utenti hanno presumibilmente minori possibilità di scelta. Se la quota di stazioni messe fuori mercato salisse al 3%, il risparmio sfiorerebbe i 4 decimi di punto (quasi mezzo punto fuori dalle autostrade) e se la stessa quota arrivasse al 20% gli utenti pagherebbero il carburante l’1,2% in meno. Queste cifre vanno raffrontate all’effetto del ripristino delle accise a fine anno, che ha comportato rincari dell’ordine di 18,3 centesimi, tra accise ed Iva, pari a poco meno del 10% del prezzo finale. Anche una campagna informativa che cambiasse le abitudini di acquisto di un quinto degli utenti consentirebbe dunque di compensare al massimo un ottavo dei rincari di origine fiscale. 

Tuttavia, fornire agli utenti gli strumenti per scegliere più consapevolmente la stazione di servizio dove rifornirsi potrebbe avere effetti molto più significativi e strutturali. Nella simulazione esposta nella tabella, infatti, si fa l’ipotesi estremamente conservativa che gli utenti che disertano le stazioni più costose si distribuiscano casualmente tra quelle rimanenti. Invece è probabile che una campagna informativa ben progettata spingerebbe tutti gli utenti a ricercare le stazioni più convenienti, che evidentemente praticano già prezzi inferiori alla media. Se si avviasse questo meccanismo virtuoso il risparmio potrebbe essere significativamente maggiore, come pure la corrispondente perdita da parte della filiera della produzione e distribuzione dei carburanti. Ad esempio, se gli acquisti si concentrassero progressivamente sul 25% dei distributori più economici in ciascuna provincia, il risparmio per gli utenti salirebbe al 3,6% … seppure a costo di code di attesa molto più lunghe.

L’analisi del database del MITIT mostra che gli utenti possono risparmiare attorno all’1% sul rifornimento se hanno la fortuna di trovarsi in aree in cui ci sono più di 12 stazioni nel raggio di circa un chilometro, che è una condizione frequente solo nelle aree urbane. Al contrario, costa in media lo 0,3% in più dover fare il pieno dove la stazione non ha concorrenti nel giro di un chilometro. Le pompe “bianche” e I marchi minori offrono vantaggi dell’ordine dello 0,3% e, tra le grandi compagnie, solo Tamoil garantisce sconti di circa lo 0,5% rispetto alla media. Infine, ricercare di volta in volta il punto vendita migliore all’interno della stessa provincia, invece di rimanere “fedele” al solito distributore, sembra assicurare qualche vantaggio soprattutto nelle aree poco urbanizzate (più precisamente, dove c’è al massimo un altro distributore nel giro di un chilometro), dove ciascun operatore impiega mediamente 11 giorni per dimezzare il divario rispetto alla media provinciale (tale stima è ottenuta tramite un modello di beta-convergence). Negli altri casi questo periodo scende a 4 giorni o meno, rendendo la ricerca meno produttiva, se ci si accontenta di pagare solo il prezzo medio.

In sintesi, si possono limitare gli effetti dei rincari dei carburanti (e di altri prodotti standardizzati) anche attraverso campagne informative e piattaforme software che incoraggino gli utenti a fare acquisti nei punti vendita più economici. Questi incentivi hanno un costo molto basso per la PA ma un valore molto alto per gli utenti, perché sostituiscono ricerche che, a livello individuale, sono troppo costose rispetto ai risultati attesi. Ovviamente non si possono pretendere risultati eclatanti da politiche che non affrontano i nodi strutturali dell’inflazione, ma la sensibilizzazione dei consumatori può contribuire a rendere strutturalmente più efficiente il sistema distributivo. Sarebbe anche un modo per erodere le rendite di posizione che frenano lo sviluppo e aggravano le disuguaglianze e per ridurre il divario tra chi è in grado di informarsi (anche grazie ad una formazione migliore) e chi non lo è (anche per un minore accesso alle fonti di informazione).


* Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora l’autore.

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