ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 207/2024

14 Gennaio 2024

Politiche europee e nazionali per la transizione verde (prima parte)

Tiziano Treu, nella prima parte di un articolo che proseguirà sul prossimo numero dei Menabò, muove dalla considerazione che il presente chiede, anche ai giuslavoristi, un forte impegno per far fronte alle numerose sfide che esso pone. Treu si occupa dei problemi che pone la ineludibile transizione ecologica e si sofferma in particolare sugli obiettivi del Green Deal europeo indicando le misure che sarebbero necessarie per superare gli ostacoli che esso incontra nel mondo produttivo e in particolare nel mondo del lavoro.

Le trasformazioni e le crisi degli ultimi anni hanno caratteri e radicalità senza precedenti nella nostra storia recente. I loro motivi e le loro implicazioni per il diritto del lavoro e le politiche sociali sono stati oggetto di molteplici analisi; i giuslavoristi ne hanno segnalato la complessità e la diversità rispetto ai cambiamenti del passato. 

In questo articolo, diviso in due parti, vorrei riprendere e sviluppare alcune riflessioni su uno dei tratti distintivi di queste trasformazioni: la drammatica emergenza climatica, che si è aggiunta alle crisi economiche e sociali degli ultimi decenni.

I giuslavoristi sono chiamati ad occuparsene direttamente, sia perché la crisi climatica avrà conseguenze profonde anche sulla loro materia sollecitando nuove risposte e funzioni, sia perché “il lavoro, inteso come attività produttiva, è il più importante strumento di alterazione della natura da parte degli uomini“ (A. Perulli, Towards a green labour law, in Labour Law and Climate Change, a cura di A. Perulli, T. Treu, W. Kluwer, 2023, p. 22). E le regole, oltre che la organizzazione del lavoro, non sono estranee alle vicende che hanno portato a questa crisi.

Di questa responsabilità occorre essere consapevoli per recuperare i ritardi della nostra disciplina sulla questione ambientale e per ricercare risposte in grado di affrontarla, applicando alla gestione dei rischi ambientali le conoscenze e le tecniche sviluppate nel gestire i rischi sociali. 

La mia riflessione riguarda le misure adottate dall’Unione Europea, in particolare nel Green New Deal e nel NGEU, e le loro ricadute nel nostro paese a tre anni dal loro avvio, tenendo conto anche degli interventi in materia di lavoro e di occupazione che nell’impostazione dell’UE sono destinati ad accompagnare la (necessaria) transizione ecologica, in modo da garantirne la sostenibilità sociale. Si tratta di riflessioni parziali e provvisorie, basate sulle analisi e sui dati disponibili, ma che possono essere utili anche per eventuali correzioni di rotta

Gli ambiziosi obiettivi del Green Deal europeo e le difficoltà di implementazione. Le proposte e le iniziative, dell’UE e degli stati nazionali, sulla questione ambientale sono al centro di controversie che nascono dalla tensione fra il rispetto dell’ambiente e gli obiettivi di crescita e occupazione. 

Le tensioni sono già evidenti su questioni essenziali: come riconvertire molti settori tradizionali specie energivori (emblematici i settori automotive e siderurgico, nel quale ultimo rientra la drammatica controversia dell’ILVA); come ricollocare e ridare professionalità a migliaia di lavoratori; come ripensare le strutture produttive e agli assetti urbanistici; come promuovere il risparmio energetico; infine, non da ultimo, come distribuire i costi delle transizioni ecologica e digitale in modo equo. 

In linea con l’agenda 2030 dell’ONU, la Unione Europea ha assunto impegni alquanto ambiziosi riguardo alla transizione ecologica (FIT for 55), che richiedono scelte di politica industriale ed economica in forte discontinuità con il passato – quindi non indolori. 

L’UE ha destinato gran parte delle ingenti risorse messe a disposizione con fondi comuni, in particolare con il NGEU (di cui l‘Italia è il primo beneficiario) al principale obiettivo dell’European Green Deal: la neutralità. 

L’implementazione delle indicazioni del NGEU e dei relativi piani nazionali è soggetta a un test particolarmente difficile, non solo per la ristrettezza dei tempi, ma anche perché investimenti e attività green rischiano di essere in contrasto con gli assetti produttivi esistenti. 

Queste tensioni si sono già tradotte. non solo in Italia, in forti pressioni se per ritardare, se non per bloccare, le riconversioni produttive e professionali richieste dalla transizione ecologica.

Le resistenze sono diffuse e non riguardano solo le imprese e i settori direttamente colpiti dalla rivoluzione verde. I loro riflessi indiretti sono più vasti e potenzialmente generali, in quanto la transizione ecologica implica un cambiamento strutturale del modello produttivo prevalente e dello stesso modo di concepire la crescita, le forme organizzative delle imprese e anche i comportamenti delle persone (Cfr. B. Caruso, T. Treu, R. Del Punta, “Il diritto del lavoro nella giusta transizione”Centre for the Study of European Labour Law M. D’Antona, 2023). Inoltre l’attuale complessità delle strutture produttive fa sì che le difficoltà di un settore si trasmettano a quelli connessi, con effetti domino. 

La piena attuazione degli impegni del PNRR presuppone non solo una corretta finalizzazione degli investimenti in capo alle imprese, cui si richiede di realizzarli rispettando le condizioni paesaggistiche e archeologiche del territorio e di coinvolgere i diversi stakeholder interessati ai progetti, a cominciare dai lavoratori e dalle comunità locali. 

Come hanno rilevato attenti osservatori, il successo della transizione verde presuppone un radicale cambiamento di ottica sulle questioni dell’ambiente, superando la tradizionale settorialità e separatezza delle relative politiche, per interiorizzarle negli obiettivi e nella strumentazione di tutte le principali policy pubbliche e private.

Molti giuslavoristi condividono la fiducia contenuta nell‘Agenda 2030, sulla convergenza degli obiettivi della transizione verde con quelli di una crescita equilibrata e inclusiva e di una buona occupazione (ad es. M. Barbera, Giusta transizione ecologica e diseguaglianze: il ruolo del diritto, GDLRI, 2022).

Senonché tale fiducia va sostenuta con argomentazioni e con pratiche che rendano convincente e accettabile per tutti gli stakeholder il possibile bilanciamento fra i diversi interessi e valori in gioco nel rapporto fra crescita, lavoro e ambiente. 

Tale bilanciamento non è agevole, perché va contro prassi e convinzioni consolidate, per le quali tali interessi e valori sarebbero in irriducibile contrasto.

La nostra riflessione di giuristi e di intellettuali responsabili non può limitarsi a generiche indicazioni o ad appelli assiomatici, per non lasciare il campo al disordinato dibattito politico o, peggio, al malcontento in cui pescano i vari populismi.

Per sostenere la fiducia in una transizione ecologica che sia non solo effettiva ma giusta, cioè sostenibile dal punto di vista sociale ed economico, servono argomenti e percorsi nient’affatto evidenti.

I tempi della transizione verde e le implicazioni per il sistema produttivo. Una prima condizione per questa sostenibilità riguarda i tempi della transizione.

La difficoltà di trovare quel giusto bilanciamento è massima se si guarda al breve periodo e all’ attuale contingenza come dimostrano, tra l’altro, i timori, le oscillazioni e le polemiche presenti non solo nei nostri paesi circa le sorti di molti settori tradizionali energivori. 

Le politiche per la sostenibilità sociale e umana della transizione devono essere orientate al medio periodo, anche se dovranno tenere conto delle urgenze poste dalla crisi climatica. Quelle indicate dal NGEU e dai piani nazionali potrebbero essere soggette a verifica.

Nel merito tutti i documenti europei e nazionali hanno indicato la necessità di mettere in opera politiche innovative sia industriali ed economiche sia del lavoro in grado di accompagnare la transizione ecologica.

Quanto alle prime, non avendo le competenze per fornire elementi specifici, mi limito a rilevare che la riconversione del nostro sistema industriale richiederà, oltre che grandi investimenti, solo in parte previsti dal PNRR e quindi da integrare con risorse nazionali, anche un salto di scala nella capacità di innovazione e nelle dimensioni degli interventi. Il che è realizzabile solo con una integrazione di tali politiche su scala europea in modo da stare al passo con i grandi competitor internazionali.

In ogni caso le istituzioni pubbliche e le parti sociali dovranno preoccuparsi che il perseguimento degli obiettivi ecologici non comporti la deindustrializzazione del paese. Ciò richiede di non limitarsi a rafforzare le tradizionali politiche difensive, come in primis gli ammortizzatori sociali; occorre, nei vari settori e territori, creare le condizioni di sistema perché sia possibile e conveniente riconvertire le strutture tradizionali e aprire nuove iniziative, sfruttando le occasioni economiche e tecnologiche che la transizione verso la sostenibilità può offrire.

Transizione verde e politiche del lavoro europee. La transizione ecologica, come quella digitale, sollecita risposte innovative non solo nel sistema produttivo, ma anche nei rapporti e nel mercato del lavoro, per le sue ricadute dirette sulla quantità e sulla qualità della occupazione. 

Le prime sono di dimensione ancora incerta, dipendendo dall’ efficacia delle politiche finalizzate a promuovere l’occupazione (cfr. C. Lucifora, C. Gagliardi, R. Maroni, S. Scaccabarozzi, Occupazione e PNRR: cambiamenti e mismatch nella struttura dell’occupazione, Rapporto Cnel sul Mercato del lavoro, 2022). Le seconde avranno un sicuro impatto sul mix dei mestieri tradizionali e delle relative competenze e andranno affrontate con interventi mirati di reskilling e upskilling per gran parte dei lavoratori. 

Di questo la Commissione europea è consapevole, come prova la serie di impegni e direttive in materia sociale attivate dalla presidenza Von der Leyen, in applicazione dei principi dell’European Pillar of social rights e del relativo Action Plan (cfr. M. Corti, Il pilastro europeo dei diritti sociali e il rilancio della politica sociale dell’UE, Vita e pensiero, 2021)

Alle implicazioni della transizione ecologica per il mondo del lavoro sono inoltre dedicati documenti specifici, come lo European Climate Pact del 2020 (Comunication from the Commission to the European Parlament, The Council, the European econ. and social comittee and the Comittee of Regions, 9.12.2020 COM(2020) 788 final). che prevede una piattaforma per attivare iniziative di cittadini e Istituzioni dirette ad accompagnare la cura per il clima con interventi a favore della salute, della formazione e del well being dei cittadini: promozione di green skills, di mobilità e di spazi green.

Inoltre le indicazioni europee sul clima (EU Climate Target Plan, in particolare: Comunication from the Commission stepping up Europe’s, 2030, Climate ambition, COM 2020/256 final) ha impegnato imprese e parti sociali a contribuire insieme alla riqualificazione dei lavoratori nelle nuove competenze richieste dalle due transizioni, indirizzando in tale direzione parte dei fondi del Fondo sociale europeo. 

In linea con queste indicazioni il PNRR italiano, come i piani di altri paesi, dedica consistenti risorse del NGEU a sostenere programmi di formazione continua e di assistenza alla ricollocazione per i lavoratori interessati ai processi di ristrutturazione e riconversione aziendali messi in atto secondo gli obiettivi del Piano.

Debolezza e limiti dei provvedimenti europei in materia sociale. Per apprezzare queste iniziative europee, occorre considerare che il passaggio dalle affermazioni di principio e programmatiche alle concrete misure applicative, è ostacolato dalla limitatezza delle competenze dell‘UE in materia sociale e del lavoro, oltre che dalle divisioni fra i paesi membri, che si risolvono spesso con mediazioni al ribasso. 

Ad esempio, la direttiva sul salario minimo adeguato (2022/2041), varata dopo mesi di consultazioni con tutti gli stakeholder, ha perso quasi tutti i contenuti vincolanti sui punti principali, cioè adeguatezza dei minimi fissati per legge e modalità per dare efficacia generale ai contratti collettivi nei paesi che ricorrono allo strumento contrattuale per stabilire tali minimi. 

La impossibilità di forzare i limiti delle competenze dell’UE in materia retributiva ha contribuito a far apparire il provvedimento più una raccomandazione che una vera direttiva.

Anche l’iter della proposta di direttiva relativa ai lavori su piattaforma, è stato alquanto travagliato, con il risultato di ridurre le possibilità di controllo dei lavoratori e delle loro rappresentanze sui cd meccanismi automatici d’intervento nei rapporti di lavoro (a cominciare dall’ intelligenza artificiale), indebolendo così la effettività del principio ispiratore originario del controllo umano su questi meccanismi (per approfondimenti, cfr.T. Treu, Diritti e politiche sociali dell’Unione Europea dopo la Conferenza sul futuro dell’Europa, LD, 2023). 

Il decalage fra principi affermati nei testi e applicazioni effettive è riscontrato anche in altri ambiti, come stanno denunciando con insolita durezza i sindacati europei.

Inoltre un rapporto di ricerca dell’ETUI dedicato alle risposte dell’UE alla crisi energetica, denuncia lo squilibrio fra le misure di stabilizzazione dell’economia, oltretutto vantaggiose soprattutto per i gruppi a più alto reddito, e quelle di protezioni sociale e ambientale.

Particolarmente significativo è l’ambito degli istituti di welfare, a cominciare da quelli di sostegno dei lavoratori in caso di crisi occupazionale. Gli obiettivi indicati dai documenti europei, come anche in molti programmi nazionali, pongono a questi istituti compiti nuovi e più impegnativi del passato, perché essi sono chiamati non più solo alla stabilizzazione dell’esistente, rimediando crisi occasionali, ma a fornire un contributo alla gestione delle transizioni che potenzialmente interessano migliaia se non milioni di lavoratori. 

In questo un intervento dell’UE a sostegno dei sistemi nazionali è importante, se non decisivo, specie per gli Stati membri più esposti alle crisi e con minori disponibilità finanziarie, come il nostro. 

Per rispondere a queste urgenze sono state avanzate varie proposte di intervento europeo: dalla proroga del SURE, che ha svolto un’utile funzione di sostegno dei programmi nazionali di cassa integrazione e simili nel corso del Covid; alla istituzione di una indennità europea per le ipotesi di disoccupazione (sulla base di un progetto avanzato dall’Italia).

Ambedue queste proposte sono rimaste finora senza seguito, il che conferma la difficoltà delle autorità europee di attuare interventi incisivi nelle aree critiche delle politiche sociali, a sostegno se non in sostituzione delle politiche nazionali. 

Cosicché questi istituti di welfare, come le materie delle politiche attive del lavoro e della formazione professionale restano, oggi come in passato, affidate alle iniziative dei singoli Stati membri. Da parte europea sono oggetto di iniziative di semplice coordinamento, sostenute da agenzie specializzate, con compiti di studio e di assistenza tecnica: una strumentazione, rivelatasi solo parzialmente efficace, come tutte quelle affidate al metodo aperto di coordinamento, e in ogni caso inadeguata ad affrontare le nuove sfide poste a questi istituti dalle transizioni in atto nelle nostre economie. 

Schede e storico autori