Molte volte per dare conto dei vantaggi da ascrivere alla globalizzazione si è fatto riferimento, in modo insistente e convinto, alla riduzione della povertà verificatasi a livello globale dai primi anni ’90 in poi. Si sono citati dati che documentavano la fuoriuscita dallo stato di povertà di centinaia di milioni di persone, enfatizzando lo straordinario contributo che a quel risultato aveva dato la Cina.
Come già chiarito sul Menabò, misurare la povertà richiede sempre di stabilire alcuni criteri – normativi e metodologici – necessari per individuare una soglia che consenta di stabilire chi è povero o non lo è (si situa, cioè, al di sotto o al di sopra della soglia). Diversamente da quanto solitamente si dà per implicito nel dibattito pubblico, la distinzione fra poveri e non poveri è spesso molto sfumata e dipende dai criteri assunti. Fra quelli normativi, primaria è ad esempio la distinzione fra povertà assoluta (chi non dispone di un minimo di risorse) o relativa (chi è distante dalla ‘norma’), fra quelli metodologici rientrano le scelte che portano alla definizione e all’altezza della soglia.
In questo quadro, vale la pena, innanzitutto, ricordare quale sia la definizione di povertà a cui ci si riferisce quando si parla di ‘crollo’ della povertà nel mondo. Si tratta di una convezione che, fino allo scorso settembre, portava a valutare l’estensione della povertà sulla base di una soglia di spesa giornaliera per consumo pari a 1,90 dollari per persona in Parità di Potere d’Acquisto (un concetto sul quale ritorneremo). Chi, in media al giorno, consuma beni che comportano una spesa inferiore a questa soglia è considerato povero.
Dallo scorso settembre la soglia è stata elevata a 2,15 dollari. Questo innalzamento dipende dal fatto che la Banca Mondiale, che elabora questi dati, ha preso come riferimento i prezzi in dollari del 2017 invece di quelli, precedentemente utilizzati, del 2011. L’effetto congiunto dell’aumento dei prezzi e dell’innalzamento della soglia è tale da rendere assai limitati i cambiamenti nella stima della povertà. Noi faremo riferimento ai dati riferiti alla soglia a 2,15 dollari.
Vediamo, allora, questi dati, ricordando che si tratta di una soglia davvero bassa e che, per questo motivo, la condizione di chi non riesce a raggiungerla con i propri consumi viene definita povertà estrema. Nel mondo nel 1990 i poveri estremi erano stimati a 2 miliardi; nel 2015 erano scesi a 802 milioni, quindi con un calo impressionante di 1 miliardo e 200 milioni di individui circa. Il calo è continuato negli anni successivi e nel 2019 i poveri estremi erano 668 milioni. In Cina nel 1990 vivevano 817 milioni di poveri estremi, ridotti a soli 16,1 milioni nel 2015 e praticamente azzerati (solo 2 milioni) nel 2019. Per meglio valutare questi dati è opportuno tenere conto anche delle variazioni nella popolazione complessiva che in quel periodo è aumentata di circa 250 milioni di unità in Cina. Un modo sintetico per farlo è misurare la quota dei poveri estremi sul totale della popolazione. Tra il 1990 e il 2015 tale quota è scesa dal 37,8 al 10,8% a livello globale e dal 72 all’1,2% in Cina. Di nuovo, cali impressionanti.
Ma nel valutare questi dati occorre tenere presente quanto già tempo era noto. E cioè che, a causa della disuguaglianza, se la soglia della povertà, pur sempre assoluta, viene elevata, anche di poco, la situazione – e la sua evoluzione nel tempo – cambia significativamente. Ad esempio, tra il 1990 e il 2015 il numero di persone con una spesa media giornaliera per consumi inferiore a 10 dollari non è diminuito ma è cresciuto. A livello mondiale è passato da poco più di 3 miliardi e 900 milioni a quasi 4 miliardi e 600 milioni (ma come quota si è ridotto dal 74,3 al 62,5% della popolazione mondiale per effetto dell’aumento di quest’ultima).
In Cina, invece, anche rispetto a questa soglia si è registrata una riduzione: da 1132 milioni a 816 milioni con una riduzione di 316 milioni che in percentuale della popolazione è fortissima: dal 99,7 al 59,1%. La spiegazione sta nell’aumento della popolazione di quasi 250 milioni di unità in quel periodo. I dati sulla diminuzione dei poveri sotto i 2,15 $ (-800 milioni) e i poveri sotto i 10$ (-316 milioni) fanno pensare che in Cina moltissimi di coloro che hanno superato la soglia più bassa non hanno superato quella più alta. Cioè non estremi ma pur sempre poveri.
Si può anche considerare che, se il reddito dei poveri estremi in Cina fosse cresciuto nella stessa proporzione in cui è cresciuto il reddito medio (approssimativamente 15 volte) in quel periodo al di sotto dei 10 dollari si troverebbero solo coloro che partivano da consumi giornalieri inferiori a 0,7 dollari.
A tale proposito, va anche tenuto presente che si stima che occorra un consumo giornaliero di 13 dollari per limitare fortemente il rischio di una caduta (o ricaduta) in povertà. Con riferimento ai soli paesi in via di sviluppo, la quota di popolazione che non raggiunge questa soglia secondo Sumner si aggira sull’80%.
Per una valutazione più compiuta, è utile fare riferimento alla nozione di povertà relativa, quella di norma utilizzata in Europa per valutare il rischio di povertà monetaria. La corrispondente soglia è fissata in corrispondenza del 60% del reddito (non del consumo) disponibile mediano, cioè del reddito percepito dall’individuo che occupa la posizione centrale nella distribuzione dei redditi. Il concetto di povertà relativa, per definizione, è sensibile alla crescita della disuguaglianza, ovvero a un aumento del reddito mediano superiore a quello di chi si situa nella parte più povera della distribuzione. A conferma di ciò, la percentuale di coloro che nel 1990 vivevano in condizioni di povertà relativa in Cina era del 16,1%. Nel 2015 quella percentuale era salita al 22,8% e nel 2019 era lievemente scesa al 21,6%. Dunque, questi dati tratteggiano un panorama ben diverso soprattutto perché riflettono in un modo che è precluso all’indicatore di povertà estrema la dinamica della disuguaglianza complessiva.
Siamo quindi di fronte a un quadro che non può essere facilmente interpretato in chiave sicuramente positiva per moltissimi di coloro che occupano i gradini più bassi della scala dei redditi e dei consumi.
Ulteriori elementi di riflessione su questo problema e sulla possibilità di esprimere un giudizio decisamente positivo sulla dinamica della povertà globale vengono da uno studio pubblicato di recente, da D. Sullivan, M. Moatsos e J. Hickel. La loro tesi, in breve, è che gli indicatori della povertà estrema non tengono conto dello specifico tasso di inflazione dei beni destinati a soddisfare bisogni essenziali, gli unici che entrano nel paniere di beni di consumo acquistabile con 2,15 $ al giorno. Più precisamente, essendo la soglia di 2,15 dollari fissata in parità di potere d’acquisto – o, come anche si dice, in dollari internazionali – il consumo in valuta nazionale deve corrispondere alla spesa necessaria per acquisire un paniere di beni uguale a quello che con 2,15 dollari si può acquisire negli Stati Uniti. Ciò vuol dire che, se non teniamo conto dell’inflazione specifica a quel paniere, ma dell’inflazione media, rischiamo di stimare in modo scorretto la povertà. In altri termini, l’inflazione viene misurata come media della variazione dei prezzi di ogni tipologia di beni ma, all’interno del paniere di consumo medio, i prezzi dei singoli beni possono variare in modo molto eterogeneo, spesso penalizzando in termini di crescita dei prezzi (ad esempio a causa della crescita del costo dei beni alimentari) proprio i beni ‘essenziali’ che caratterizzano il paniere di consumo dei più poveri.
Ne discende che, se si sottostima l’inflazione dei beni essenziali (come avviene per i dati della Banca Mondiale) si finisce per considerare non di povertà una spesa per consumo che invece lo sarebbe se si tenesse conto dell’inflazione effettiva di quel paniere di beni. Sullivan et al. misurano l’inflazione dei beni essenziali a partire dagli anni ’80 e trovano che le conseguenze per la stima delal povertà estrema sono molto rilevanti.
In particolare, in base alle loro stime un drammatico peggioramento si sarebbe registrato in Cina tra il 1990 e il 1995, cioè con l’avvio delle riforme. Calcolata correttamente la variazione del costo del paniere di beni di sussistenza, la quota di popolazione cinese non in grado di acquistare tale paniere sarebbe passata da un valore praticamente nullo al 68%. In quel periodo le stime della Banca mondiale danno un miglioramento di circa 24 p.p. con riduzione dal 72 al 48% circa. In valori assoluti si tratta di 231 milioni poveri assoluti in meno. Sullivan e c. trovano che dal 1995 la quota di estremamente poveri è diminuita ma per gli anni più recenti si registrerebbe comunque un’incidenza della povertà estrema superiore al 20% contro il praticamente 0 delle stime della Banca Mondiale. Un punto che sottolineano molto è che grazie ai servizi offerti dal regime comunista prima delle riforme la povertà estrema era effettivamente caduta fino quasi ad annullarsi alla fine degli anni ’80. E le riforme portarono alla cancellazione di quei servizi e, nella loro stima, ad una forte crescita del prezzo dei beni essenziali.
Le implicazioni di questi risultati per valutare le effettive condizioni di vita di centinaia di milioni di persone sono chiaramente molto rilevanti. i risultati di Sullivan et al. meriterebbero appropriate verifiche ed approfondimenti, ma si può senz’altro convenire che il punto che sollevano sulle modalità di misurazione della povertà estrema (un punto che conferma la grande cautela da usare quando si stima la povertà monetaria) a livello globale è sicuramente molto rilevante e l’auspicio è che le organizzazioni internazionali preposte a queste stime si confrontino con tale punto. Cosa che, forse, avrebbero dovuto già fare.