Il 16 dicembre 2022 è stata conferita la laurea honoris causa in Scienze bancarie, finanziare e assicurative, presso l’Università Cattolica di Milano, a Lord Nicholas Stern per i suoi contributi scientifici e il valore etico della sua attività per la causa del contenimento dei cambiamenti climatici, a partire dalla Review on the Economics of Climate Change (2006, divenuta nota semplicemente come Stern Review), che ha aperto una nuova strada nel modo con cui la politica e l’opinione pubblica guardano ai problemi del riscaldamento globale.
Concludendo la sua lectio magistralis, Stern ha detto: “sappiamo come progredire nel campo delle tecnologie, i cambiamenti sistemici, le politiche e la finanza, ma ho seri dubbi sulla nostra capacità di progredire con sufficiente rapidità. Così, mentre sono molto ottimista circa quello che possiamo fare, mi preoccupo molto di ciò che effettivamente faremo”.
La lectio era significativamente intitolata: “Verso un nuovo approccio allo sviluppo e alla crescita: l’economia delle azioni per [contrastare] il cambiamento climatico”. In effetti, Stern non ha voluto solo invocare la necessità e l’urgenza di agire per evitare i rischi (potenzialmente catastrofici) legati a un aumento delle temperature medie superiore a 1.5° entro questo secolo rispetto alla fine del XIX secolo (siamo già a +1.1°, probabilmente la temperatura più alta dell’Olocene). Ha detto anche come quelle azioni necessarie e urgenti possono dar vita a una nuova fase di sviluppo per i paesi oggi più poveri e una nuova e più sostenibile crescita economica per tutto il mondo. Perché ciò si realizzi – ha argomentato Stern – è necessario, innanzitutto, accettare i risultati acquisiti dalla scienza in tema di cambiamenti climatici e di impatto che l’attuale modello di sviluppo ha sul riscaldamento globale. Ma cruciale è anche cambiare il modo in cui molti economisti pensano alla questione e i modelli che utilizzano per valutare le conseguenze economiche dei cambiamenti climatici nonché la natura, l’intensità e il timing delle politiche di contrasto.
Sempre più caldo A ogni successivo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) lo stato, le tendenze e le conseguenze del cambiamento climatico divengono più precisi e più preoccupanti. Il sesto rapporto (del 2021) ha sottolineato che, con le attuali tendenze di crescita estese a livello planetario (compresa ovviamente la crescita della popolazione) le temperature possano salire di 4 o 5° nel giro di 150 anni. Le conseguenze sulla vita di miliardi di persone (soprattutto nelle fasce più povere) sarebbero devastanti e comincerebbero a manifestarsi molto prima di 150 anni. In effetti, le vediamo già oggi con il citato +1.1°, anche se su scala ancora abbastanza limitata. Ai tempi della Stern Review si riteneva che fosse sufficiente limitare la crescita delle temperature a +2° per evitare i rischi più gravi. Oggi è condiviso dagli scienziati che la soglia di (relativa) sicurezza sia +1.5°. Per esempio, con +1.5° la quota di popolazione mondiale esposta a grandi ondate di calore almeno ogni 5 anni sarebbe del 14%; con +2° sarebbe del 37%, la relazione tra aumento della temperatura e rischi associati sarebbe tutt’altro che lineare.
Per restare entro la soglia di +1.5° è necessario arrivare a emissioni nette pari a zero entro il 2050, seguendo un percorso accelerato. Si tratta di un approccio prudenziale (Stern lo definisce ‘guard-rail approach’), che permette di evitare i rischi più gravi, “compresi la possibilità di perdita della vita per miliardi di persone, conflitti estesi e micidiali, distruzione della biodiversità, severa riduzione della qualità della vita e del benessere” (N. Stern, “A time for action on climate change and a time for change in economics”, Economic Journal, 2022, 1262-63).
L’urgenza di agire. Cosa bisognerebbe fare per realizzare quanto suggerito dal ‘guard-rail approach’, tracciato dagli accordi di Parigi (2015) e rinforzato dal Patto di Glasgow (2021)? Soprattutto come aiutare i paesi emergenti e in via di sviluppo (EVS)? Finora questi hanno contribuito relativamente poco all’accumulo di CO2 ma se seguissero il sentiero ‘sporco’ seguito dai paesi ricchi nei decenni passati farebbero impennare le emissioni e deragliare qualsiasi strategia di contenimento dei cambiamenti climatici, di cui, peraltro, gli abitanti di quei paesi sono le principali vittime. Prima di tutto dobbiamo sapere che siamo in ritardo. L’impegno dei paesi sviluppati di arrivare entro il 2020 a 100 $mld l’anno di finanza per il clima a favore degli EVS non è stato rispettato. Forse lo sarà nel 2023. Ma il problema è che gli EVS (esclusa la Cina, che ha un tasso di investimento altissimo) hanno bisogno che la ‘finanza esterna’ (che si aggiunge a quella interna degli EVS) contribuisca non con 100 ma con circa 1000 $mld l’anno entro il 2025, così da arrivare a circa 2400 $mld entro il 2030, per la trasformazione dei sistemi energetici, l’adattamento e la resilienza a fronte del riscaldamento già in atto, la trasformazione sostenibile dell’agricoltura, l’arresto della deforestazione, ecc. La differenza tra il vecchio (e mancato) obiettivo dei 100 $mld e quello dei 1000 $mld è che il primo era il frutto di un compromesso negoziale, il secondo è derivato da un’analisi degli investimenti necessari negli EVS tenendo conto della finanza interna potenzialmente disponibile.
Le cifre in gioco sono così enormi da sembrare impossibili da raggiungere o, comunque, insopportabili sia per gli EVS che per i paesi sviluppati. Il rapporto Finance for climate action – curato nel 2022, tra gli altri, proprio da Nicholas Stern – mostra come, in realtà, raggiungere il livello di finanziamento necessario non sia affatto fuori portata, e indica come mobilitare la finanza privata internazionale in cooperazione con le multilateral development banks. Inoltre – fa notare Stern – gli investimenti non sono dei meri costi: fruttano in termini di maggiore e migliore crescita (sostenibilità), grazie allo sviluppo di tecnologie ‘pulite’ (i cui costi sono già oggi decrescenti) e ai diversi co-benefici, compresi un generale miglioramento della salute e del benessere derivanti dalla mitigazione dei cambiamenti climatici e dalla creazione di condizioni di adattamento a quelli ormai avvenuti. Contribuire a rafforzare e migliorare la crescita degli EVS è nell’interesse dei cittadini e delle imprese dei paesi sviluppati, ma anche della finanza lungimirante. È parte di una globalizzazione che davvero funzioni.
Cambiare l’approccio degli economisti. Gli obiettori del ‘guard-rail approach’ sostengono che tanto l’obiettivo, quanto il percorso, implicano costi che superano i benefici. Lasciamo stare i negazionisti del cambiamento climatico, che sono stati capaci di influenzare l’opinione pubblica per molti anni (S. Levantesi, I bugiardi del clima, Laterza, 2021), ma che ormai sembrano confinati in una specie di “ridotto valtellinese”. Le obiezioni più sottili e più forti vengono da diversi economisti e naturalmente incontrano gli umori di forze politiche poco disposte a giocarsi la partita del consenso su un terreno dove è palpabile il conflitto tra le generazioni future che trarrebbero beneficio da quei cambiamenti, ma oggi non votano e la generazione presente – che vota e dovrebbe cambiare modelli di produzione e di consumo, sostenendone i costi, tra l’altro in modo asimmetrico tra gruppi e sottogruppi sociali diversi (il che complica le cose).
Quegli economisti hanno affrontato la questione in termini di analisi costi-benefici, a partire da un modello, originariamente proposto dal premio Nobel 2018 William Nordhaus nel 1991, e successivamente sviluppato in numerose varianti. Il modello base prevede la massimizzazione dell’utilità attesa intertemporale di un individuo rappresentativo con vita infinita, in cui si produce un solo bene (il Pil) con rendimenti di scala costanti e produttività marginale decrescente. Qualsiasi problema distributivo intra e inter-generazionale è escluso per ipotesi e l’economia cresce, spinta da forze esogene, in condizioni di efficienza salvo che per l’esternalità negativa causata dalle emissioni inquinanti. per ridurre la quale devono affrontarsi costi marginali (per ipotesi) crescenti. Quindi, qualsiasi difetto del mercato, salvo l’esternalità ambientale, appunto, è esclusa. Benefici e costi che si manifesteranno nel futuro vengono scontati pesantemente. Le generazioni più recenti dei modelli DICE-IAM (Dynamic Integrated Climate Economy – Integrated Assessment Model) sono certo più sofisticate ma, secondo Stern e un altro premio Nobel, Joe Stiglitz, non si affronta il problema dei rischi associati agli scenari peggiori che hanno probabilità bassissima ma non nulla di verificarsi. Si tratta dei cosiddetti eventi catastrofici, per far fronte ai quali è stato formulato il principio di precauzione. Inoltre, non vengono adeguatamente modellati i cambiamenti strutturali e tecnologici e i rendimenti di scala crescenti che caratterizzano un’economia complessa e che, a loro volta, interagiscono con l’attuazione delle politiche di contrasto dei cambiamenti climatici (N. Stern e J. Stiglitz, “The economics of immense risk, urgent action and radical change: towards new approaches to the economics of climate change”, Journal of Economic Methodology, 2022, 29 (3), 181-216).
Da una versione recente del modello di Nordhaus emerge che un aumento della temperatura di 6° (per il quale potrebbero occorrere oltre 100 anni) porterebbe a perdite stimate di Pil dell’8.5%. Ma se, in cento anni il Pil tendenzialmente raddoppiasse, seguendo un suo sentiero di crescita esogena, un rallentamento di quella crescita in misura inferiore al 10% sarebbe tutto sommato trascurabile (W. Nordhaus, “Social cost of carbon in DICE model”, Proceedings of the National Academy of Science, 2017, 114 (7), 1518-23). “È profondamente implausibile che perdite intorno al 10% del Pil offrano una descrizione ragionevole del tipo di distruzioni e catastrofi che verrebbero causati da un aumento di 6°” (Stern, 2022, cit., p. 1275). L’implausibilità emerge proprio se si tiene conto delle conseguenze dei rischi estremi, condizionando ad essi anche la crescita economica. La scelta di un ‘guard-rail approach’ è pienamente giustificata a fronte delle difficoltà e delle contraddizioni cui conducono i modelli basati sull’ottimizzazione, per quanto vengano corretti e piegati. D’altra parte, appare difficile racchiudere e valutare trasformazioni epocali in modelli costruiti per valutare costi e benefici derivanti da variazioni marginali di due variabili (Pil e temperatura), con rischi limitati.
E poi c’è la questione dello sconto. Una questione etica della massima rilevanza. La difesa della pratica di scontare il futuro poggia sull’egoismo generazionale incarnato nella cosiddetta preferenza temporale. “Lo sconto su base puramente temporale è essenzialmente discriminazione in base alla data di nascita” (Stern, 2022, cit., p. 1279). Chi nasce dopo conta molto meno. Fatto 100 il benessere di una persona nata oggi, quello di una nata nel 2093 (tra 70 anni), se scontata con un tasso del 2 per cento, varrebbe circa 25, quello di una persona nata tra 100 anni varrebbe meno di 14%. Se il tasso di sconto sale al 5%, il benessere di una persona nata tra 70 anni scende al 3% di una nata oggi e quello di una nata tra 100 anni scende allo 0,7%. Più alta la nostra preferenza temporale e meno le generazioni future faranno parte del «noi»: saranno sconosciuti “loro”. Come già riconosceva David Hume, ognuno di noi è più legato ai propri figli e nipoti che ai lontani discendenti che non conoscerà mai. Sembra un tratto psicologico semplice e comprensibile, a livello individuale. Ma perché dovrebbe riguardare la comunità umana? Questa va oltre la mera somma degli individui oggi viventi e comprende le generazioni future, il cui benessere dovrebbe perciò pesare più o meno quanto il nostro. Alcuni economisti (tra cui Nordhaus) hanno sostenuto che il tasso di sconto dovrebbe essere pari al tasso di interesse a lungo termine sul capitale investito da soggetti privati. Tuttavia, come ha scritto proprio Stern (Un piano per salvare il pianeta, Milano, Feltrinelli, 2009), le informazioni fornite dai mercati “riguardano scelte individuali con un orizzonte temporale limitato e non cosa dovrebbe fare la società su un arco temporale molto maggiore”. L’inerzia nei confronti del riscaldamento globale è anche il frutto di aver a lungo messo sotto il tappeto questioni eticamente fondamentali, insieme ai rischi di catastrofe e al principio di precauzione. Dovremo davvero smettere di farlo.