ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

Il digitale viaggia leggero e ci guadagna

Grazia Ietto Gillies dopo aver sottolineato che gli investimenti in macchinari e attrezzature fisiche sono limitati nelle imprese digitali, illustra la ‘disconnessione territoriale’ tra investimenti e attività produttive che permette a queste imprese di localizzare i primi nel paese di origine e di produrre il servizio direttamente e in tempo reale nel paese del consumatore, con conseguente caduta degli investimenti diretti esteri che si riflette sulla distribuzione delle entrate fiscali tra paesi.

Le tecnologie digitali hanno condotto a numerosi cambiamenti di carattere strutturale, Uno di essi, molto importante, riguarda i rapporti tra le grandi imprese digitali e l’infrastruttura bellica di cui si sono di recente occupati Coveri, Cozza e Guarascio sul MenabòQuello che voglio qui discutere si riferisce ai cambiamenti nel ruolo e nell’importanza degli investimenti diretti all’estero conseguenti alle strategie adottate dalle imprese digitali. 

Gli investimenti di queste imprese hanno due peculiarità. 

La prima è che gli investimenti in macchinari e attrezzature fisiche tendono ad essere relativamente minori rispetto a quelli di imprese operanti in altri settori. Nel 2019, i macchinari e le attrezzature  rappresentavano il 32 percento delle complessive attività dell’insieme delle grandi multinazionali operanti in tutti i settori (escluso il finanziario). Il corrispondente valore, nello stesso anno, per le 50 maggiori imprese digitali transnazionali era soltanto del 6.8 percento (G. Ietto-Gillies e C. Trentini, ‘Sectoral structure and the digital era. Conceptual and empirical analysis’, Structural Change and Economic Dynamics, 2023). Questo sembra indicare che le opportunità di investimenti in macchinari e attrezzature sono molto minori quando i prodotti sono digitali. Si deve, per inciso, notare che, nel caso delle grandi imprese, bassi valori degli investimenti in macchinari, attrezzature o beni immobiliari possono essere anche il risultato di strategie di specializzazione ed esternalizzazione in cui l’asset necessario nel processo produttivo viene preso in affitto oppure la responsabilità per la sua gestione viene affidata a un’altra impresa di solito media o piccola. Queste strategie di esternalizzazione non sono una specificità del digitale; infatti, ad esse ricorrono anche molte altre grandi imprese non digitali. Basti pensare a McDonald e alle responsabilità dei suoi franchisees oppure a Uber che non assume responsabilità per le automobili utilizzate nel servizio di trasporto, ponendole in capo ai singoli autisti.

La seconda peculiarità del digitale si manifesta quando parte delle attività produttive avvengono all’estero e riguarda la distribuzione territoriale del capitale investito tra il paese di origine e i paesi ospitanti. UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development, World Investment Report 2017. Investment and the Digital Economy, United Nations, 2017, Fig. IV.8) e B. Casella e L. Formenti (“FDI in the digital economy: a shift to asset-light international footprints,” Transnational Corporations, 2018, Tab. 1) pongono l’accento su un fenomeno interessante: le 100 multinazionali digitali più grandi nel confronto con le grandi multinazionali mondiali di tutti gli altri settori, investono relativamente meno all’estero, a parità di ricavi derivanti dai loro investimenti. Nel settore digitale il rapporto è molto più alto rispetto al rapporto ricavi/investimenti per la società nel suo complesso. I due lavori citati riportano che nel 2015 il rapporto medio tra i ricavi generati dalle affiliate estere e il valore dei loro investimenti è risultato di 1.4 per tutte le 100 società digitali e di ben 2.6 per le piattaforme digitali mentre esso è stato pari a 1.0 per le grandi multinazionali di tutti i settori (escluso quello finanziario). 

Questo risultato è importante perché suggerisce che, con la diffusione della digitalizzazione, gli investimenti esteri diminuiscono a parità di ricavi. Ciò vuole dire che le imprese digitali realizzano un ammontare notevole di ricavi in paesi nei quali effettuano investimenti di limitata entità. Quali sono le ragioni di questo fenomeno? 

In Ietto-Gillies e Trentini (cit.) abbiamo parlato di spatial disconnection cioè di una disconnessione territoriale tra investimenti e attività produttive nel caso delle imprese digitali. Più precisamente nelle attività digitali gli investimenti in infrastrutture reali tendono a essere territorialmente concentrati; ad esempio i servers o i computers per cloud services vengono prevalentemente localizzati nei paesi di origine delle imprese. L’attività digitale permette l’erogazione del servizio, in tempo reale, in altre località, comprese quelle all’estero, senza che siano necessari ingenti investimenti diversamente da quanto accade per le attività manifatturiere. 

Si può obiettare che queste disconnessioni spaziali tra produzione e mercato non sono nuove. Tradizionalmente sono due le modalità che permettono a un’impresa di far giungere il proprio prodotto sui mercati di altri paesi. La prima è l’esportazione che comporta creazione di capacità produttiva nel paese di origine – o anche in un paese terzo – per dar vita a un prodotto che sarà esportato laddove vi è domanda per esso. Tra i due momenti – quello della produzione e quello in cui il prodotto raggiunge l’acquirente all’ estero – passa del tempo e si sostengono costi di trasporto. La seconda modalità consiste nella produzione diretta nel paese estero il che comporta investimenti diretti in questo paese da parte dell’impresa. 

Una terza modalità si è sviluppata recentemente e soltanto per i prodotti digitali. Con questa modalità, buona parte della capacità produttiva fisica e umana è localizzata nel paese di origine dell’impresa – dove vengono effettuati gli investimenti fisici ma anche, molto spesso, quelli in risorse umane cioè in lavoro specializzato – ma il servizio, grazie alle sue caratteristiche, è prodotto direttamente e in tempo reale nel paese in cui si trova il consumatore. Negli anni a venire queste tendenze si accentueranno per effetto dell’intensificarsi della digitalizzazione dei processi e dei prodotti. Ciò significa che i paesi ospitanti si vedranno trasferire buona parte del loro surplus senza neanche il beneficio di ingenti investimenti. 

Nelle analisi empiriche da cui sono stati tratti i dati sopra riportati si fa riferimento ai ricavi in relazione all’investimento. C’è una buona ragione per usare i dati sui ricavi e non quelli sui profitti: questi ultimi sono più difficili da accertare a livello di singoli paesi. Ciò è dovuto alla cosiddetta manipolazione dei prezzi di trasferimento (G.Ietto-Gillies, Transnational Corporations and International Production. Concepts, Theories and Effects, Edward Elgar, 2019, Cap. 23) che – sulla base di strategie volte a minimizzare l’incidenza totale della tassazione per l’impresa nel suo complesso (OECD, Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and TaxAdministrators, 2010) – porta a profitti dichiarati che hanno poco a che fare con i costi e i ricavi effettivi. Agendo sui costi si altera l’allocazione dei profitti tra paesi ad alto tasso di tassazione e quelli con bassi tassi a vantaggio di questi ultimi. Nelle società digitali le opportunità di manipolazione sono molto alte in parte perché non è sempre chiaro dove viene effettuato il lavoro che c’è dietro specifici ricavi. Ciò ha portato a una situazione in cui le imprese digitali finiscono per pagare ben poco agli erari di molti paesi in cui operano. 

Dopo varie polemiche mediatiche e iniziative politiche si è arrivati a un accordo dei G20/2021 basato sulla proposta dell’OCSE: ‘Inclusive Framework on Base Erosion and Profit Shifting’. La proposta prevede tassazione centralizzata dei profitti globali delle società con riscossione nel paese di residenza della società stessa. L’introito sarà poi ripartito tra i vari paesi che ospitano gli investimenti diretti in base ai ricavi della società in ciascuno di essi. Quindi la rilevanza dei ricavi nei paesi ospitanti è in prima linea. Questo sistema rende le società digitali più responsabili per le imposte dovute e, inoltre, rende la distribuzione degli introiti tra i vari paesi – quello di origine e quelli ospitanti – più equa, chiara e trasparente. Non si può non essere d’accordo con questa impostazione anche se, personalmente, avrei preferito una percentuale di tassazione al di sopra del 15 percento minimo fissato dai G20. Resta da vedere se la proposta avrà attuazione, i disaccordi non mancano e riguardano soprattutto proprio il minimo di tassazione del 15 percento. Alcuni paesi preferirebbero essere liberi di applicare tassi inferiori in una competizione al ribasso che chiaramente favorisce le imprese stesse. Se la proposta non sarà adottata da un ampio insieme di paesi, le imprese digitali continueranno ad avere la meglio sugli erari mondiali.

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