Occorrerebbe cogliere al meglio l’occasione offerta dall’evento di fine inverno del Pse in Italia, un incontro degli eurosocialisti in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Troppe volte assemblee e convention hanno più che altro una funzione di vetrina e di passerella, non riuscendo a incidere sui fatti e a sciogliere i nodi decisivi. Dovremmo tutte e tutti impegnarci, io credo, affinché questa volta vada diversamente.
E l’appuntamento presenterà più dimensioni. Sullo sfondo vi è la crisi delle democrazie liberali, che coinvolge l’intero Occidente e si caratterizza per una molteplicità di passaggi critici e dirimenti: l’incognita delle elezioni presidenziali negli Usa, con il possibile prevalere di Donald Trump, le “democrature”, che riguardano estese aree del globo, dalla Turchia all’America Latina, fronti di guerra sempre più sanguinosi e minacciosi (dall’Ucraina alla Palestina), l’incrinarsi o lo smarrirsi di quel grappolo di elementi quali l’idea stessa di rappresentanza, la scuola pubblica, laica e plurale, la laicità dialogica delle istituzioni, lo Stato sociale, il rispetto dei diritti umani e, in particolare, di quelli delle bambine, dei bambini e delle donne. In primo piano, naturalmente, vi è la dimensione continentale, data la natura dell’iniziativa. Quale Europa? Quali le prospettive per un’Europa federale, pur in presenza di una varietà di demoi e di lingue, senza un vero e proprio demos europeo? Come rispondere alle pulsioni xenofobe, nazional-dirigiste, neo-autoritarie, omofobe e protezioniste? Come estendere l’asse franco-tedesco, coinvolgendo altre realtà, pur in un continente a due velocità? Quali le vie migliori per recuperare al progetto d’integrazione europea il Regno Unito, vero ponte fra le due sponde dell’Atlantico? Né mancano, infine, le questioni e i dilemmi propri dell’Italia, con un centrosinistra frammentato che fa fatica a intercettare un malcontento sociale diffuso e con le destre protese alla conquista e al consolidamento di un’egemonia culturale e politica di lungo periodo.
Dinanzi a tragedie come quella ucraina e mediorientale, in particolare, il singolo ha una sensazione diffusa di impotenza. Come far sentire la propria voce? Una sensazione paradossale: proprio al tempo della globalizzazione e dell’interdipendenza non disponiamo di strumenti efficaci volti a esprimere le opinioni, gli interessi, le istanze dei cittadini. Le loro paure e le loro speranze. La Seconda Internazionale, ad esempio, fondata nel luglio 1889 e dissoltasi con la Grande guerra, diede un contributo formidabile alle lotte per la riduzione dell’orario di lavoro. Era un soggetto politico reale. Naturalmente non mancano, oggi, le organizzazioni volte a coordinare le realtà sociali e politiche nazionali, ma sono per lo più inette, imbelli, impotenti quasi quanto il singolo cittadino. Si tratta di organismi burocratici, più che di protagonisti dell’agone politico, sociale e culturale europeo o globale. Organismi dei quali i più ignorano persino l’esistenza. E le stesse Organizzazioni non governative sono in genere animate o legate a piccoli gruppi, a élite, prive di radici profonde e di estese ramificazioni di popolo.
A provare a incidere sulla realtà è sicuramente la piccola galassia radicale (si guardi ad associazioni come Nessuno tocchi Caino, volta all’abolizione in tutto il mondo della pena di morte), animata non a caso da un partito transpartitico e transnazionale. Non un semplice movimento o apparato internazionale, volto a coordinare l’esistente, bensì una forza, appunto, transnazionale, pronta a insinuarsi nelle pieghe delle varie situazioni nazionali e nelle loro contraddizioni, attraversandole, senza timore di sporcarsi le mani nelle ferite e nelle piaghe delle quali il mondo è disseminato. Un soggetto non di massa, ma capace di parlare alle masse, pur se ostacolato dai grandi media. E ciò soprattutto grazie alle lotte o ai successi conseguiti in Italia negli anni Sessanta e Settanta, e poi più di recente, con la partecipazione e il coinvolgimento di personalità dell’agone europeo e internazionale: la legge sul divorzio, la possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza, l’obiezione di coscienza rispetto al servizio militare obbligatorio, il voto ai diciottenni, il no al rinnovo delle “servitù militari”, la chiusura dei manicomi, la lotta allo sterminio per fame, il superamento della censura sessuofobica, il riconoscimento dei diritti di gay, travestiti e trans, l’antiproibizionismo sulle sostanze, la morte dignitosa, la teoria e la pratica della nonviolenza gandhiana fin nel simbolo. Temi controversi, iniziative e prese di posizione spesso paradossali e tuttavia tali non di rado da mobilitare i cittadini assai al di là della minuscola formazione politica che le esprime.
Ma la questione resta aperta: come può dire la sua, nello scenario europeo o globale, lo studente, la pensionata, l’operaia, il disoccupato, la professionista, l’impiegato? Come possono influire sui sommovimenti economici, ecologici, geopolitici di questo pianeta? Come possono concretamente agire a sostegno delle studentesse di Istanbul, delle donne curde, delle ragazze iraniane, delle bambine afghane? Come possono lavorare per la pace a Mosca e a Kiev, a Gaza, a Beirut, a Gerusalemme o a Tel Aviv?
Olof Palme, Enrico Berlinguer, Willy Brandt e altri hanno provato ad animare davvero, per un decennio, quel nuovo internazionalismo evocato da Giancarlo Pajetta. Il dirigente del Pci, infatti, prima di altri intuì che le tradizionali forme di coordinamento delle forze socialdemocratiche o comuniste erano ridotte all’impotenza. Prive ormai di spinta ideale, di visione, di progetti. Senza linfa, senz’anima. Senza un legame autentico con i lavoratori e con i cittadini in generale. Da qui lo sforzo per una diplomazia dei popoli e delle forze politiche, incarnate da grandi leader, capaci di intuire, poniamo, come la Ostpolitik fosse da affiancare a una politica di dialogo e di apertura fra il Nord e il Sud del globo o come la Cina e il subcontinente indiano o latino-americano, accanto all’Africa postcoloniale e al bacino del Mediterraneo, rappresentassero il volto del futuro di un pianeta divenuto piccolo e distante dal mondo eurocentrico del passato. Alcuni di noi, ad esempio, senz’altro ricordano le speranze riposte nelle missioni internazionali e negli incontri di Berlinguer con i rappresentanti di altri popoli e di altri soggetti politici, la sua opera tenace di tessitura per creare le condizioni della pace in Medio Oriente e altrove; ci si identificava e riconosceva in quei tentativi, assai oltre il perimetro dei militanti e degli elettori del Pci o della stessa sinistra italiana. Essi, come quelli di Brandt o di Palme, davano consistenza e voce alle aspirazioni di milioni di donne e di uomini, ne raccoglievano le istanze di partecipazione.
Oggi, al tempo dell’incertezza, quelle sfide andrebbero di nuovo raccolte e delle risposte, pur incomplete, dovrebbero quanto meno iniziare una fase di gestazione. Dovremmo fin d’ora prepararci all’evento italiano tardo-invernale del Pse con animo rinnovato, concependolo non solo come una kermesse propagandistica, non solo come un momento della politica-spettacolo nell’era post-televisiva, bensì come l’inizio di un percorso volto a ripensare e a ridefinire le condizioni stesse della cittadinanza, della partecipazione, appunto, dell’impegno politico, della democrazia. Un esempio: la ricerca delle forme e dei metodi più efficaci volti a coniugare la “democrazia elettronica”, quella che si nutre delle risorse della rete, con la presenza attiva sul territorio (il quartiere, i luoghi di studio e di lavoro, le singole aree geografiche). Ancora: lo sforzo e le indicazioni per promuovere il radicamento del Pse nei vari contesti nazionali e regionali, accanto e in sintonia con i singoli soggetti costitutivi. Un peso troppo grande sulle spalle di un incontro? No, piuttosto il primo passo per tornare a far vivere un riformismo di popolo arioso e inclusivo su scala europea e internazionale, nell’epoca della tecnologia digitale.